mercoledì 21 dicembre 2011

Christmas tales: Snowman di M.P.Black

Penultimo racconto natalizio è quello di M.P.Black, scrittrice che, con recensioni e interviste, abbiamo ospitato tante volte sul blog. Autrice della saga di Lisa Verdi e di un fantasy a volume unico, I guardiani delle anime, si è fatta spazio soprattutto sul web, dove ha molti fan. Snowman è la storia che ha donato a Dusty pages in Wonderland e con cui vuole augurare a tutti voi lettori buon Natale... 




SNOWMAN

di M.P. Black



Robert Mitchell era il Sindaco di Phantom City, una cittadina del nord degli Stati Uniti, famosa per il suo imponente albero di Natale, che da decenni veniva sistemato nella piazza principale, proprio davanti al municipio, e inaugurato una settimana prima della vigilia.
La cerimonia di accensione richiamava un sacco di curiosi anche dalle cittadine limitrofe e il Sindaco Mitchell gongolava come un bambino per l’intera serata, decantando le lodi della sua cittadina.
Phantom City sostava ai piedi di uno dei monti più rinomati della zona per le sue innumerevoli piste sciistiche. Infatti, nel periodo invernale, sulla cittadina scendeva una buona quantità di neve, che costringeva gli abitanti a spalare quotidianamente i vialetti, mentre i bravi operai del municipio si occupavano con solerzia della manutenzione delle strade.
E l’arrivo della neve, nei giorni del Natale, era accolto con gioia dai bambini, che si attardavano, nei freddi pomeriggi dopo la scuola, a costruire decine di pupazzi di neve.
Ma vi era un ragazzino di nome Jim Evans che detestava il Natale e che mai, nel corso dei suoi undici anni, si era fermato con gli amici o con i genitori a creare un pupazzo di neve.
Jim abitava alla periferia di Phantom City, in una piccola casa a due piani, costruita completamente in legno e attorniata da altre abitazioni simili, davanti alle quali non mancavano i pupazzi di neve.
Queste abitazioni erano adornate da luminarie di vario colore e forma, che ne seguivano il profilo. Dentro, si potevano udire le voci delle famiglie che si riunivano attorno all’albero e che gioivano per l’arrivo imminente del Natale.
Ma l’abitazione degli Evans non aveva addobbi, e neppure un pupazzo di neve. I genitori di Jim non avevano tempo per il Natale. Lavoravano nove, dieci ore al giorno nel loro negozio di attrezzature sciistiche, che li aveva fatti divenire, in poco tempo, una delle famiglie più abbienti della città.
E Jim era cresciuto in compagnia di babysitter più o meno brave, o più o meno gentili, generalmente molto giovani, che intendevano solo intascare qualche dollaro, senza badare troppo all’educazione del ragazzino.
Così Jim, con il passare degli anni, era diventato sempre più taciturno e si era chiuso in se stesso, detestando tutto e tutti, compreso il Natale. Non sopportava sentire i vicini che cantavano o che ridevano durante la vigilia, come non sopportava quei ridicoli e orribili pupazzi di neve. Attendeva sempre con gioia l’arrivo delle temperature più alte, che scioglievano la neve e, di conseguenza, quelle assurde brutte copie degli uomini.
E non aveva amici. I compagni di scuola lo deridevano e lo allontanavano, considerandolo un po’ tocco. Jim, in sostanza, era completamente solo. Nessuno gli voleva bene, nessuno lo rispettava, nessuno lo cercava.
Nella sera dell’accensione del grande albero della piazza principale, Jim Evans, come ogni anno, stava aspettando il ritorno dei genitori dal lavoro. Sapeva che non si sarebbero fatti vedere prima delle undici o di mezzanotte, perché suo padre gli diceva sempre che era in serate come quelle che si poteva vendere davvero tanto.
Lavanda Parker, la scialba e sciocca babysitter che avrebbe dovuto fargli compagnia quella sera, una ragazzina di diciassette anni colma di acne, alta e magra come uno stuzzicadenti e con un alito così terrificante da far secco uno zombie, si era addormentata da almeno un’ora dinanzi a un film anni cinquanta.
Erano le dieci e Jim sapeva che entro mezz’ora il Sindaco avrebbe dato il via all’accensione dell’albero.
