martedì 6 dicembre 2011

Christmas tales: Pianeta Tuorlo di Maurizio Temporin (parte II)



Pianeta Tuorlo


(The True Story of Luigi Serafini)


II parte


Leggi la prima parte



Quello che mi premurai di fare per prima cosa fu di dargli un nome. Chiaramente un nome lo aveva già, pianeta Serafini, ma mi divertivo a chiamarlo anche pianeta rosso-d’uovo. Mi chiusi in casa e per un po’mi rifiutai di vedere persino gli amici. Non riuscivo a concedermi distrazioni, sentivo una responsabilità enorme verso il mondo neonato, anche se sulla sua superfice la vita sembrava andare avanti da moltissimo tempo. Le forme erano evolute e c’erano persino civiltà. L’unica altra cosa che mi rimaneva da fare era studiarlo e prendere appunti; d’altra parte avevo già cominciato, quelle che le mie mani avevano disegnato senza chiedermi il permesso, erano le prime pagine dell’opera che avrei poi chiamato “Codex Seraphinianus”.

Si trattava d’un enciclopedia, un libro che tentava di racchiudere tutte le informazioni principali di quel mondo iperuranico. E ne veniva fuori qualcosa di bizzarro, non tanto per le assurdità del pianeta Serafini, ma per il fatto che riportare cose tanto fantastiche in modo scientifico causava come un cortocircuito. Era come dire una cosa giusta nel modo sbagliato o una sbagliata nel modo giusto, insomma, è difficile far coincidere le due cose, ma il risultato mi piaceva comunque, dava la sensazione di una barzelletta drammatica.

Lo suddivisi per categorie, cominciando dalla botanica. C’erano piante davvero interessanti. Su alcuni alberi crescevano ciambelle rosate e dalle ciambelle si generavano coccinelle. Altri arbusti fornivano fiammiferi e alcui alberi ricevevano i frutti anziché darli.

Poi c’erano le margherite per gli innamorati; dopo aver strappato petalo per petalo ed aver detto “m’ama non m’ama” era sufficiente soffiare nel gambo per far gonfiare il pistillo come un palloncino e volare in cielo. Ma esistevano anche piante terribili, da tenere in gabbia.

In una regione vulcanica, a volte, capitava che piovesse inchiostro, e che dopo la pioggia germogliassero penne. Gli abitanti della zona le raccoglievano, ma preferivano appenderle al collo piuttosto che scriverci. Per scrivere usavano le unghie, intagliate come punte di stilografica, o penne d’uccello terminanti in testa e becco.

Da un’altra parte, su un’isola, crescevano invece sedie. Bastava liberarle dei rametti in eccesso ed erano pronte all’utilizzo.

Ma gli alberi che preferivo erano simili ai cipressi. Quando veniva il momento si sradicavano da soli, si dividevano a metà, e liberavano alberelli più piccolo. Questi alberelli poi si tuffavano in mare, usando le radici come eliche per nuotare lontano alla ricerca di nuove terre.

A questo punto fu difficile segnare il confine fra il mondo vegetale e quello animale, come anche, successivamente, delimitare quello umano (?). Lo dico perché mi trovai di fronte a teste di cervo che crescevano nei vasi e a cui spuntavano foglie sulle corna o cose simili; serpenti uniti per testa e coda avvinghiati come anelli, tre topi a cui era accaduto lo stesso fra naso e coda, o a rinoceronti fra coda e corno.

Arrivato a questo punto, dopo mesi a perdere diottrie e denaro per comprare lenti sempre più forti, capii che la vera conoscenza uno se la fa da solo. Tutto quello che avano tentato di insegnarmi, non erano altro che nozioni. Conoscevo cose, ma quelle cose non mi permettevano di capire il mondo, e me ne rendevo conto solo ora che ne avevo a disposizione uno nuovo da esplorare. Il periodo dei viaggi… quello sì che era

stato utile, e ritrovavo lo stesso gusto a spostarmi attorno al grande tuorlo, immaginando di prendere piccoli aerei. Inoltre, più il tempo passava e più il pianeta aumentava di dimensioni.

