venerdì 26 aprile 2013

Post aperto a Bruno Corino



Scrive Bruno Corino nel post "Post aperto a Malitia", citando un mio commento presso il suo blog dove si evidenzia: "la letteratura viene fabbricata altrove, nelle case editrici ovviamente, e i blog tentano di smerciarla. Come facevo educatamente osservare si ha una nozione piuttosto riduttiva di cosa sia oggi la letteratura. Ma chi ha la vista corta è difficile che riesca a vedere oltre il proprio naso. Per questa gente mi sembra evidente che letteratura è ciò che le case editrici stampano, in sostanza ciò che gli editori decidono che sia."

Malitia: «La letteratura ha un mezzo di diffusione che è la carta stampata. Non vedo quindi come possa discostarsi da questa. Il web è un mezzo successivo, posticcio, certamente utile ma non l'unico. Attribuire alla letteratura un termine come smerciare significa partire già con un pregiudizio. La letteratura non si smercia, ovviamente. Se ne parla. Ma se si fa i nemici delle case editrici (come se l'editoria fosse un cancro, quando invece è una nobile cosa se guidata da alti ideali), se ci si ingabbia dentro dogmi molto discutibili è facile cadere dentro sterili e ridondanti prese di posizione. Tutto ciò che non è stampato è dunque letteratura? Diciamo pure che la letteratura non esiste, a questo punto».

Bruno Corino: Chi si sforza di guardare oltre, chi non resta affisso al pleistocene (bisogna soltanto decidere se si tratta del superiore o inferiore, ma credo che non faccia grande differenza), riesce a intravedere la rivoluzione in atto.

Talvolta è più facile "snidare" la metafisica dal corpo della parola che non dall'oggetto che la incorpora: insomma è meno difficile vedere la metafisica nel logos/discorso che non nel medium che la diffonde.
Finora lo sforzo principale che si è compiuto è di andarla a scovare nel logos, nel discorso, mentre si credeva che il medium che la diffondesse fosse innocente, neutro.
La letteratura infatti non esiste, forse Malitia non se n'è mai accorta, troppa impegnata a scrivere lodevoli recensioni. Esistono opere che definiamo "letterarie", ma di certo non esiste qualcosa che a dito possiamo indicare come “letteratura” (ancora una volta bisogna evitare di cadere nella trappola delle parole).
Per alcuni versi anche un manuale di istruzione che spieghi l’uso di un’aspirapolvere potrebbe essere un’opera letteraria se fosse stato scritto in maniera divertente, coinvolgente, emozionante, addirittura commovente. Ma ciò non accade. Sarebbe interessante chiedersi perché un manuale d’istruzione non viene scritto secondo questi requisiti.
Porsi una domanda siffatta significherebbe fare qualche passo avanti per uscire dall’epoca del pleistocene. I “divulgatori” letterari non si pongono tali domande non perché non sono capaci di rispondere, ma semplicemente perché non ne capiscono il senso. Per loro le “cose letterarie” sono un dato di fatto, un qualcosa che si impone alla loro coscienza in modo “naturale”.
Le case editrici sfornano un diluvio di romanzi, ed ecco che i recensori lo accolgono come manna dal cielo. Finalmente hanno qualcosa su cui scrivere. È la loro ragione di esistere, la loro “missione”, come scriveva Malitia. Missione che li assolve da ogni peccato originale. E sono infatti come gli antichi missionari che partivano verso mondi selvaggi per far conoscere loro la parola di Cristo. Per civilizzarli, si diceva. Distruggendo, naturalmente, la loro civiltà, le loro forme di convivenza sociale. Credevano di portare lo “spirito” e non sapevano che invece portavano la nozione di corpo.
Alle case editrici di quella cosa chiamata letteratura può importare allo stesso modo in cui a un eschimese importa avere un frigorifero. Alle case editrici interessano i “prodotti” letterari, non le “cose letterarie”, perché i prodotti si vendono, le “cose letterarie” non hanno mercato. Non capire queste elementari regole di mercato vuol dire essere fuori dal mondo. Non vorrei che qualcuno credesse ai soliti luoghi comuni, e interpretasse la mia affermazione come l’ennesima giaculatoria contro le case editrici che non sanno riconoscere il vero capolavoro dalle “patacche”.
Io affermo un’idea ben precisa: che “le cose letterarie” non possono più “dimorare” o abitare nel libro a stampa. Le ragioni di questa affermazione si trovano sparse negli oltre cento post che ho dedicato all’argomento. Può essere anche un’idea mia, arbitraria, discutibile, ma si tratta comunque di un’idea pensata, meditata, e non originata dal desiderio di apparire originale ad ogni costo.
Detto ciò non vorrei passare per un troglodita che non ama i libri stampati. Come ho scritto in un post, i libri sono la mia dimora. Ma che siano la mia dimora non vuol dire che lo siano anche per “le cose letterarie” (nella nostra epoca). Nei libri a stampa possono soltanto dimorare “prodotti” etichettati come letterari, ma non le cose letterarie. La narratività, ad esempio, risiede altrove, nei libri stampati ci sono prodotti narrativi, che se sono scritti con mestiere e hanno alle spalle un’ottima operazione di marketing possono anche vendere bene, ma non hanno più nulla a che spartire con la narratività.