Lui non sapeva neppure che significasse avere un albero di Natale in casa, come non aveva mai assistito alla cerimonia.
Facendo una linguaccia a Lavanda, che russava sonoramente sul lussuoso divano in pelle nera, si incamminò, in punta di piedi, sino alla porta di ingresso. Lanciò uno sguardo distratto all’immagine che si rifletté nel lungo specchio in entrata.
Vide un ragazzino alto, magro e dinoccolato, con corti capelli biondi, piccoli occhi azzurri, un po’ annacquati in verità, e una marea di punti neri sul naso e sugli zigomi, che davano il saluto all’inizio dell’adolescenza.
Jim detestava il suo aspetto, come detestava Lavanda Parker, i suoi genitori e il Natale.
Sospirò, afferrò il giubbotto dall’attaccapanni e uscì di casa. Si sfregò le mani sulle braccia. Faceva freddo, un freddo terribile che gli pungeva le guance e le dita delle mani. Ma decise ugualmente di inforcare la bicicletta. Le strade erano pulite e lui voleva vedere la cerimonia di accensione dell’albero, anche solo per fare un dispetto ai suoi o per metterli in ansia. Così facendo, per lo meno, avrebbero avuto altro da pensare, oltre all’andamento del loro negozio.
Jim si immise nello stradone principale che lo avrebbe condotto sino al centro di Phantom City e pedalò come un pazzo, pur di arrivare in tempo. Voleva capire davvero come ci si poteva sentire a Natale.
Le strade erano praticamente perfette, pertanto Jim riuscì a raggiungere in fretta la grande piazza principale della cittadina. Si fermò sull’altura sovrastante, dove sostavano qualche gruppo di pini e i giardini pubblici, completamente ammantati di neve.
Sbarrò gli occhi e spalancò la bocca. Non aveva mai visto, in tutti i suoi undici anni, così tanta gente che chiacchierava, rideva e intonava canti di Natale.
Così scese dalla bicicletta, appoggiandola a un albero, e sedette su una delle panchine di legno, spostando con la mano un po’ di neve. Da lassù poteva ammirare la piazza, l’imponente albero che svettava maestoso verso il cielo scuro e verso una notte senza stelle che presto, però, sarebbe stata illuminata dalle luci del Natale.
Jim era euforico. Non aveva mai provato un’emozione così intensa, neppure quando suo padre, per l’ultimo compleanno, gli aveva regalato la playstation 3, con la speranza che il figlio trascorresse il suo tempo libero davanti ai videogiochi, scocciandolo ancora meno con le sue assurde richieste di attenzione e di affetto.
Jim lanciò uno sguardo carico di odio verso il negozio dei genitori. Anche da lassù poteva vedere la gente che vi entrava o ne usciva con qualche pacco sotto il braccio.
Strinse i denti e decise di spostare la sua attenzione al Sindaco Mitchell che, quando il campanile della chiesa scoccò le 10.30, diede il via all’accensione dell’albero.
Jim si alzò in piedi e perse quasi l’equilibrio, rischiando di cadere a terra, dinanzi alla magnificenza di quello spettacolo. L’albero era illuminato da luci rosse, dorate, azzurre, verdi, che si accendevano a intermittenza. E la punta era rappresentata da una stella argentata, che sembrava pulsare di luce propria.
Jim tirò su col naso e sentì che una lacrima stava scendendo timidamente sulla sua guancia destra, riscaldandola.
Allora si infuriò. Con i genitori, con le sue odiose babysitter, con i ragazzini che potevano godere della gioia del Natale, e con il Natale stesso.
Si lasciò cadere sulla neve e scoppiò a piangere, nascondendo il viso tra le mani. Tanto lassù non lo avrebbe visto né sentito nessuno, come era normale che accadesse e come era sempre accaduto, per tutta la sua vita.
Pianse fino allo sfinimento, con le gambe e le mani intirizzite dal freddo pungente e le lacrime che sembravano diventare ghiaccio sulle sue gote infuocate.
E formulò un desiderio, che dapprima nacque nella sua mente, poi si fece strada con prepotenza nel suo cuore e, infine, esplose tra le sue labbra, in un grido soffocato.
“Voglio credere anch’io nel Natale e voglio un vero amico che mi rispetti e che creda in me!”
