Penultimo racconto natalizio è quello di M.P.Black, scrittrice che, con recensioni e interviste, abbiamo ospitato tante volte sul blog. Autrice della saga di Lisa Verdi e di un fantasy a volume unico, I guardiani delle anime, si è fatta spazio soprattutto sul web, dove ha molti fan. Snowman è la storia che ha donato a Dusty pages in Wonderland e con cui vuole augurare a tutti voi lettori buon Natale...
SNOWMAN
di M.P. Black
Robert Mitchell era il Sindaco di
Phantom City, una cittadina del nord degli Stati Uniti, famosa per il suo
imponente albero di Natale, che da decenni veniva sistemato nella piazza
principale, proprio davanti al municipio, e inaugurato una settimana prima
della vigilia.
La cerimonia di accensione
richiamava un sacco di curiosi anche dalle cittadine limitrofe e il Sindaco
Mitchell gongolava come un bambino per l’intera serata, decantando le lodi
della sua cittadina.
Phantom City sostava ai piedi di
uno dei monti più rinomati della zona per le sue innumerevoli piste sciistiche.
Infatti, nel periodo invernale, sulla cittadina scendeva una buona quantità di
neve, che costringeva gli abitanti a spalare quotidianamente i vialetti, mentre
i bravi operai del municipio si occupavano con solerzia della manutenzione
delle strade.
E l’arrivo della neve, nei giorni
del Natale, era accolto con gioia dai bambini, che si attardavano, nei freddi
pomeriggi dopo la scuola, a costruire decine di pupazzi di neve.
Ma vi era un ragazzino di nome
Jim Evans che detestava il Natale e che mai, nel corso dei suoi undici anni, si
era fermato con gli amici o con i genitori a creare un pupazzo di neve.
Jim abitava alla periferia di
Phantom City, in una piccola casa a due piani, costruita completamente in legno
e attorniata da altre abitazioni simili, davanti alle quali non mancavano i
pupazzi di neve.
Queste abitazioni erano adornate
da luminarie di vario colore e forma, che ne seguivano il profilo. Dentro, si
potevano udire le voci delle famiglie che si riunivano attorno all’albero e che
gioivano per l’arrivo imminente del Natale.
Ma l’abitazione degli Evans non
aveva addobbi, e neppure un pupazzo di neve. I genitori di Jim non avevano
tempo per il Natale. Lavoravano nove, dieci ore al giorno nel loro negozio di
attrezzature sciistiche, che li aveva fatti divenire, in poco tempo, una delle
famiglie più abbienti della città.
E Jim era cresciuto in compagnia
di babysitter più o meno brave, o più o meno gentili, generalmente molto
giovani, che intendevano solo intascare qualche dollaro, senza badare troppo
all’educazione del ragazzino.
Così Jim, con il passare degli
anni, era diventato sempre più taciturno e si era chiuso in se stesso,
detestando tutto e tutti, compreso il Natale. Non sopportava sentire i vicini
che cantavano o che ridevano durante la vigilia, come non sopportava quei
ridicoli e orribili pupazzi di neve. Attendeva sempre con gioia l’arrivo delle
temperature più alte, che scioglievano la neve e, di conseguenza, quelle
assurde brutte copie degli uomini.
E non aveva amici. I compagni di
scuola lo deridevano e lo allontanavano, considerandolo un po’ tocco. Jim, in
sostanza, era completamente solo. Nessuno gli voleva bene, nessuno lo
rispettava, nessuno lo cercava.
Nella sera dell’accensione del
grande albero della piazza principale, Jim Evans, come ogni anno, stava
aspettando il ritorno dei genitori dal lavoro. Sapeva che non si sarebbero
fatti vedere prima delle undici o di mezzanotte, perché suo padre gli diceva
sempre che era in serate come quelle che si poteva vendere davvero tanto.
