giovedì 11 aprile 2013

Poems (54): “In un momento” di Dino Campana e “Rose calpestava nel suo delirio” di Sibilla Aleramo








Quando si parla di Dino Campana è quasi impossibile dimenticare Sibilla Aleramo. Questo connubio sentimentale durato un attimo, quel “viaggio (che) chiamavamo amore” distruttivo e degradante, scandito dalla poesia e dal furore psicotico di un uomo che concluse la sua vita in manicomio. La donna più bella d’Italia, quella che aveva abbandonato il marito e celebrato la sua identità nel romanzo Una donna (del quale trovate la recensione di Malitia qui), e il giovane attraente, studente di Chimica, autore de Il più lungo giorno e Canti orfici. Della loro relazione, oggi rimane un carteggio di circa cinquanta lettere, dove la poesia è intervallata dalla prosa e dai romantici nomignoli – “Cloche” per lui (francese per Campana) e “Cara Signora” per lei.

Se alcun indugio vi lascio a due poesie molto significative: la prima segna la fine della storia d’amore tra i due letterati, conclusasi davanti al cancello del manicomio dove lui sarà internato per il resto della sua breve vita; la seconda è come un eco della prima, scritta dalla Aleramo per Dino, straziata per il loro amore, conclusosi a causa delle percosse e dei disturbi del poeta.
Inevitabile non pensare a Dino Campana come un postumo poeta maledetto, dilaniato dalla sua poesia e creatività tanto da esserne sopraffatto. Sibilla Aleramo rappresenta invece la donna che ha preso piena coscienza del suo essere un’umana e non una bambola, come direbbe Ibsen.



                                                       
In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose.

P.S. E così dimenticammo le rose.

 Dino Campana a Sibilla Aleramo, 1917

***

Rose calpestava nel suo delirio
E il corpo bianco che amava.
Ad ogni lividura più mi prostravo,
oh singhiozzo, invano, oh creatura!

Rose calpestava, s’abbatteva il pugno,
e folle lo sputo su la fronte che adorava.
Feroce il suo male più di tutto il mio martirio.
Ma, or che son fuggita, ch’io muoia del suo male.

Sibilla Aleramo

Del tragico amore tra i due letterati non resta che il ricordo e poche righe nei libri scolastici, mentre per chi vuole leggere di questa fugace e ardente passione può dare una lettura al carteggio di cui parlavo prima, per anni disponibile sul web, ora raccolto nell’epistolario Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916 – 1918, edito Feltrinelli, che prende il nome non solo da un verso del Campana, ma dall’omonimo film di Michele Placido del 2002, che vede come protagonisti Stefano Accorsi e Laura Morante.


Qui trovate un saggio della bravura di Accorsi nell’interpretare Campana nel declamare “In un momento”.



Dino Campana
Nato a Marradi (Firenze) il 20 Agosto del 1885,  Dino Campana visse una giovinezza travagliata, ribelle e disperata. Compì i primi studi a Faenza, presso il Convitto Salesiano, iniziò gli studi liceali a Faenza, e li finì  a Carmagnola (Torino).
 Dopo un ricovero al manicomio di Imola (1906), abbandonò gli studi di chimica pura all'università di Bologna ed iniziò una serie di vagabondaggi in Svizzera e Francia (1907).
Nel 1908 lavora in Argentina come bracciante, si reca poi a Odessa, Anversa, Bruxelles, Parigi. Nel 1909 viene arrestato e quindi internato in una clinica di Firenze, riprende gli studi universitari ed ha contatti col gruppo di poeti e intellettuali fiorentini futuristi.
Nell'autunno 1913 porta a Firenze, per consegnarlo a Soffici e Papini il quadernetto dei suoi Canti orfici, ma nella primavera successiva è costretto a riscriverli perché Soffici ha perduto il manoscritto. 
Segue una nuova fase di viaggi, a Torino, Domodossola e poi a Ginevra, dove fa l'operaio.
 Allo scoppio della guerra vorrebbe arruolarsi come volontario, ma viene di nuovo rinchiuso in manicomio e nel 1916 conosce Sibilla Aleramo con la quale ha una relazione difficile ma importante anche per il carteggio che ha prodotto.
Nel 1918 Dino Campana viene ricoverato nell'ospedale psichiatrico di Castel Pulci, dove morirà nel 1932.
 Molti suoi scritti usciranno postumi: Inediti (1942), Taccuino (1949), Canti orfici e altri scritti (1952), Lettere (1958), Taccuinetto faentino (1960). Nel 1970 è stato pubblicato il manoscritto perduto, Il più lungo giorno, recuperato tra le carte di Soffici.

Sibilla Aleramo
Pseudonimo di Rina Faccio, Sibilla Aleramo nasce ad Alessandria il 14 agosto 1876. Presto si stabilisce con la famiglia a Civitanova Marche dove, con matrimonio riparatore, sposa a quindici anni un giovane del luogo.
Nel 1901 abbandona marito e figli iniziando, come lei stessa amava dire, la sua “seconda vita”. Conclusa una relazione sentimentale con il poeta Damiani, si lega a G.Cena ma, dopo la crisi con quest’ultimo, inizia una vita errabonda che la avvicina a Milano e al movimento Futurista, a Parigi e ai poeti Apollinaire e Verhaeren, infine a Roma e a tutto l’ambiente intellettuale ed artistico di quegli anni (qui conosce Grazia Deledda).
Durante la prima guerra mondiale incontra Dino Campana e con lui inizia una relazione complessa e tormentata.
Nel 1936 conosce il giovane Matacotta, a cui resta legata per 10 anni e di questo periodo — la sua “quarta esistenza” — lascia testimonianza nel diario che l’accompagnerà fino alla morte.
Al termine della seconda guerra mondiale si iscrive al P.C.I. e si impegna intensamente in campo politico e sociale. Collabora, tra l’altro, all’«Unità» e alla rivista «Noi donne».
Muore a Roma nel 1960, dopo una lunga malattia.

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