Jim socchiuse gli occhi e riprese a piangere. La sua vita era triste, i suoi genitori non avevano tempo per lui, nessun ragazzino della sua età lo cercava.
“Cof cof cof… ehm… Jim Evans?”
Il ragazzino scattò in piedi, voltandosi. Il suo cuore mancò un colpo. Sbarrò gli occhi e arretrò, andando a cozzare contro un pino.
“Chi… chi sei?” chiese, tremando da testa a piedi.
Dinanzi a lui sostava un ometto che non arrivava al metro di altezza. Vestiva con una maglietta rossa e un paio di pantaloni corti fino al ginocchio, dello stesso colore. Sui capelli, che a prima vista gli sembrarono bianchi, o giù di lì, l’ometto aveva sistemato un cappellino verde, che terminava con un ponpon bianco. Ai piedi calzava scarpe con la punta all’insù, dello stesso colore del cappello, e la parte inferiore delle gambe era rivestita da calze bianche a righe rosse. Ma ciò che più attirò l’attenzione di Jim furono le sue orecchie. Lunghe e assolutamente a punta.
L’ometto si profuse in un solenne inchino.
“Sebastian, al tuo servizio. Primo Elfo di Babbo Natale.”
Jim, a questo punto, si lasciò cadere sulla neve, sfregandosi gli occhi. Aveva capito bene?
Quando li riaprì, il piccolo Elfo era ancora dinanzi a lui, e lo osservava con uno sguardo assolutamente divertito.
“Ma non hai freddo, lì a terra?”
E, così dicendo, gli tese la mano destra che Jim afferrò con titubanza.
Quando fu di nuovo in piedi, il ragazzino decise di riprendere in mano la situazione.
“Sei proprio un Elfo di Babbo Natale? Lui… lui esiste davvero?”
L’ometto sbuffò, appoggiando le mani sui fianchi. “Come osi pensare che possa essere diversamente? Certo che esiste! Il problema è un altro, semmai! Tu non hai mai creduto al Natale e per questo motivo Babbo non ti ha mai portato dei doni. E ora che mi hai chiamato…”
“Chiamato? Non è vero, io non l’ho fatto!” lo interruppe Jim, assumendo un’aria offesa.
“Oh sì che lo hai fatto! Hai desiderato di credere nel Natale, no? E così, eccomi qui, pronto ad esaudire il tuo desiderio.”
Jim si sfregò la testa, osservando il piccolo Elfo con perplessità. Ma si trovò a pensare che voleva credere all’esistenza di Babbo Natale e che quanto stava vivendo non era solo frutto della sua immaginazione.
“Avanti, Jim Evans… non volevi forse un amico? Un vero amico?”
Jim annuì, emozionato. Sì, sì, un vero amico, che trascorresse del tempo con lui, con cui ridere e divertirsi.
“Bene, allora ritorna a casa e costruisci subito un pupazzo di neve.”
Jim sbarrò gli occhi. “Come? Perché…”
“Fa come ti ho detto, obbedisci, e vedrai esaudito il tuo desiderio.”
E, prima che lui potesse ribattere, l’Elfo Sebastian svanì in una nuvola di polvere, che rifletté sulla neve una sfavillante luce dorata.
Jim era confuso, ma si sentiva carico di adrenalina. Tutto quello era assurdo, pazzesco, ma lui ci voleva credere, doveva crederci!
Così inforcò la bicicletta e pedalò come un pazzo verso casa. Vi entrò in silenzio. Lavanda stava ancora russando sonoramente sul divano, non si era neppure accorta della sua assenza.
Si precipitò nel guardaroba e si appropriò di una sciarpa e di un cappello di lana rossi. Quindi corse in cucina, sempre in punta di piedi per non svegliare la babysitter, e sfilò dal frigorifero una lunga carota. Poi uscì di casa e si diresse in garage, dove prese un badile.
E, con tutta l’attrezzatura necessaria e una grande gioia nel cuore, iniziò a creare un grosso pupazzo di neve. Un’ora dopo, Jim sistemò il cappello di lana e la sciarpa, la carota al posto del naso e disegnò la linea della bocca con un legnetto. Quindi infilò nella neve compatta due bottoni per formare gli occhi.
Infine si lasciò cadere sulla neve, soddisfatto del lavoro che aveva fatto. Ma mancava ancora una cosa. Il nome.
“Come ti chiamo?” disse, a voce alta.
“Uhm… credo che Billy potrebbe andare bene.”
Jim sbarrò gli occhi, poggiò una mano sulla neve e la utilizzò per farsi leva e scattare in piedi. Si guardò attorno, sbalordito.
“Chi ha parlato?”