Lavanda Parker, la scialba e
sciocca babysitter che avrebbe dovuto fargli compagnia quella sera, una
ragazzina di diciassette anni colma di acne, alta e magra come uno stuzzicadenti
e con un alito così terrificante da far secco uno zombie, si era addormentata
da almeno un’ora dinanzi a un film anni cinquanta.
Erano le dieci e Jim sapeva che
entro mezz’ora il Sindaco avrebbe dato il via all’accensione dell’albero.
Lui non sapeva neppure che
significasse avere un albero di Natale in casa, come non aveva mai assistito
alla cerimonia.
Facendo una linguaccia a Lavanda,
che russava sonoramente sul lussuoso divano in pelle nera, si incamminò, in
punta di piedi, sino alla porta di ingresso. Lanciò uno sguardo distratto
all’immagine che si rifletté nel lungo specchio in entrata.
Vide un ragazzino alto, magro e
dinoccolato, con corti capelli biondi, piccoli occhi azzurri, un po’ annacquati
in verità, e una marea di punti neri sul naso e sugli zigomi, che davano il
saluto all’inizio dell’adolescenza.
Jim detestava il suo aspetto,
come detestava Lavanda Parker, i suoi genitori e il Natale.
Sospirò, afferrò il giubbotto
dall’attaccapanni e uscì di casa. Si sfregò le mani sulle braccia. Faceva
freddo, un freddo terribile che gli pungeva le guance e le dita delle mani. Ma
decise ugualmente di inforcare la bicicletta. Le strade erano pulite e lui
voleva vedere la cerimonia di accensione dell’albero, anche solo per fare un
dispetto ai suoi o per metterli in ansia. Così facendo, per lo meno, avrebbero
avuto altro da pensare, oltre all’andamento del loro negozio.
Jim si immise nello stradone
principale che lo avrebbe condotto sino al centro di Phantom City e pedalò come
un pazzo, pur di arrivare in tempo. Voleva capire davvero come ci si poteva
sentire a Natale.
Le strade erano praticamente
perfette, pertanto Jim riuscì a raggiungere in fretta la grande piazza
principale della cittadina. Si fermò sull’altura sovrastante, dove sostavano
qualche gruppo di pini e i giardini pubblici, completamente ammantati di neve.
Sbarrò gli occhi e spalancò la
bocca. Non aveva mai visto, in tutti i suoi undici anni, così tanta gente che
chiacchierava, rideva e intonava canti di Natale.
Così scese dalla bicicletta, appoggiandola
a un albero, e sedette su una delle panchine di legno, spostando con la mano un
po’ di neve. Da lassù poteva ammirare la piazza, l’imponente albero che
svettava maestoso verso il cielo scuro e verso una notte senza stelle che
presto, però, sarebbe stata illuminata dalle luci del Natale.
Jim era euforico. Non aveva mai
provato un’emozione così intensa, neppure quando suo padre, per l’ultimo
compleanno, gli aveva regalato la playstation 3, con la speranza che il figlio
trascorresse il suo tempo libero davanti ai videogiochi, scocciandolo ancora
meno con le sue assurde richieste di attenzione e di affetto.
Jim lanciò uno sguardo carico di
odio verso il negozio dei genitori. Anche da lassù poteva vedere la gente che
vi entrava o ne usciva con qualche pacco sotto il braccio.
Strinse i denti e decise di
spostare la sua attenzione al Sindaco Mitchell che, quando il campanile della
chiesa scoccò le 10.30, diede il via all’accensione dell’albero.
Jim si alzò in piedi e perse
quasi l’equilibrio, rischiando di cadere a terra, dinanzi alla magnificenza di
quello spettacolo. L’albero era illuminato da luci rosse, dorate, azzurre,
verdi, che si accendevano a intermittenza. E la punta era rappresentata da una
stella argentata, che sembrava pulsare di luce propria.
Jim tirò su col naso e sentì che
una lacrima stava scendendo timidamente sulla sua guancia destra,
riscaldandola.
