I
folletti delle finestrelle
di
Lavinia Scolari
Parte II
Claudio
mi avrebbe accompagnato. Io avrei dovuto solo indicare l’albero che avrei
scelto e lui avrebbe fatto il resto. Claudio era un brav’uomo, un factotum
della contrada, allegro, rubicondo, con pochi ciuffi ricci e brizzolati sulle
tempie e occhiali rotondi sul naso. In poco tempo, prima della festività
dell’Immacolata, avremmo avuto il nostro abete rosso di Natale. Arrotolai la
sciarpa intorno al collo come era mia abitudine e prima di varcare l’uscio
chiesi distrattamente:
«Dov’è
che mi aspetta, Claudio?»
«Sotto
le finestrelle».
Sistemai
il colletto del cappotto, tornai indietro, diedi uno strattone alla sciarpa
perché non si allentasse e guardai mia nonna con aria interrogativa.
«Sotto
le finestrelle?» le feci eco. Lei annuì con un sorriso, quegli occhi socchiusi
che brillavano dietro le grandi lenti.
Scrollai
le spalle e uscii di casa.
Avanzavo
a occhi bassi, intirizzito dal freddo cui non ero abituato e avvolto nel mio
cappotto scuro, mani in tasca, con la sciarpa morbida a nascondere la bocca, e
la fronte aggrondata per le sferzate del vento. Avrei preso una scorciatoia in
direzione di Piazza del Campo, imboccando uno dei tanti vicoli che si tuffavano
in essa come immissari di un fiume maggiore. E poi, una nuova salita pietrosa e
via, in direzione della piccola piazza sulla quale si affacciavano le finestre
più piccole del mondo. Chissà se lo erano davvero, le più piccole al mondo.
Perché proprio qui? Perché qualcuno si era dato tanta pena a costruire quelle
fessure e richiuderle con del vetro ormai opaco? Forse, se avessi scalato la
parete, sfruttando i rari appigli e l’indifferenza della gente che andava e
veniva, avrei potuto spiare, vedere, capire. Chissà poi che mi aspettassi di
trovare, allora.
Così,
immerso pigramente nelle mie fantasie, venni addosso a una ragazza che si
stringeva in un lungo mantello. Mi tirai indietro, abbassai il cappello,
accennai le mie scuse sollevando una mano, come un saluto di resa, e proseguii
per la mia strada. Dietro di lei, una folata di vento e profumo di resina. E
poi ancora quella fragranza, di muschio e di terra bagnata. Mi voltai di
scatto, come uno schiaffo tirato d’impulso. Lei camminava avvolta in una
mantellina color nocciola, come certi tronchi di alberi giovani, ancora teneri.
C’era luce fioca, e attorno buio. Il sole declinò. Le luci dei lampioni si
affievolirono fino a scomparire, le insegne si spensero, da lontano la torre
non riluceva più del suo luccicare rossiccio. C’era solo lei, nel suo mantello,
avvolta in una luce calda, come fosse filtrata dalle chiome di alberi che non
potevo vedere. La testa mi girò, la vista iniziò ad annebbiarsi, la sua
immagine snella parve affusolarsi nella mia percezione, le braccia allungarsi
come rami, i capelli sollevarsi al vento e divenire vaporosi.
«Riportali»
L’oscurità
mi avvolse e caddi, o credetti di cadere.
Mi
ritrovai ad avanzare sulle mie gambe; camminavo per inerzia, come se non avessi
fatto altro, avviluppato nel mio cappotto, con la sciarpa un po’ più lenta,
pendula sul petto. Il sole era ancora alto, ma il cielo iniziava a screziarsi,
graffiato di un malinconico amaranto.
Lei era
svanita, forse non c’era mai stata. E quel nostro scontro? Mi sfiorai la testa,
barcollai. Guardai indietro e poi avanti. Stessa città, stessa gente assorta e
frettolosa. Faticavo a capire dove cominciasse il sogno e dove la veglia. Avevo
ancora nelle narici l’odore della terra umida e della resina. Voltai per il
vicolo e infilai una delle strade più larghe che portavano al Campo, ma quando
alzai lo sguardo da terra, mi fermai di botto, rischiando di inciampare sui
miei stessi piedi. Davanti a me la
Piazza era scomparsa.
Al suo
posto c’era una radura coperta di neve e al centro un grande, altissimo abete,
odoroso, con le sue foglie appuntite di un verde scuro. Sui rami ricadevano
languidi fili d’argento e batuffoli di neve densa, mentre piccole luci
brillavano tra i suoi aghi, luci che sembravano ondeggiare in aria, e spostarsi
con impercettibili sussulti.