Non condivido assolutamente questo relativismo. Se non credessi nella letteratura come forma d'arte non scriverei di libri. Con "cose narrative", come le chiama lei, possiamo definire tante opere. Tante, ma non tutte. Esiste una porzione ridotta che io definisco letteratura, che potrebbe essere pure un termine soggettivo (anche se non credo) ma che universalmente è riconosciuta come tale. Le sue interpretazioni, condivisibili o meno, non hanno fondamento se non nel suo pensiero. Con questo immagino di aver dato conferma alla riflessione secondo cui "i “divulgatori” letterari non si pongono tali domande non perché non sono capaci di rispondere, ma semplicemente perché non ne capiscono il senso. Per loro le “cose letterarie” sono un dato di fatto, un qualcosa che si impone alla loro coscienza in modo “naturale”." Bene, spero che la rincuorerà aver trovato un'altra atroce esponente di un pensiero chiuso e ristretto che pretende, addirittura, di credere che esista la letteratura, e di poter definire un uomo come, ad esempio, Saramago - nonostante sia stato un meschino contemporaneo asservito al marketing come tutti i contemporanei che ruotano attorno a quella scialba cosa chiamata editoria - "letteratura" . Questo estremo soggettivismo - nulla è letteratura, al limite esistono le "cose letterarie", che ovviamente sono soggette alla personale opinione di @brunocorino - non mi appartiene, apparterrà a lei, ma penso che ciò lo ritenga ininfluente - perché, strano a dirsi, quelli a trovarsi dalla parte del torto senza ombra di dubbio sono sempre "gli altri", proprio coloro che si accusa di essere portatori di verità. In questo caso portatori di letteratura, come dice. 
A questi portatori di letteratura forse lei attribuisce un potere decisamente superiore a quello che hanno realmente. Contrariamente ai civilizzatori, che la civiltà la imponevano e basta, i blogger non puntano contro la pistola a nessuno. E sono tanto numerosi da offrire versioni sempre diverse di quel concetto di letteratura che sembra tanto fumoso. Seguirli, condividerli, contestarli è una scelta personale. Nessuno pensa di avere ragione a tutti i costi, forse è lei che presuppone la pensiamo nello stesso modo quadrato, troppo impegnato a disprezzare editoria e a diffondere la propria versione dando  automaticamente per errata quella altrui.
Che le case editrici, soprattutto oggi, agiscano in base al proprio tornaconto credo sia fuor di dubbio. Ma, come scrive Roberto Calasso, "pubblicare buoni libri non ha mai reso spaventosamente ricco nessuno", anzi, "insieme con roulette e cocottes, fondare una casa editrice è sempre stato, per un giovane di nobili natali, uno dei modi più efficaci per dissipare la propria fortuna ". Se l'editoria fosse solo un modo per fare soldi sarebbe un modo poco intelligente per cercare di produrne. Alle origini di case editrici storiche ci sono sempre stati imprenditori, ma anche uomini veementi, appassionati, lettori. Per quanto riguarda quelle nascenti, a meno che non siano a pagamento, se riescono a non chiudere entro un paio d'anni non vedo, in un momento tanto difficile, perché dovrebbero sorgere se non spinte da una forte passione. Non è essere fuori dal mondo - è curioso che venga detto a me, quando ho accusato in questo stesso blog di di ingenuità un'animata contestatrice che riteneva che un  libro molto discusso fosse stato pubblicato per il suo valore letterario, e non per marketing. Mi scaglio quotidianamente contro le innumerevoli patacche che escono in libreria, contro l'esigenza di essere commerciali