Allora si infuriò. Con i
genitori, con le sue odiose babysitter, con i ragazzini che potevano godere
della gioia del Natale, e con il Natale stesso.
Si lasciò cadere sulla neve e
scoppiò a piangere, nascondendo il viso tra le mani. Tanto lassù non lo avrebbe
visto né sentito nessuno, come era normale che accadesse e come era sempre
accaduto, per tutta la sua vita.
Pianse fino allo sfinimento, con
le gambe e le mani intirizzite dal freddo pungente e le lacrime che sembravano
diventare ghiaccio sulle sue gote infuocate.
E formulò un desiderio, che
dapprima nacque nella sua mente, poi si fece strada con prepotenza nel suo
cuore e, infine, esplose tra le sue labbra, in un grido soffocato.
“Voglio credere anch’io nel
Natale e voglio un vero amico che mi rispetti e che creda in me!”
Jim socchiuse gli occhi e riprese
a piangere. La sua vita era triste, i suoi genitori non avevano tempo per lui,
nessun ragazzino della sua età lo cercava.
“Cof cof cof… ehm… Jim Evans?”
Il ragazzino scattò in piedi,
voltandosi. Il suo cuore mancò un colpo. Sbarrò gli occhi e arretrò, andando a
cozzare contro un pino.
“Chi… chi sei?” chiese, tremando
da testa a piedi.
Dinanzi a lui sostava un ometto
che non arrivava al metro di altezza. Vestiva con una maglietta rossa e un paio
di pantaloni corti fino al ginocchio, dello stesso colore. Sui capelli, che a
prima vista gli sembrarono bianchi, o giù di lì, l’ometto aveva sistemato un
cappellino verde, che terminava con un ponpon bianco. Ai piedi calzava scarpe
con la punta all’insù, dello stesso colore del cappello, e la parte inferiore
delle gambe era rivestita da calze bianche a righe rosse. Ma ciò che più attirò
l’attenzione di Jim furono le sue orecchie. Lunghe e assolutamente a punta.
L’ometto si profuse in un solenne
inchino.
“Sebastian, al tuo servizio.
Primo Elfo di Babbo Natale.”
Jim, a questo punto, si lasciò
cadere sulla neve, sfregandosi gli occhi. Aveva capito bene?
Quando li riaprì, il piccolo Elfo
era ancora dinanzi a lui, e lo osservava con uno sguardo assolutamente
divertito.
“Ma non hai freddo, lì a terra?”
E, così dicendo, gli tese la mano
destra che Jim afferrò con titubanza.
Quando fu di nuovo in piedi, il
ragazzino decise di riprendere in mano la situazione.
“Sei proprio un Elfo di Babbo
Natale? Lui… lui esiste davvero?”
L’ometto sbuffò, appoggiando le
mani sui fianchi. “Come osi pensare che possa essere diversamente? Certo che
esiste! Il problema è un altro, semmai! Tu non hai mai creduto al Natale e per
questo motivo Babbo non ti ha mai portato dei doni. E ora che mi hai chiamato…”
“Chiamato? Non è vero, io non
l’ho fatto!” lo interruppe Jim, assumendo un’aria offesa.
“Oh sì che lo hai fatto! Hai
desiderato di credere nel Natale, no? E così, eccomi qui, pronto ad esaudire il
tuo desiderio.”
Jim si sfregò la testa,
osservando il piccolo Elfo con perplessità. Ma si trovò a pensare che voleva
credere all’esistenza di Babbo Natale e che quanto stava vivendo non era solo frutto
della sua immaginazione.
“Avanti, Jim Evans… non volevi
forse un amico? Un vero amico?”
Jim annuì, emozionato. Sì, sì, un
vero amico, che trascorresse del tempo con lui, con cui ridere e divertirsi.
“Bene, allora ritorna a casa e
costruisci subito un pupazzo di neve.”
