martedì 6 dicembre 2011

Christmas tales: Pianeta Tuorlo di Maurizio Temporin (parte I)

Buon pomeriggio! Alla fine è giunto il freddo anche in una città assolata del sud come la mia - e direi che poteva pure evitare di arrivare per quest'anno. Ma che periodo natalizio è senza mani congelate, strati di lana che ci avvolgono il corpo e piogge torrenziali proprio quando abbiamo dimenticato a casa l'ombrello? Mi trovo molto impegnata in questi giorni soprattutto sul fronte studio, quindi perdonate se non sono presente due-tre volte al dì come lo scorso mese. Ne frattempo, però, continuano i nostri Christmas Tales con un autore che i più giovani conosceranno grazie alla sua trilogia fantasy pubblicata da Giunti, Iris, di cui sono usciti i volumi Fiori di cenere e I sogni dei morti. Dusty pages in Wonderland è lieta infatti di presentare il racconto che ci ha donato il giovanissimo scrittore Maurizio Temporin, Pianeta Tuorlo. Essendo abbastanza lungo sarà diviso in tre post, due pubblicati oggi -uno dei quali doveva essere postato ieri- ed uno domani. A voi auguro buona lettura e a Maurizio Temporin porgo un caloroso ringraziamento per il suo regalo.


Pianeta Tuorlo

(The True Story of Luigi Serafini)

Probabilmente iniziò tutto parecchi millenni prima che nascessi, ma è più facile cominciare da quando già ero nato. Anzi, andiamo un po’ dopo, a quando cominciai a lavorare come architetto. Avevo passato un’adolescenza abbastanza turbolenta viaggiando per il mondo, fra le culture e le persone, che poi non sono molto diversi, ed ero convinto d’aver trovato un capolinea nella facoltà d’architettura. Effettivamente era un capolinea, ma non quello caraibico che mi aspettavo. Le belle idee che mi ero fatto su costruire e inventare si ritrovarono presto chiuse in un cassetto, mezze fuori e mezze dentro, provocandomi un dolore pazzesco, proprio come se si fosse trattato delle mie dita. Me ne stavo giornate intere e anche buona parte delle notti, in questo grande studio per cui lavoravo, e della mia passione a nessuno importava molto. Mi davano di fare questo e quest’altro e si aspettavano che lo facessi. Mi davano progetti di altri, solitamente noiosi e schematici, con una pacca sulla spalla e un orario, non un giorno, di consegna. Sorridevo perchè l’affittuario della mia casetta non lo avrebbe fatto se avessi aggiunto ancora un mese a quelli che già gli dovevo, e mi mettevo a lavorare. Mentre tracciavo quelle linee implacabilmente dritte, come dogmi, sapevo già che il mio nome non sarebbe stato nel progetto e che non sarebbe arrivato nemmeno mezzo bicchiere di spumantino all’ inaugurazione. Sospiravo e tracciavo, sognando di poter fare curve e volute, dimenticando d’essere solo un copista che recitava chino a china preghiere per altri. Poi una notte accadde che mi addormentai sulla scrivania rovesciando l’inchiostro sul lavoro. Quando mi svegliai, al mattino, circondato dalle risa dei colleghi, che in ogni caso erano superiori, mi alzai di scatto cercando di ricompormi. Ci misi poco ad accorgermi d’essere interamente coperto d’inchiostro e accartocciai in fretta i fogli macchiati di vergogna per fuggirmene al bagno. Li gettai infuriato nel cestino e andai al lavandino per levarmi di dosso quelle macchie ridicole. Mentre mi pulivo la faccia, il mio sguardo riflesso nello specchio, andò a cadere proprio sul cestino dei rifiuti, come se volesse convincermi che non era tutto perduto.

Mi asciugai le mani e senza speranza ripresi i fogli che avevo gettato. La mia espressione indispettita si ritrasse trasformandosi in incredulità. Su quei fogli c’erano disegni e scritte straordinarie, mai visti prima. Li passai uno a uno eccitato. Chi poteva averli fatti? Era uno scherzo chiaramanete. O forse no? Controllai. Nessuno in studio poteva aver pensato cose simili. Quelle pagine, perché mi fu subito spontaneo dargli una connotazione simile, riportavano architetture e segni sconosciuti, non solo da me, ma da ogni altro essere umano. Erano pagine che descrivevano una civiltà volatile e incontenibile, che si espandeva in ogni direzione. Barcollai per la grande emozione. Niente di simile, niente di simile, mi ripetevo. Che cosa assurda avevo fra le mani, e non sapevo nemmeno da dove arrivasse. Se era un gioco, doveva essere un gioco estremamente serio. Pensato a lungo. Eppure che pazzia…

Li nascosi nella giacca e me ne tornai al lavoro curandomi di non parlarne a nessuno. Oltre che la figura dell’idiota non volevo essere preso per pazzo. Chinai la testa e mi rimisi a tracciare le solite x e y, lanciando però saltuariamente qualche occhiata alle altre scrivanie, ai gruppetti che si formavano attorno al distributore dell’acqua e alla macchinetta del caffè.