Qualcosa
si posò freddo sulla mia testa, e ancora, e ancora, e poi sulla guancia. Alzai
il viso. La neve cadeva ovattata e mi baciava la fronte. Tutt’intorno, a
incorniciare quello piana sconosciuta, di terra argillosa e muschio, c’erano
abeti, pini e querce massicce. Erano incappucciati di neve, il il bianco
chiazzava il verde folto dell’erba.
Io ero
al centro, sul fango molle del terreno erboso. Sui rami, intricate ragnatele
scintillavano di rugiada controluce, ma non capivo se fosse mattino o
pomeriggio inoltrato. Non vedevo più il sole, ma qualche suo sospiro spruzzato
di rosso. “Sono le luci del crepuscolo”
pensai.
«Sì.
Presto sarà il tramonto».
La sua
voce. Quella fu la prima volta che la udii. Quant’era dolce... Ma assai diversa
da come l’avevo immaginata. Pensai che ci fosse lei alle mie spalle, la
fanciulla che profumava di resina, ma quando mi voltai trovai qualcun altro.
Un lupo
dal manto bianco e le orecchie ben tese mi fissava curioso. I suoi occhi erano
d’ambra. Esitai. Il lupo avanzò, mi fiutò, e tornò indietro. Zampettò di
qualche passo, si fermò e mi guardò.
«Vuoi
che ti segua?» gli chiesi, quasi potesse rispondere. Si leccò il muso.
«Sì, lo
vuole.»
Il
respiro mi si spezzò. Stavolta c’era lei al mio fianco, la ragazza che profumava
di resina. I suoi capelli erano morbidi e ondulati, lucenti come un bagno di
seta, odorosi, castani. Così lunghi, non li ricordavo. L’ammantavano come una
veste. I suoi occhi erano due gemme dal taglio profondo, scintillanti d’ebano.
I piedi, non riuscivo a scorgerli, era come se sfumassero in nuvole e
arabeschi, e si perdessero nel tappeto di neve.
«Sei
tu» mormorai. Ma che cosa sapevo io di lei? Nulla. Neppure il nome. Avrei
dovuto chiederle qualcosa, ma lì ero come in un sogno, nel quale non hai tempo
per pensare, e credi già di conoscere tutto, nonostante ciò che vedi sia solo
un brandello di realtà.
«Segui
la lupa, e lo sguardo dell’aquila» mi disse, senza neppure guardarmi in viso.
Tutta la sua attenzione era per l’abete.
La
lupa. Aveva detto di seguire la lupa. Quindi era una femmina.
La
cercai. Stava ancora lì, pronta allo scatto, una zampa sollevata. I suoi passi
leggeri erano orme grigie sulla neve. Ero indeciso se stesse fissando me o il
grande abete che sorgeva al centro della radura. Feci per domandarlo alla
fanciulla, ma, com’era venuta, era anche svanita. Mi guardai attorno ma non
c’erano tracce di lei, neppure orme sulla neve, come se non fosse mai arrivata.
Decisi
di seguire la lupa bianca, che parve capirlo subito, e si mosse spedita. Sentivo
alle orecchie sussurri di voci tenui, come di bambini, che riecheggiavano da
ogni lato, fluttuanti, e si accompagnavano a risolini soffocati.
«Guardatelo!
Sta arrivando!»
«Ma è
lui?»
«Ssst!
Ti farai scoprire!»
«Ma non
può mica vederci!»
«Arriva!»
«Via di
qui! Andiamo! Corri!»
La lupa
imboccò un sentiero ripido immerso nella boscaglia. C’erano ginepri e vischio
odoroso. Una canzone di natale suonava fino a noi, da lontano. Finalmente la
lupa di fermò. Eravamo arrivati all’incrocio delle finestrelle, le riconobbi
sebbene tutto il resto fosse mutato: c’erano abeti e arbusti che affollavano la
piazza, nastri rossi, addobbi natalizi e profumo di zenzero e marzapane, di
uvetta e zucchero a velo. Grossi bastoni di zucchero a strisce rosse e bianche
pendevano dalle finestre.
La lupa
si voltò.
La
fanciulla che odorava di resina mi aveva detto di seguire lo sguardo
dell’aquila e io credevo di avere sciolto l’enigma. Così, sicuro di me, mi
volsi in cerca della fontana e la trovai lì, dove l’avevo lasciata, ma restai
senza parole quando mi accorsi che l’aquila di pietra non c’era più.