Jim sbarrò gli occhi. “Come?
Perché…”
“Fa come ti ho detto, obbedisci,
e vedrai esaudito il tuo desiderio.”
E, prima che lui potesse
ribattere, l’Elfo Sebastian svanì in una nuvola di polvere, che rifletté sulla
neve una sfavillante luce dorata.
Jim era confuso, ma si sentiva
carico di adrenalina. Tutto quello era assurdo, pazzesco, ma lui ci voleva
credere, doveva crederci!
Così inforcò la bicicletta e
pedalò come un pazzo verso casa. Vi entrò in silenzio. Lavanda stava ancora russando
sonoramente sul divano, non si era neppure accorta della sua assenza.
Si precipitò nel guardaroba e si
appropriò di una sciarpa e di un cappello di lana rossi. Quindi corse in
cucina, sempre in punta di piedi per non svegliare la babysitter, e sfilò dal
frigorifero una lunga carota. Poi uscì di casa e si diresse in garage, dove
prese un badile.
E, con tutta l’attrezzatura
necessaria e una grande gioia nel cuore, iniziò a creare un grosso pupazzo di
neve. Un’ora dopo, Jim sistemò il cappello di lana e la sciarpa, la carota al
posto del naso e disegnò la linea della bocca con un legnetto. Quindi infilò
nella neve compatta due bottoni per formare gli occhi.
Infine si lasciò cadere sulla
neve, soddisfatto del lavoro che aveva fatto. Ma mancava ancora una cosa. Il
nome.
“Come ti chiamo?” disse, a voce
alta.
“Uhm… credo che Billy potrebbe
andare bene.”
Jim sbarrò gli occhi, poggiò una
mano sulla neve e la utilizzò per farsi leva e scattare in piedi. Si guardò
attorno, sbalordito.
“Chi ha parlato?”
“Io, proprio qui, dietro di te.”
Jim ruotò attorno a se stesso,
sempre più stupito.
Però, cominciava ad essere anche
un po’ spaventato.
“Non sono in vena di scherzi!”
“Oh, se è per questo, tu non
scherzi mai, figurati! Vuoi girarti e guardarmi? Sono proprio qui, con una
grande carota al posto del naso!”
Jim raggelò e si voltò di scatto.
Trasalì, perse l’equilibrio e piombò col sedere sulla neve.
Accidenti! Il pupazzo lo stava
osservando con occhi veri, e non con i bottoni che aveva utilizzato per
crearli! E gli stava sorridendo. Jim era allibito, ma conscio che non stava
sognando e che era tutto dannatamente vero. Allora… quell’Elfo non lo aveva
ingannato! Ora poteva avere un vero amico col quale parlare e trascorrere un
po’ di tempo!
“Ti… ti chiami Billy?” chiese, alzandosi
in piedi e spolverandosi la neve dai pantaloni. “Piacere di conoscerti, io sono
Jim.”
Il pupazzo allargò il sorriso.
“Oh, so perfettamente chi sei e vorrei darti la mano, ma, come puoi vedere, non
ho le braccia.”
Jim spalancò la bocca e si guardò
attorno. Quindi si precipitò verso l’albero dei vicini, strappando due piccoli
rami che infilò nel pupazzo per creare le braccia.
“Ecco fatto.” disse, soddisfatto.
Billy provò a muovere i rametti
e, dopo alcuni tentativi a vuoto, ci riuscì. Jim esultò e trascorse una buona
mezz’ora a parlare con il pupazzo, che lo ascoltò con interesse, senza mai
interromperlo.
“Ti ho annoiato?” chiese Jim
infine, grattandosi la testa. “Scusa, ma tu sei il mio primo, vero amico.”
Billy allargò il sorriso. “Oh no,
è stato un piacere ascoltarti. Io sono qui per questo, sai? Però ora hai un
altro compito importante da svolgere. Ogni casa ha un albero di Natale. Perché
non corri a farne uno anche tu?”