nel senso negativo del termine, e nel mio piccolo ho anche io a che fare con le case editrici tanto da rendermi perfettamente conto - non che ci voglia un genio, ma in questo discorso sembra di sì - quali siano le dinamiche che muovono un'azienda editoriale. Fare di tutta l'erba un fascio, invece, significa essere necessariamente in malafede. Non tutte le case editrici antepongono il profitto a tutti i costi alla qualità - alcune anzi, pur di farlo e gloriandosene, risultano tremendamente snob -, e lo dimostra, appunto, il fatto che, pur di rimanere fedeli ai propri ideali, chiudono o rischiano di chiudere (faccio l'esempio di Asengard edizioni). E dai relativismi, insomma, siamo passati ai generalismi.
Poiché "nei libri a stampa possono soltanto dimorare “prodotti” etichettati come letterari, ma non le cose letterarie" (e in questo si dimostra tristemente assolutista) ricordo che senza l'editoria in passato non sarebbero largamente circolati presso le masse (ma non è che faran schifo, queste masse?) autori come Ariosto, Dante, Tasso, Boccaccio, Boiardo, Petrarca, che lei non definisce letteratura ma almeno - credo, SPERO- prodotti letterari. Mi dispiace inoltre contestarle che numerosi libri classici, gli unici, a quanto sembra, a sfuggire alla loro natura commerciale perché "in grado di sfidare i cambiamenti storici e culturali che l'hanno generata" sono nati esattamente per fini commerciali, per permettere agli scrittori di sfamarsi e a riviste ed editori di vendere. Basti ricordare i foulletton, o, tornando più indietro, le opere su commissione. Ciò non toglie che fossero comunque dei capolavori, per qualsiasi ragione siano essi stati scritti, ma avere una visione così chiusa di quella non-cosa che è la letteratura le ha fatto dimenticare che la macchina editoriale che agisce - per passione o profitto - da circa cinquecento anni, in epoche storiche assolutamente differenti, non è, per certi versi, così diversa da quella attuale.
Se infine i contemporanei di oggi saranno i classici di domani, proprio per le caratteristiche con cui ha definito i classici, non credo abbia la lungimiranza di saperlo. 

3 commenti:

  1. Mi permetto soltanto di dire che è sempre sbagliato fare di tutta l'erba un fascio. Gli assolutismi non possono mai corrispondere alla verità.
    Dire che le case editrici non sono interessate alla letteratura, o alle 'cose letterarie' che dir si voglia, è una stupidaggine, perché implicherebbe che chi fa tale affermazione conosca benissimo tutti gli editori del mondo e, forse sarò azzardato, questo mi sembra davvero difficile.
    Ovvio che una casa editrice deve far quadrare i conti, però c'è da dire che ci sono modi e modi per farli quadrare e che, forse, i soldi guadagnati con una 'commercialata' contribuiranno a pubblicare anche il classico di domani.

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  2. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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  3. «Se infine i contemporanei di oggi saranno i classici di domani, proprio per le caratteristiche con cui ha definito i classici, non credo abbia la lungimiranza di saperlo».
    Me lo auguro anch'io, poiché, quando scrivo che la "cosa letteraria" non abita più nella carta stampata, è agli autori contemporanei che mi riferisco, a quelli dell'era digitale per intenderci.
    Comunque, non per polemizzare, ma anche chi produce posate o telai può farlo per "passione" non solo per fare profitti.
    Un saluto

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