Bentornati per il secondo
“episodio” del nostro viaggio nel rapporto tra cinema e letteratura. Nella
scorsa puntata abbiamo parlato dell’importanza dell’argomento letterario nella
produzione cinematografica sin a partire dai primi del Novecento, quando il
cinema muto doveva raccontare le sue storie in immagini e didascalie, e i primi
passi compiuti nel favoloso mondo del sonoro prima e poi del “tecnicolor”. A
questo proposito voglio rivelarvi una curiosità: il primo film a colori fu una trasposizione ben riuscita del classico
di William Makepeace Thackeray “La fiera della vanità” dal titolo “Becky
Sharp” e datata ben 1935! Per
intenderci, in Italia questa tecnologia giunse solo nel 1952, anno dell’uscita
di “Totò a colori”, che tutti ricorderanno per la famosissima gag del burattino
ispirata a Pinocchio. Fatte queste premesse, possiamo continuare il nostro
excursus.
"Le avventure di Pinocchio", con Nino Mandredi |
Negli anni ’70 la cinematografia
e la televisione cominciarono a seguire filoni eterogenei che rispecchiavano
l’incertezza dei tempi, data dalla tensione provocata dalla guerra fredda tra
Stati Uniti e Russia, ma anche dalla crescente violenza di matrice terroristica
che investe l’Italia nei così detti “anni di piombo”. I registi avvertono la necessità di deliziare gli spettatori
attraverso tematiche e opere che lascino spazio sia alla riflessione
psicologica, sia alla pura forma di intrattenimento. Nel primo caso,
ritorna in auge il cinema d’evasione, impregnato dell’ideologia delle
contestazioni sociali legate al tempo (ricordiamo il genere musical, con “Jesus
Christ Superstar” e “Hair”); per quanto riguarda l’intrattenimento, invece, si
nota una nota di malinconia in tutta la produzione del tempo. La televisione
continua a sfornare nuovi sceneggiati di matrice letteraria, dei quali il più
conosciuto è sicuramente “Le avventure
di Pinocchio” di Luigi Comencini, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Collodi. Il teleromanzo in sei puntate racconta in modo fedele la storia del burattino
divenuto bambino anche se, rispetto al testo e per ovvie scelte registiche,
Pinocchio viene impersonato da un bambino vero e in poche occasioni diventa un
burattino (in genere quando deve essere punito per una malefatta). Inoltre, è
inevitabile ricordare le grandi interpretazioni, in questo lavoro, di Nino Manfredi, Franco Franchi e Ciccio
Ingrassia, attori comici che riuscirono a trasmettere la patina malinconica
dell’intero romanzo, rendendo la messa in scena realistica nonostante il suo
appartenere al genere fantastico.
Nello stesso tempo, ritorna l’interesse per il genere horror
proponendo una serie di film che raccontarono allo spettatore il genio di Edgar
Allan Poe: molto apprezzata la produzione televisiva “I racconti fantastici di Edgar Allan Poe” (Daniele D'Anza, 1979) che
portò sullo schermo una raffinata rapsodia dei racconti dell’autore basata
sulla suggestione onirica e il potere orrorifico.
Sempre di questi anni (1974) è lo sceneggiato “Malombra” dall’omonimo romanzo di
Fogazzaro, che cito perché rappresenta un’interessante sfida per la
televisione, ovvero quella di rendere lo “spiritismo” che attraversa l’intero
romanzo senza stravolgerlo mettendo in risalto proprio quegli elementi gotici e
metapsichici che in realtà fanno da sfondo all’intera vicenda. Il risultato è
una trasposizione classica, che giustifica la necessità di trovare una via di
mezzo tra la fedeltà al testo e la resa televisiva nella dicitura “libero
adattamento”.
"Il fiore delle mille e una notte" di Pasolini |
Se la televisione voleva
spaventare, il cinema di questi tempi
intende parlare della fervente affermazione della parità dei sessi,
attraverso una vera e propria critica dell’idea mercifica del corpo della
donna: a tal proposito è importante ricordare la “Trilogia” di Pasolini, che racchiude “Il Decameron” di
Boccaccio, “I racconti di Canterbury” di Chaucer e “Il fiore delle mille e una
notte” (trasposizione de “Le mille e una notte”), film-denuncia non solo rispetto la volgarità di certi costumi, ma anche
dell’idea di sottomissione della donna ancora radicata nella società italiana.