“Io, proprio qui, dietro di te.”
Jim ruotò attorno a se stesso, sempre più stupito.
Però, cominciava ad essere anche un po’ spaventato.
“Non sono in vena di scherzi!”
“Oh, se è per questo, tu non scherzi mai, figurati! Vuoi girarti e guardarmi? Sono proprio qui, con una grande carota al posto del naso!”
Jim raggelò e si voltò di scatto. Trasalì, perse l’equilibrio e piombò col sedere sulla neve.
Accidenti! Il pupazzo lo stava osservando con occhi veri, e non con i bottoni che aveva utilizzato per crearli! E gli stava sorridendo. Jim era allibito, ma conscio che non stava sognando e che era tutto dannatamente vero. Allora… quell’Elfo non lo aveva ingannato! Ora poteva avere un vero amico col quale parlare e trascorrere un po’ di tempo!
“Ti… ti chiami Billy?” chiese, alzandosi in piedi e spolverandosi la neve dai pantaloni. “Piacere di conoscerti, io sono Jim.”
Il pupazzo allargò il sorriso. “Oh, so perfettamente chi sei e vorrei darti la mano, ma, come puoi vedere, non ho le braccia.”
Jim spalancò la bocca e si guardò attorno. Quindi si precipitò verso l’albero dei vicini, strappando due piccoli rami che infilò nel pupazzo per creare le braccia.
“Ecco fatto.” disse, soddisfatto.
Billy provò a muovere i rametti e, dopo alcuni tentativi a vuoto, ci riuscì. Jim esultò e trascorse una buona mezz’ora a parlare con il pupazzo, che lo ascoltò con interesse, senza mai interromperlo.
“Ti ho annoiato?” chiese Jim infine, grattandosi la testa. “Scusa, ma tu sei il mio primo, vero amico.”
Billy allargò il sorriso. “Oh no, è stato un piacere ascoltarti. Io sono qui per questo, sai? Però ora hai un altro compito importante da svolgere. Ogni casa ha un albero di Natale. Perché non corri a farne uno anche tu?”
Jim lo fissò per qualche istante, quindi lo abbracciò con delicatezza, e si precipitò in casa.
Lavanda stava ancora russando. Il ragazzino fece spallucce e scese rapidamente in cantina. Cercò lo scatolone con gli addobbi natalizi, che non veniva aperto da anni, e lo portò di sopra. Armeggiò per circa un’ora, senza fermarsi mai.
Verso la mezzanotte i vicini, che stavano rientrando a casa dopo la cerimonia che si era tenuta nella piazza della cittadina, ammirarono sbalorditi il pino di casa Evans, addobbato meravigliosamente e illuminato da luci rosse e dorate. E osservarono con curiosità il grosso pupazzo di neve che torreggiava accanto al vialetto della casa e che sembrava ricambiare i loro sguardi interessati.
Jim guardava i vicini dal salotto, troppo intimidito per uscire, ma tronfio di orgoglio per quanto aveva creato. Finalmente, anche lui poteva godere della gioia del Natale, e tutto per merito dell’Elfo Sebastian, che non avrebbe mai ringraziato abbastanza.
Quando i genitori di Jim rincasarono appena dopo la mezzanotte, restarono naturalmente basiti dinanzi allo spettacolo che si parò loro di fronte.
Jim era preoccupato per la loro reazione. Ma Tom e Sarah Evans, invece, corsero in casa ad abbracciare il figlio, con le lacrime agli occhi, promettendogli che, da quel momento in poi, ogni anno avrebbero addobbato quel pino e creato un bel pupazzo di neve, con sciarpa e cappello sempre di colori differenti.
Jim trascorse il Natale parlando ogni sera con Billy, facendo ben attenzione a non essere scoperto dai genitori e dai vicini. E, piano piano, cominciò a legare anche con qualche compagno di classe, a sorridere e a sentirsi meno solo.
Quando la temperatura iniziò ad aumentare e prima che Billy si sciogliesse sotto gli occhi tristi di Jim, i due si promisero amicizia eterna. E così fu.
Ogni anno il ragazzino, una settimana prima del Natale, si premurò di creare un grosso pupazzo di neve, che puntualmente apriva gli occhi e trascorreva molti giorni piacevoli con il suo amico umano.
E, con il passare degli anni, i coniugi Evans si ingegnarono per adornare in modo sempre più stupefacente il grande pino e l’abitazione, tanto che un Natale vinsero anche il premio per i migliori addobbi della città.
In età matura Jim, che viveva ancora con i genitori, fu eletto Sindaco della città.
Fu un Sindaco giusto, onesto e amato. E fu ricordato per i magnifici addobbi natalizi che facevano risplendere la città di luci sfavillanti e per gli innumerevoli pupazzi di neve che sostavano quieti, e sorridenti, dinanzi a ogni abitazione di Phantom City.

FINE




7 commenti:

  1. Grazie carissima! E buon lettura a tutti! M.P. Black.

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  2. Che bel racconto! Pieno di colori e di speranza ;))

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  3. Un racconto molto .... e siamo onesti almeno a Natale: spiacevole, pieno di banalità, frasi fatte, piatto come l'olio in una pentola. un regalo e lo si accetta come tale ma manca capacità creativa, stile e vocabolario.

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  4. Grazie Anonimo e buone feste anche a te! ^-^ Che bello quando il mondo è pieno di gioia e di felicità! eh eh! Black.

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  5. Insomma... sono sicura che M.P.Black può fare qualcosa di molto meglio di questo.

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  6. grazie, ho avuto maniera di tornare indietro con sogni da bambina, Gioia

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  7. Un racconto che fa sognare... c'è magia, gioia, ci sono sentimenti, c'è il riscatto finale di un ragazzino solo. Grazie! Rox.

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