Voto:
Un’opera dalle molte pretese è il terzo volume che conclude la Trilogia della Speranza
di Massimo Cortese, con il ritorno ad un’autobiografia mai completamente
abbandonata, quasi complementare alle esigenze letterarie dell’autore. Definire
le opere di Cortese è sempre un po’ complicato, e anche questa volta
l’esplicitazione di un genere non incontra facile soluzione: Un’opera dalle molte pretese si
barcamena tra il racconto –sempre in prima persona- dell’esperienza dell’uscita
del primo libro dell’autore, Candidato a
consiglio d’istituto, e la citazione in giudizio di Cortese a seguito di
alcuni disguidi burocratici. Il parallelo svolgersi delle vicende –autobiografiche
e di conseguenza reali- viene interrotto brevemente per qualche pagina a metà
libro da un dialogo immaginario con lo Stato. Cortese scrive: “Credo che non ci sia
abbastanza amore per questo Paese. Mi sembra che tutti i partecipanti,
avvocati, giudici, imputati, è chiara la consapevolezza sull'ineluttabile
inutilità di qualsiasi provvedimento, come se ciascuno avesse rinunciato a
battersi per qualcosa di grande. Si avverte una sorta di condotta
rinunciataria, come se le cose fossero destinate ad andare alla malora. Certe
volte mi ritrovo a pensare che sono stato rinviato in giudizio per scriverci
sopra un libro: l'andazzo e l'alone di surrealtà della vicenda sembrano darmi
ragione.”
Il dialogo, che induce ad una forte riflessione,
risulta forse la parte più interessante di un volumetto che alterna episodi
degni di nota ad altri un po’ più piatti e lenti.
Ci sono due sentimenti che prevalgono, basandosi sulla
duplicità della narrazione: la sferzante ironia della vicenda in tribunale e la
speranza di quella che accompagna la promozione del nuovo libro. E’
interessante soffermarsi sulla prima, di cui voglio portarvi un esempio citando
un brano del libro. Cortese è appena stato accusato dal Pubblico Ministero di
avere attuato, assieme agli altri amministratori, un disegno criminoso. La notizia però, gli suscita una reazione
particolare: “Portai le mani alla faccia non certo per la disperazione, come a
qualcuno potrebbe venir pensato, ma per nascondere il desiderio irrefrenabile
di ridere. Subito dopo tossii, roteai la testa per l’aula e mi diedi un
contegno, rimanendo serio, per mostrare la mia preoccupazione: in realtà ero al
settimo cielo, perché aver ascoltato dalla viva voce dello Stato di essere
diventato un criminale, per di più in un’aula di giustizia: mi sembrava uno
scoop meraviglioso, roba non credere”.
Tutto lo stile si concentra in una parodica assurda
rappresentazione della prassi della giustizia italiana, ancora più drammatica
perché vissuta sulla pelle dell’autore, e dunque vera, autentica.
Lo sdegno di Cortese, seppur dissimulato da stupore e
ironia, diventa palpabile e diventa il nostro. L’impressione è davvero quella
di un teatrino di fantocci, estremamente seri ed estremamente ridicoli, che
Cortese svela con occhio dissacratore.
La parte relativa la campagna di uscita del libro è,
invece, meno brillante, seppur significativa in molte parti. E quando leggiamo
“la presentazione termina con quell’unica copia venduta ad uno sconosciuto,
simbolo di tutti i lettori del mondo. E’ stato un grande successo” sappiamo che
no, questa volta non è ironia, questa volta è detto davvero col cuore. Quella
di Cortese è una continua, perpetua speranza, nonostante i momenti di sconforto
non manchino.
L’intenzione letteraria dell’autore, già facilmente
intuibile nei primi due libri, viene finalmente a galla, quasi come la
dichiarazione di un’ideologia: “Alessandro Manzoni
sosteneva, in una lettera ad un letterato francese, che il compito della
letteratura era quello di erudire la moltitudine, farla invaghire
del bello e dell'utile, per rendere in questo modo le cose un po' più come
dovrebbero essere: ecco, non vorrei sembrare presuntuoso,
ma io mi trovo nella stessa linea.” Al contrario di Manzoni, però, Cortese usa
uno stile anche fin troppo colloquiale, anche fin troppo aperto, potremmo dire nudo e crudo. Questo avvantaggia
sicuramente l’autore limitatamente al fatto che, ponendosi in stretto rapporto
con il lettore, suscita in lui empatia. Questa è però una scelta che non mi
trova mai pienamente d’accordo, come ho evidenziato anche nelle recensioni
precedenti.
Le due stelline di voto, lo dico per non
fare un torto all’autore, non sono state assegnate per svalutare o danneggiare
il suo scritto: ho anzi cercato di mettere in risalto i tratti più importanti
di Un’opera dalle molte pretese, che
merita certamente una lettura al di là delle critiche stilistiche che posso
fare a Cortese. Avendo però preferito la seconda opera, Non dobbiamo perderci d’animo, a cui ho dato tre stelline, sono
stata costretta a fare un passo indietro nel sistema di rating. Spero l’autore
non me ne voglia e spero che continui la sua attività letteraria, il suo
impegno costante per la discussione di tematiche importanti, e spero che, tutto
sommato, non ascolti i miei consigli letterari. In fondo Cortese ci piace così.
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