«Eccoti
finalmente!» mi salutò Claudio. La sua voce ebbe lo stesso effetto di una
goccia d’acqua che increspa un lago, e i cerchi concentrici, allargandosi,
fanno mutare scenario; l’immagine che vedevo tremò e scomparve, e tutto tornò
com’era stato la prima volta: la piazza di pietra grigia, le finestrelle
offuscate, i passanti, la colonna con la lupa allattante e la fontana con su la
grande aquila dal becco adunco, ritornata da un breve viaggio chissà dove.
Tutto uguale, reale, senza misteri.
«Forza!
Andiamo a scegliere questo benedetto albero per tua nonna, altrimenti farà
notte e avrai ben poco da ammirare, nel buio pesto».
«Già,
l’albero...» annuii debolmente. Claudio mi prese a braccetto e mi trascinò via.
Mi voltai indietro più volte, ma non apparvero più né lupi né donne a conforto
della mia follia. Lanciai l’ultimo sguardo. Lo so che può sembrare incredibile,
ma da dietro la finestrella più alta, al di là del vetro appannato, vidi un
visetto vispo, sottile, olivastro, di un esserino che sarà stato alto quanto il
mio palmo, con due occhi tondi da gatto che puntavano me e sorridevano.
Claudio
mi portò in campagna, fuori le mura. Attraversammo la grande porta arcuata
mentre ancora mi stropicciavo gli occhi, ripensando ai miei miraggi. Claudio
chiacchierava con me, ma senza di me, monologhi intensi, un continuo flusso di
racconti e osservazioni, ai quali non serviva affatto il mio intervento. E io
lo seguivo, sguardo a terra, cercando di non inciampare, e pensiero altrove.
«Ecco
qua!» si interruppe da solo «Dà un’occhiata e dimmi quale preferisci.»
Alzai
solo allora lo sguardo. C’erano alberi che per me erano tutti più o meno
uguali, qualcuno più snello, qualche altro più folto, uno molto largo, un altro
piccolo e verdognolo, ma pur sempre assai simili. Qualcosa infine attirò la mia
attenzione. Più in fondo, sulla sinistra, un abete molto atto, con la punta
leggermente curvata da un lato, un tronco possente, scintillante di bruma, mi
colpì. Non so come sia possibile, ma credetti di riconoscere il grande abete
del mio sogno a occhi aperti.
Non
potei resistere all’impulso di avvicinarmi, scrutarlo, toccarlo. Sentivo il suo
odore intenso, fresco, di aghi e di terriccio. Mi appoggiai a lui.
«Ottima
scelta!» esultò Claudio, interpretando quei gesti in modo avventato «Non sarà
facile abbatterlo, ma ci si può lavorare. Controlla però che ci sia spazio
sufficiente in casa, prima di farmi lavorare di accetta.»
Io non
replicai subito. Non sapevo che dire. Era davvero la mia scelta?
«È
questo, l’albero, sì?» mi chiese lui con la sua inflessione toscana.
«Sì» fu
la mia risposta irriflessa.
Claudio
mi diede una pacca vigorosa e si allontanò.
«Che
cosa hai fatto?» mi aggredì la fanciulla misteriosa. Era improvvisamente dietro
di me, con i pugni chiusi e gli occhi colmi di lacrime e rabbia.
«Io...»
seppi solo allargare le braccia e indicare l’abete.
«Ci
ucciderai, se lui muore!» singhiozzò « Ci ucciderai!»
Lo
scalpiccio degli scarponi di Claudio che tornava indietro la fece fuggire, a
gambe nude, nella macchia.
«È
incredibile, credevo di averla con me!» borbottava, frugando in una delle sue
valigette degli attrezzi. Io cercavo ancora con gli occhi la fanciulla dei
boschi, ma finsi di essere interessato ai suoi brontolii:
«Che
cosa hai perso?»
«Non mi
crederai, se te lo dico!»
Stavolta
mi incuriosì davvero:
«Provaci.
Che cosa?»
«La mia
accetta».
E sullo
sfondo, dietro Claudio, chino sulla cassetta degli attrezzi, vidi sfrecciare la
lupa bianca.
Entrai
in casa e richiusi la porta dietro di me. La nonna mi aspettava, girando un
mestolo in una pentola borbottante.
«Mi
dispiace» la salutai «niente abete, per ora. Claudio ha perduto l’accetta».
Lei non
sembrò né delusa né sorpresa.
«Va
bene. Vorrà dire che non era il momento». Spense il fuoco girando la manovella,
infilò due grandi guanti da forno rossi e bianchi con decorazioni di pungitopo
ricamato e tolse la pentola dal fuoco posandola su un sottopiatto di legno.
Mescolò con cura mentre il fumo si spandeva nella cucina.
«Minestra
di farro» annunciò.
Arricciai
il naso.
«Porgimi
il piatto, altrimenti si fredda» mi ordinò dolcemente.
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