Si è da poco conclusa la XXVI
edizione del premio Italo Calvino
(qui la XXV), che quest'anno -in linea con la costante crescita degli
esordienti – ha contato ben 570 manoscritti inediti
pervenuti alla giuria.
Il premio è stato istituito nel 1985 a
Torino, in onore dello scrittore omonimo, è aperto a qualsiasi
categoria ed è gestito da un'associazione senza scopo di lucro.
L'idea è quella di aiutare giovani e meritevoli scrittori a farsi
conoscere dall'editoria e dal pubblico dei lettori.
Durante la cerimonia di premiazione,
svoltasi il 19 aprile a Torino, la giuria -composta da Irene
Bignardi, Maria Teresa Carbone, Matteo Di Gesù, Ernesto Ferrero e
Evelina Santangelo- ha
messo sul podio Cartongesso, il
testo di Francesco Maino:
“per
la sua natura felicemente ibrida (non è un romanzo né un saggio né
un pamphlet) ‒ un difficile azzardo che nulla toglie alla sua
capacità di coinvolgimento ‒ e per la straordinaria potenza
inventiva della lingua.” (fonte:
premiocalvino.it)
Una
menzione speciale è stata riservata a I
costruttori di ponti
di Simona
Rondolini: la
protagonista, di famiglia altoborghese ‒ un perfetto esempio del
complesso di Elettra: ama il padre e odia la madre ‒, realizza
dapprima una full immersion nella musica di Mahler eseguita dal padre
direttore d’orchestra, per poi annullarsi in una macabra esperienza
lavorativa ‒ resa con icastica e allucinata evidenza ‒ in
un’azienda che tratta carne di coniglio. Solo alla fine riuscirà a
recuperare un incerto e fragile equilibrio.
Come
fossi solo di Marco
Magini ha ottenuto la seconda
menzione speciale: ci
precipita nell’incubo del massacro di Srebrenica, raccontato da tre
personaggi: un giudice del Tribunale penale internazionale, un
soldato olandese del contingente Onu di interposizione, un miliziano
serbo-bosniaco. La forza del libro è nella materia stessa e
nell’abilità dell’autore di penetrare nelle tre psicologie con
somma sinteticità; riuscitissima la rappresentazione della violenza
etnica, cui tutti sembrano destinati a subordinarsi, in un vortice di
ataviche pulsioni e di cedimenti della volontà. Anche qui, comunque,
è in scena un’umanità mentalmente fragile e indifesa, pronta a
discendere la china dell’autodissolvimento e della rinuncia a
scegliere.
Potete
trovare gli altri finalisti e la trama delle loro opere sul sito del
Premio Calvino.
Cartongesso - Francesco Maino
Testo
di grande originalità, non propriamente definibile romanzo, ma
sicuramente opera letteraria.
E un'invettiva viscerale e drammatica, dai toni profetici (non a caso
viene citato l'Ecclesiaste),
ricchissima e creativa sul piano del linguaggio (una mescolanza tra
italiano colto e "grezzo"
veneto) contro l'essenza e la realtà del Veneto attuale (una sorta
di "waste land"), un'invettiva
che ne aggredisce la mutazione antropologica e ambientale,
allargandosi peraltro all'Italia
intera, alla sua classe politica, alle sue carceri, alla sua
giustizia, al suo sistema universitario...
Questo grido doloroso, violento e sarcastico, da un certo momento in
poi, si intreccia,
fondendovisi, con la condizione esistenziale dello stesso
autore/narratore.
Un’invettiva,
come si e detto, ma anche un congedo che l'autore mette in atto
mascherandosi dietro
la figura di Michele Tessari, un avvocato quarantenne affetto da
disturbo bipolare, male che ben
metaforizza il lancinante odio-amore provato per la propria terra. La
rampogna impietosa fa infatti
emergere, per converso, il grande amore per un passato temporalmente
vicino, ma lontano
anni-luce,
nello spirito, dall'oggi. Tutto ciò rende il vituperante
autore/narratore ‒ che guarda i veneti
"cogli occhi dell'angelo annunciatore", naturalmente di
disgrazia ‒ incapace di divincolarsi, incapace
di cercare un altrove. Questo avvocato, che avvocato non vorrebbe
essere, percorre incessantemente,
come un criceto impazzito, i cinquanta chilometri fitti di moribondi
capannoni, che
separano Venezia ‒ la Serenissima, vista non come cartolina
artistica, ma come sede
dell'"infetto"
tribunale in cui il protagonista talvolta lavora ‒ da Insaponata di
Piave (in realtà, San Dona
di Piave), dove ha lo studio-monolocale-carcere in cui vive.
Il
suo odio profondo si scaglia contro tutto ciò che il Veneto e
diventato, passando rapidamente da una
condizione di miseria e lotta per la sopravvivenza ad una ricchezza
senza cultura, i cui unici valori
sono, ovviamente, la pecunia, la villetta, il suv, ma anche il cibo
nostrano, il "bianchetto alle nove
del mattino". Il nuovo umanesimo e "l'umanesimo della
mescita, il rinascimento dell'aperitivo".
Il culto delle radici e dell'identità, come si intuisce, viene
marchiato come strumento
di
omologazione, all'interno, e di esclusione, verso l'esterno: ecco
cosa significa essere "paroni a casa
nostra".
In
tale contesto soprattutto la lingua si e corrotta: "Persa la
lingua, ossia i dialetti, oggi a Insaponata
si parla il grezzo, un
idioma tecnico para-dialettale di consumo, privo di bellezza indigena,
totalmente impreciso, perennemente impreciso, involgarito dalla
cantilena locale, buono solo
per la sopravvivenza dei consumi di massa, ma senza anima, forza
evocativa e un minimo di poetica.
Il grezzo e diventato
la lingua ufficiale dello stato etnico del Mesovenetorientale."
E a tale lingua
guasta l'autore fa il verso nella sua scrittura.
Il
senso di un fallimento totale e apocalittico pervade il libro. Unica
sicurezza, la madre, che non basta,
pero, a salvare il narratore/autore da un suicidio che e insieme
reale e metaforico. Il cartongesso
del titolo e cosi il compendio del "venetismo" attuale: un
materiale fasullo, senza storia,
sfaldabile, vile.
Francesco Maino è nato nel 1972 a Motta di Livenza, nella Marca
Trevigiana. Oggi risiede a San Donà di Piave e fa l'avvocato
penalista a Venezia. Tra carceri e tribunali, ha spesso la
possibilità di frequentare una variegata e policroma umanità.
Insegna diritto, alcune ore la settimana, ad un corso regionale per
estetiste. Prima di esercitare l'avvocatura è stato aiuto necroforo
per una ditta di onoranze funebri.
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