Quella sera il capo mi disse che c’erano ancora alcuni lavori da ultimare e mi chiese di fermarmi in studio, allora finsi un malore. Uscii piegato in due, ma appena svoltato l’angolo cominciai a camminare verso casa di buon passo. Ero elettrizzato all’idea di poter studiare con calma i miei reperti. Non cenai, passai direttamente al dopocena; una bottiglia di brandy regalata da un amico a cui avevo promesso di berla in un’occasione speciale. E che occasione più speciale di quella?!

Disposi ordinatamente i fogli, che erano una decina, sull’unico tavolo che avevo. Presi una lente e studiai le miniature. Non cavai un ragno dal buco, solo altra curiosità. Mi addormentai anche quella volta seduto, ormai era un’abitudine concedersi pisolini occasionali, ma l’attenzione mi era costata così tanto sforzo da non farmi più svegliare fino all’alba.

Quando il sole bussò ai vetri del mio appartamentino era già ora di tornare al lavoro, ma quello che mi trovai di fronte mi obbligò a chiamare e darmi malato fino a data da decidersi. Sicuramente non presto. Sul tavolo erano comparse nuove tavole, c’erano sparpagliate ovunque matite colorate e le mie mani erano sporche. A questo punto esclusi che qualcuno si fosse introdotto durante la notte e guardai con sospetto l’altra possibilità. Ero stato io a disegnare? Mi lasciai andare ad una risata che per il momento era utile a guadagnare tempo. Quando smisi mi alzai, appesantito da una serietà insapettata e mi diressi verso il cucinino. Ci voleva un caffè ed un bell’uovo alla coque! Misi un pentolino sul fuoco, aprii il frigo, presi l’ultimo uovo rimasto e rimasi a toccarlo mentre aspettavo che l’acqua bollisse. Ci passavo sopra le dita, ancora sporche dei pastelli colorati e lo vedevo dipingersi di sfumature. Spaventato e guidato da un’euforia senza patente, cominciai a prendere in seria considerazione che quella civiltà fosse dentro di me.

Quando la cottura dell’uovo fu al punto giusto lo tolsi dall’acqua e lo adagiai su un portauovo che usavo anche come portacandele. Lo portai in tavola, fra i fogli, e mi sedetti. Una volta impugnato il cucchiaino e rotta la parte superiore del guscio mi balenò in testa un’idea assurda, quanto assurdo è questo mondo; che potesse essercene anche un altro nascosto nel mio corpo?

Aprii la camicia e il secondo colpo di cucchiaio non andò all’uovo, arrivò dritto su di me. Non riuscii a guardare, evitai di concentrarmi sulle mie azioni e sperai solo che quella non fosse follia. Cominciai a prendermi a cucchiainate, a scavare col cucchiaino nel mio torace, come fa un archeologo nella roccia. E non provavo alcun dolore, abituato com’ero a quello di tutti i giorni. Sentivo solo un gran pulsare e gioia. Non credevo che avrei mai provato la gioia di essere madre, ma soprattutto, di essere Dio… Ecco che dal mio corpo uscì una grande sfera fluttuante. Gialla, arancione, rossa. Ero troppo sconvolto ed emozionato. Finii per svenire.

Sognai d’essere un angelo a sei ali, come dice il mio cognome, che a differenza del portatore di luce, non si ribellò al volere del padre, solo si distinse dal “coro” delle sfere, scendendo sulla terra a prendere una laurea per costruire un suo mondo, che di inferno e paradiso ha poco e tutto. Mi piace vedermi così, soprattutto ora che so.

Quando mi ripresi credetti d’essere solo caduto all’indietro dalla sedia, il mio torace non riportava ferite, ma appena mi rimisi in piedi, vidi ancora quella sfera. Se ne stava al centro della stanza, sospesa nell’aria sopra al tavolino, girando lentamente. Io feci lo stesso, le girai attorno osservandola. Sembrava in tutto e per tutto il tuorlo sodo d’un uovo gigantesco. Avevo la tentazione di toccarla, ma ritrassi subito

la mano, terrorizzato di poterla in qualche modo alterare. Preferii prendere la lente d’ingrandimento e guardare più da vicino. Quello che trovai mi fece telefonare ancora al lavoro e consigliare educatamente di andare all’inferno, visto che sul mio PIANETA, i posti erano tutti occupati.


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