Inutile dire che il suo lavoro venne mal compreso e diede il via alle scadenti
trasposizioni erotiche delle grandi produzioni di matrice letteraria.
L'interpretazione di Marlon Brando ne "Il padrino" di Coppola |
Del 1972 è invece il primo film di una trilogia ispirata ad
uno dei primi romanzi sulla mafia americana: si tratta de “Il Padrino” di Mario Puzi, portato alla ribalta da Francis Ford
Coppola, del quale si ricorda l’intensa interpretazione di Marlon Brando
nei panni di Don Vito Corleone, che gli valse la vittoria di un Oscar che
preferì rifiutare come protesta per la situazione degli ameridi.
Nel frattempo, in Italia, Alberto Sordi portò nelle sale italiane una brillante versione de “Il
malato immaginario” di Molière, che però non ha nulla a che vedere con il
testo originale, se non l’ipocondria del protagonista.
Sempre dello stesso anno uno dei più grandi capolavori del
registra Stanley Kubrik: “Arancia
meccanica”, dall’omonimo romanzo distopico-fantapolitico di Anthony Burgess,
che riprende la tematica orwelliana della necessità della violenta società di
controllare il pensiero dell’uomo, laddove questo è solo un “meccanismo ad
orologeria”, un essere alienato che può fare solo il bene o il male. Il film è
molto fedele al libro, ma praticamente sconosciuto, nonostante la sua
genialità, alle nuove generazioni: la prima messa in onda televisiva (non in
pay per view, com’era accaduto nel 1999)
infatti risale al 2007, tra l’altro in seconda serata, rompendo quel
tabù che per trentacinque anni aveva tenuto lontano dal pubblico la pellicola,
considerata non adatta ad un pubblico minorenne. Ma pochi ricordano “Barry
Lyndon” dello stesso regista, ispirato da “Le
memorie di Barry Lyndon” di Thackeray, considerato un’opera magna in fatto
di estetica. Kubrik disse di tale romanzo:
Barry Lyndon, interpretato da Ryan O' Neal nel film di Kubrik |
“Thackeray usava
l'osservatore 'imperfetto' – anche se sarebbe più corretto dire l'osservatore
'disonesto' – consentendo al pubblico di giudicare da sé la vita di Redmond
Barry. Questa tecnica andava bene per il romanzo, ma non per un film, in cui
hai dinanzi a te una realtà oggettiva per forza! Il narratore in prima persona
avrebbe funzionato se il film fosse stato una commedia: Barry diceva il suo
punto di vista, in contrasto con la realtà oggettiva delle immagini, e allora
il pubblico avrebbe riso per questa contrapposizione. Ma Barry Lyndon non è una
commedia. (…)
Barry Lyndon offriva
l'opportunità di fare una delle cose che il cinema può realizzare meglio di
qualunque altra forma d'arte: presentare cioè una vicenda a sfondo storico. La
descrizione non è una delle cose nelle quali i romanzi riescono meglio, però è
qualcosa in cui i film riescono senza sforzo, almeno rispetto allo sforzo che
viene richiesto al pubblico”.
La pellicola non ha avuto il successo meritato, nonostante
lo sforzo del regista di rendere realistici non solo i personaggi, ma anche i paesaggi,
nonostante dei curiosi anacronismi rappresentati da una cartina che segna il
percorso di un treno a vapore (inesistente nel Settecento) o dal riferimento al
Regno del Belgio, nato solo nel 1830.
Se negli anni Settanta la trasposizione cinematografica
abbraccia più filoni, vedremo come negli anni ’80 si basi essenzialmente sul
giallo deduttivo, genere dei romanzi di Stephen King e de “Il nome della rosa”
di Umberto Eco. Ma per intercalarci in queste atmosfere, non mi resta che darvi
appuntamento alla prossima settimana.
Non avevo idea che "Il padrino" fosse stato tratto da un romanzo. A quanto pare il boom dei films tratti dai libri non è scoppiato solo ora, cinema e televisione vi hanno sempre attinto a piene mani, solo che non ce ne accorgiamo perchè molti romanzi non sono noti (almeno in Italia).
RispondiEliminaBel post :)
Ciao Emy, sono contenta che ti sia piaciuto il post. Se sei interessata, se scorri nei vecchi post, puoi trovare un post relativo alle trasposizioni cinematografiche di testi letterari dai primi del novecento agli anni '60
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