A cura di Surymae Rossweisse
Salve a tutti, e benvenuti ad
un'altra puntata de “Il tempio degli
Otaku”. Non mi dilungherò molto con l'introduzione, perché oggi ospitiamo
per la terza volta da quando è cominciata la rubrica lo stesso mangaka,
istituendo così una specie di record. Un autore dalla carriera trentennale, che
ha saputo narrare con la stessa disinvoltura e – mi si consenta la parzialità –
bravura shonen sportivi, thriller e persino le opere di qualcun altro, come
“Pluto” di Osamu Tezuka (di questo autore abbiamo anche recensito Monster).
Questa settimana lo vediamo in
uno dei suoi lavori più recenti ed acclamati, che si distingue dalla massa per
la complessità della trama e per il grande numero di contenuti che ospita.
Signore e signori, un caloroso applauso per
Naoki Urasawa e il suo “20th
Century Boys”. Buona lettura!
1969. Seguiamo le piccole grandi avventure di una combriccola di bambini amici per la pelle,
tra cui spiccano il leader Kenji ed
il suo “secondo” Occio, il mite Yoshitsune, Donkey, il maschiaccio Yukiji,
ecc. ecc. La loro infanzia scorre serena, tra l'arrivo da oltreoceano di nuova
e conturbante musica, i dolciumi della drogheria del loro quartiere, con
l'unica nota dissonante dei soliti bulletti. Per passare il tempo, i bambini
hanno l'idea di giocare a salvare il mondo: non soltanto inventandosi battaglie
campali contro l'impero dei tormentatori, ma scrivendo vere e proprie profezie,
raccolte in un apposito quaderno. Sono soltanto innocenti passatempi... per il
momento.
1997. I nostri sono ormai diventati adulti, e si sono separati. Kenji dirige il negozio di famiglia,
ora diventato un franchising in crisi; aveva coltivato il sogno di diventare
rockstar, ma purtroppo si è infranto. Ora non ha tempo per la chitarra: deve
badare a Kanna, bambina che la madre
(la sorella di Kenji) ha lasciato senza neanche spiegare le sue ragioni.
La monotona routine viene
movimentata da diversi eventi drammatici, primo tra tutti il suicidio
misterioso di Donkey, in cui un
ruolo cruciale sembra aver giocato una specie di setta religiosa comandata da
un personaggio che si fa chiamare “L'Amico”. Il loro stemma è uguale identico a
quello che, decenni prima, Occio aveva disegnato per il loro gruppetto.
La situazione peggiora e il
nostro, insospettito e spaventato, si accorge che gli eventi e la loro sequenza sono quelli narrati nel “Libro delle
profezie”. Profezie che tiravano in ballo nientemeno che il futuro
dell'umanità, non tralasciando virus mortali e robot capaci di seminare morte e
distruzione. Kenji non ha altra scelta:
deve ritrovare i vecchi amici, scoprire l'identità de L'Amico e fermare il suo
piano. L'idea funziona, ma questo è solo l'inizio...
Posso darvi un consiglio? Non
prendete sottogamba “20th Century Boys”, perché non è una storia facile e lineare: quando si pensa che la
strada sia già scritta e che è ovvio che piega prenderà la trama in quel
momento, è proprio allora che Urasawa scombina le carte. La situazione può cambiare radicalmente anche nel giro di un solo
volume. Basta poco, anche un flashback ben assestato, e tutte le idee che
c'eravamo fatti finora possono crollare come un castello di sabbia. Anche alla
fine, con colpi di scena che erano già stati assimilati e dati per certi dal
lettore da un sacco di volumi. Naturalmente, però, di avere il quadro completo
non se ne parla nemmeno: alcune domande
rimarranno sempre senza risposta. Ma va bene anche così.
A volte cambia proprio il genere
di appartenenza del manga. L'inizio, quasi idilliaco, ci racconta della
semplice infanzia di alcuni bambini: siamo ancora in territorio slice-of-life,
e lo stesso si può dire della monotona routine di Kenji adulto. Tempo pochi
capitoli e dobbiamo quasi dimenticarci del realismo, visto che abbiamo omicidi
sanguinosi, virus mortali – il sottogenere survival – le profezie, e persino i
robottoni, anche se qui vengono distrutti molti dei suoi cliché. E poi
all'improvviso capita di chiedersi se in realtà il tutto non sia una scusa per
sostenere il potere salvifico della musica rock... ma non facciamo spoiler.
