Qualche tempo fa, mentre ero impegnata nella ricerca di
informazioni sullo stato della traduzione letteraria in Italia per un articolo
dedicato (che includeva l'interessante intervista a Cristina Volpi, traduttrice
di notevole talento che collabora con case editrici del calibro di Sperling&Kupfer, Sonzogno e Bompiani), ho
avuto modo di leggere un dato che mi ha lasciata impressionata: secondo l'AIE,
nel giro di 15 anni, dal 1997 al 2012, le traduzioni nel nostro paese sono
diminuite sensibilmente, passando dal 25% a meno del 20%. Ovviamente questa
notizia mi ha inquietato, dato che questo calo avrà sicuramente un forte
impatto culturale in termini di conoscenza e circolazione delle idee.
Mi trovo oggi a leggere i dati legati alla traduzione nel
mondo anglofono e se in Italia si piange, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti
non c'è niente da ridere: secondo quanto riportato da Alexandra Büchler di
“Literature Across Frontiers”, nel 2012 appena il 2,5% dei titoli pubblicati
nel Regno Uniti erano traduzioni di opere straniere, mentre negli Stati Uniti,
paese “nato” con l'immigrazione e che racchiude dentro di sé quindi una
pluralità di voci, si arriva appena al 3%. Percentuali irrisorie, se
confrontate con quanto accade in altri paesi, soprattutto europei (stupisce il
dato della Polonia, con ben il 46% di titoli tradotti sul mercato totale).
Personalmente non sono stupita da questi risultati, anche se
non mi aspettavo che i numeri fossero così bassi: è probabile che io stessa sia
vittima di un pregiudizio, ma avendo soggiornato molto spesso in Gran Bretagna
e avendo conosciuto diverse persone, ho percepito una sorta ritrosia a lasciare
spazio alle voci “forestiere”, soprattutto se i “forestieri” non si esprimono
in inglese, lingua che ormai sovrasta e contamina la maggior parte degli idiomi
al mondo. Non ne è immune nemmeno la Francia, paese piuttosto fiero del proprio
nazionalismo linguistico: anche lì, sulle copertine di diverse riviste,
ultimamente hanno iniziato a comparire parole inglesi come “look” e “trendy”
ecc... Insomma l'avanzata dell'inglese pare inarrestabile!
La Gran Bretagna rimane una nazione che offre tantissimo,
certo non è un blocco monolitico, ma un luogo aperto alle diversità (basta
osservare Londra: cosmopolita, multietnica, città dalle mille possibilità che
attira moltissime persone dai 5 continenti), forse però è meno propenso alla
contaminazione culturale “non-English speaking” di quanto si possa
pensare.
A questo proposito, il sito Publishing Perspective ha
pubblicato un paio di mesi fa un editoriale molto interessante scritto da
Joanna Zagdzaj e Nancy Roberts della Stork Press, casa editrice specializzata
in titoli provenienti dall'Europa centrale e orientale, in cui si parla della
difficoltà di entrare del mondo editoriale britannico degli autori che non
scrivono in lingua inglese. Le due titolari hanno riportato un episodio
emblematico: invitate a un evento organizzato da uno dei maggiori quotidiani
del paese, si sono sentite dire che l'interesse era tutto dedicato agli autori
britannici e statunitensi, insomma non c'era alcuno spazio per i titoli
tradotti, nessuno della pagine della cultura era disposto a leggerli e
recensirli, pregiudicandone il successo editoriale già da subito, visto
l'importanza delle recensioni per far conoscere le novità letterarie al grande
pubblico. In questo hanno notato una notevole differenza nell'attitudine dei blogger,
ben più disposti a “prendersi in carico” una traduzione per recensioni e
commenti sul proprio blog.
Ma quali sono le ragioni addotte per questo atteggiamento di
chiusura? Una, molto semplicistica, afferma che i titoli tradotti sono spesso
“troppo letterari”, “troppo seriosi”, insomma mattoni per intellettuali con la
puzza sotto il naso, che non possono piacere al grande pubblico. Un'altra
riduce tutto a un puro calcolo economico: tradurre un libro costa. Rimango
sempre stupita quando leggo questo: non metto in dubbio che esistano costi
legati ai diritti di autore ecc, ma facendo i traduttori editoriali (salvo rare
eccezioni) non si diventa ricchi, da nessuna parte. Si può dedurre però che la
ridotta possibilità di avere un mercato faccia sì che siano in pochi a voler
rischiare e addossarsi dei costi che potrebbero non rientrare. Inoltre,
paradossalmente, sono i grandi editori i più restii nei confronti dei libri non
scritti in inglese: i colossi sono disposti a investire solo nel caso si tratti
di nomi noti, con magari un paio di riconoscimenti internazionali alle spalle
(e in quel caso sì, le opere tradotte possono essere non di immediata fruibilità),
oppure di filoni letterari che sono riusciti a imporsi ai gusti del grande
pubblico: penso ad esempio ai gialli scandinavi (capostipite Stieg Larsson con
la trilogia di Millenium), che anche nel Regno Unito si sono conquistati il
loro “posto al sole”.
Le piccole case editrici si dimostrano invece più aperte a
pubblicare le traduzioni, ma ovviamente, a causa delle limitate risorse
finanziarie a loro disposizione non possono investire in grandi operazioni di
marketing e pubbliche relazioni, quindi il loro impatto sul mercato generale
rimane comunque limitato.
Bisogna ammettere che a rendere più variegato il panorama
letterario anglosassone è proprio Amazon, demonizzato da gran parte degli
operatori nel settore, che però è il maggior venditore di libri, anche di
quelli tradotti, e che li mette in vendita tutti, senza giudicare a priori...
semplicemente li mette a disposizione a coloro che sono interessati. Un dato di
fatto che editori e recensori dovrebbero prendere in considerazione.
Joanna Zagdzaj e Nancy Roberts dedicano l'ultima parte del
loro editoriale alla “missione” che le piccole realtà svolgono: assumendosi il
rischio di tradurre un'opera promettente non in lingua inglese di uno scrittore
straniero, permettono al pubblico di accedere a una molteplicità di storie e di
punti di vista.
Le major sembrano quasi ignorarlo, ma nella blogosfera c'è un
grande fermento legato ai titoli tradotti e in internet i lettori appassionati
non perdono occasione di fare opera di “evangelizzazione” nel promuovere i
libri che amano. Ricordano giustamente che fino a non troppo tempo fa i libri
scritti da autrici, non autori, non venivano presi pressoché in
considerazione: una battaglia è stata combattuta e ora possiamo leggere
capolavori di scrittrici di assoluto talento, forse è giunto il momento per il
Regno Unito di intraprendere una nuova battaglia a favore delle traduzioni: loro,
le piccole case editrici sono già in prima linea, ora è il turno di altri
soldati di affiancarle. E nel mentre lanciano una provocazione: gli editori
d'”oltremare” dovrebbero “americanizzare” il nome dei loro autori per avere una
distribuzione nel mercato USA?
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