Studiare i pesci fu un po’ più problematico, dato che l’acqua non mi permetteva di vederli. Mi dovevo accontentare di aspettare che alcuni esemplari finissero sulle spiagge. Scoprii così il pescescopa e lo squalsottomarino.

I pesci più facili da scorgere e che mi divertivano di più, perché sembrava che anche loro potessero vedermi, invece viaggiavano sempre in coppia e a pelo d’acqua. Si fissavano frontalmente ed avendo, oltre ad una pupilla disegnata sul fianco anche una lunga coda seghettata che emergeva in avanti, componevano una sagoma che pareva proprio un paio d'occhi.

Per quanto riguarda gli uccelli, gli insetti, e i mammiferi, fu più semplice. Scoprii quaglie dalle tre teste e il corpo di pigna, teste di gallo con le zampe, e polli dalla coda appuntita, usata per rompere le uova di altri animali e cibarsene. Ma c’erano anche fagiani nati a metà, mezzi dentro e mezzi fuori dall’uovo, alle cui zampe era legata una lampadina spenta, come se fossero stati un’idea non ancora approvata.

Solo quando il pianeta aveva raggiunto una dimensione notevole mi accorsi d’una cosa affascinante; se alcune informazioni non riuscivo a ottenerle, mi bastava immaginarle, e poco dopo le trovavo realizzate sulla sua superficie. Era sempre più evidente di quanto io e lui (?) fossimo legati, quasi la stessa cosa. E’ chiaro che mi venne voglia di invitare persone a vedere quanto affascinante fosse quello che mi era capitato, ma quando mi venivano a trovare, accaddeva che il pianeta Serafini scompariva. Rimanevo solo io imbarazzato, spaventato di poter essere visto come un folle, e nascondevo i fogli del Codex sviando il discorso e parlando svogliatamente, se era possibile d’altro. Era una faccenda troppo personale, evidentemente, almeno il mio mondo la pensava così, e così lo assecondai.

Fu allora che cominciai una nuova sezione dell’enciclopedia. Trattava di una categoria completamente nuova, che non avrei saputo come classificare se non a parte; si trattava di gambe. Sì, proprio gambe, d’una varietà enorme; autonome senza bacino, a coppie di tre unite in fila, astratte, geometriche, floreali etc… Di queste, una particolare specie, emanava luce e si spostava solo su lunghe barche durante la notte, un’altra aveva sopra un ombrello e passeggiava per le strade mischiandosi all’altra gente, oppure c’erano quelle sormontate da un gomitolo, a volte anche unite fra loro da fili, proprio come i rapporti uniscono le persone. Le più importanti, almeno così le consideravano le alte cariche delle città, erano quelle nuvolose; evanescenti e mistiche, simili a personaggi famosi. Potrei continuare, ma preferisco fermarmi a quelle delle discariche. Una specie singolare che come caratteristica aveva quella di muoversi fra i rifiuti, aspirando ciò che si trovava di commestibile da un prolungamento, un’abbozzo di corpo, che ricadeva al suolo. Forse grufolavano come i cinghiali.

Una cosa che non ho premesso è che sul pianeta rosso d’uovo esistessero diversi gradi di civilizzazione, dalle città fino alle tribù. Due tribù d’eccezione stavano a cavallo fra natura e urbanistica, quella dei rifiuti, che viveva appunto vicino alle gambe aspiranti, e quella delle strade. La seconda costruiva capanne di paglia sopra i lampioni, vestiva d’asfalto, e usava cartelli autostradali come scudi. Non posso davvero raccontare tutto, ma è chiaro che ne esistevano molte altre, come esistevano molti tipi di persone; da quelle con strumenti al posto di braccia e gambe, fatte apposta per lavorare, a quelle che si lasciavano crescere piante addosso, coltivandosi.

Sopra i tetti di un quartiere serale, si vedevano spuntare antenne fatte d’osso. In quelle case vivevano scheletri. A volte, quando gli veniva voglia di vita, uscivano a comprarsi una pelle, ma quasi sempre finivano per non riconoscersi. 

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