Jim lo fissò per qualche istante,
quindi lo abbracciò con delicatezza, e si precipitò in casa.
Lavanda stava ancora russando. Il
ragazzino fece spallucce e scese rapidamente in cantina. Cercò lo scatolone con
gli addobbi natalizi, che non veniva aperto da anni, e lo portò di sopra.
Armeggiò per circa un’ora, senza fermarsi mai.
Verso la mezzanotte i vicini, che
stavano rientrando a casa dopo la cerimonia che si era tenuta nella piazza
della cittadina, ammirarono sbalorditi il pino di casa Evans, addobbato
meravigliosamente e illuminato da luci rosse e dorate. E osservarono con
curiosità il grosso pupazzo di neve che torreggiava accanto al vialetto della
casa e che sembrava ricambiare i loro sguardi interessati.
Jim guardava i vicini dal
salotto, troppo intimidito per uscire, ma tronfio di orgoglio per quanto aveva
creato. Finalmente, anche lui poteva godere della gioia del Natale, e tutto per
merito dell’Elfo Sebastian, che non avrebbe mai ringraziato abbastanza.
Quando i genitori di Jim
rincasarono appena dopo la mezzanotte, restarono naturalmente basiti dinanzi
allo spettacolo che si parò loro di fronte.
Jim era preoccupato per la loro
reazione. Ma Tom e Sarah Evans, invece, corsero in casa ad abbracciare il
figlio, con le lacrime agli occhi, promettendogli che, da quel momento in poi,
ogni anno avrebbero addobbato quel pino e creato un bel pupazzo di neve, con
sciarpa e cappello sempre di colori differenti.
Jim trascorse il Natale parlando
ogni sera con Billy, facendo ben attenzione a non essere scoperto dai genitori
e dai vicini. E, piano piano, cominciò a legare anche con qualche compagno di
classe, a sorridere e a sentirsi meno solo.
Quando la temperatura iniziò ad
aumentare e prima che Billy si sciogliesse sotto gli occhi tristi di Jim, i due
si promisero amicizia eterna. E così fu.
Ogni anno il ragazzino, una
settimana prima del Natale, si premurò di creare un grosso pupazzo di neve, che
puntualmente apriva gli occhi e trascorreva molti giorni piacevoli con il suo
amico umano.
E, con il passare degli anni, i
coniugi Evans si ingegnarono per adornare in modo sempre più stupefacente il
grande pino e l’abitazione, tanto che un Natale vinsero anche il premio per i
migliori addobbi della città.
In età matura Jim, che viveva
ancora con i genitori, fu eletto Sindaco della città.
Fu un Sindaco giusto, onesto e
amato. E fu ricordato per i magnifici addobbi natalizi che facevano risplendere
la città di luci sfavillanti e per gli innumerevoli pupazzi di neve che
sostavano quieti, e sorridenti, dinanzi a ogni abitazione di Phantom City.
FINE
Grazie carissima! E buon lettura a tutti! M.P. Black.
RispondiEliminaChe bel racconto! Pieno di colori e di speranza ;))
RispondiEliminaUn racconto molto .... e siamo onesti almeno a Natale: spiacevole, pieno di banalità, frasi fatte, piatto come l'olio in una pentola. un regalo e lo si accetta come tale ma manca capacità creativa, stile e vocabolario.
RispondiEliminaGrazie Anonimo e buone feste anche a te! ^-^ Che bello quando il mondo è pieno di gioia e di felicità! eh eh! Black.
RispondiEliminaInsomma... sono sicura che M.P.Black può fare qualcosa di molto meglio di questo.
RispondiEliminagrazie, ho avuto maniera di tornare indietro con sogni da bambina, Gioia
RispondiEliminaUn racconto che fa sognare... c'è magia, gioia, ci sono sentimenti, c'è il riscatto finale di un ragazzino solo. Grazie! Rox.
RispondiElimina