Ma non è finita qui: non può mancare la cara vecchia distopia.
L'atmosfera non è cupa come quella a cui ci hanno abituato capisaldi del genere
come “1984”, ma ugualmente spaventosa, proprio perché sembra così serena. Tokyo
è la sede della prossima esposizione universale, dopo più di trent'anni; le
radio trasmettono a tutto spiano canzoni positive che parlano di fiori e di
danze; gli studenti che non sono troppo convinti dalle informazioni contenute
nei loro libri di storia – in cui l'Amico salva il mondo da Kenji e i suoi
amici terroristi – vengono mandati in campi chiamati Friend Land e Friend
World, dove vengono accolti da personaggi che sorridono con un po' troppa
frequenza. Dietro all'Amico accolto con tutti gli onori dalle Nazioni Unite,
però, si nascondono faide sanguinarie che si ripercuotono sulla popolazione,
inerme ed ignara del pericolo che colui che giura di proteggerli gli sta
preparando.
“20th Century Boys”
non è soltanto la trama, però: perché lo ripeto sino alla nausea che la migliore impalcatura possibile non è
niente se non ci sono dei personaggi convincenti che le danno vita. E qui
ne abbiamo. Sono tantissimi coloro che
appaiono nei ventidue volumi del manga, alcuni buoni, alcuni cattivi, altri
né l'uno né l'altro, ma tutti con un'ottima introspezione psicologica.
A sorpresa i due protagonisti
principali, Kenji e sua nipote Kanna,
non sono nemmeno i migliori, quanto a caratterizzazione: il primo ha
un'influenza troppo radicata sulle persone che ha intorno – quante volte ci
viene riproposto l'aneddoto in cui lui suona imperterrito per la strada anche
se nessuno lo ascolta... - la seconda ha delle allarmanti tendenze da Mary Sue,
in particolare la straordinaria facilità con cui riesce a far valere le sue
ragioni, anche nei confronti di chi ha molta più esperienza di lei.
Parliamo del resto del cast,
adesso; e a dire il vero, abbiamo l'imbarazzo della scelta. Possiamo scegliere Occio, che a dispetto dei modi rudi è
il primo a lottare contro l'Amico, con qualsiasi mezzo e senza mai
tentennamenti; Yoshitsune, che si
ritrova suo malgrado leader della resistenza, nonostante il suo carattere mite;
il complessato Sadakiyo, di cui non
si capisce il reale schieramento sino alla fine; e dalla parte dell'Amico non
possiamo non nominare l'ambiziosa Takasugi,
e colui che praticamente vive per lui, Manjoume.
Per non parlare di... oh, insomma, non posso dirvi tutto quanto!
Cosa posso dire del tratto di
Naoki Urasawa che non abbia già detto in altre occasioni? Uno stile ormai personale, sempre fedele a sé stesso ed inconfondibile,
caratterizzato da figure con le più diverse fisionomie – che a volte, a dire il
vero, ricordano quelle di personaggi di altre serie, ma nessuno è perfetto, e
senza errori dal punto di vista anatomico. Gli
sfondi sono sempre realistici, con un uso dei retini mai eccessivo, e le
poche pagine a colori hanno tinte vivide, ma mai disturbanti. Un po' come le
sue opere in sé, qualcosa di unico e dall'alto livello qualitativo.
...E per oggi è tutto, cari
amici. Arrivederci alla prossima settimana, con “Il tempio degli Otaku”!
Bella recensione! Adoro questo fumetto, uno dei miei preferiti in assoluto :-)
RispondiEliminaQuanto ho adorato questo fumetto... Urasawa è un genio. E' uno dei pochi che ha scavalcato la linea che separa 'fumettisti' e artisti. Un dannato genio.
RispondiEliminaIo sono l'unica che conosco ad aver preferito Monster a 20th Century, che comunque è una genialata continua.