mercoledì 7 dicembre 2011

Christmas tales: Pianeta Tuorlo di Maurizio Temporin (parte III)

Pianeta Tuorlo


(The True Story of Luigi Serafini)


Parte III



Le città erano strane. Molto più strane della natura. Venivano costruite sulle nuvole, o dentro a grandi serre, o sulle pareti verticali dei canyons, unite fra loro da strutture sospese. Ne ho viste erigere alcune labirintiche sull’acqua, a forma di piramide sopra agli scogli, e altre che sembravano già in rovina. C’era anche una città costruita come un cimitero, dove però i morti non venivano seppelliti. Là, quando la gente moriva, veniva messa dentro a prismi di vetro, che impilati uno sull’altro, creavano enormi strutture trasparenti. I parenti andavano nei prati a fare il picnic, portando tavoli inclinati per evitar di far briciole e piatti automasticanti. La cucina, come la morte, veniva tenuta in grande considerazione. Avevano inventato anche un sistema di tubi per portare il pesce fresco direttamente nei lavandini di casa.

Fra queste società la convivenza non era però sempre pacifica. C’erano guerre, è vero, ma se si faceva una guerra, o era per gioco o era per dolore, non per altri falsi pretesti, e comunque veniva combattuta con fuochi d’artificio. A decidere di far battaglia erano due grandi uomini, giganti smisurati. Uno era l’esercito, l’altro l’uomo banderuola dalle mani sempre in tasca, a cui girava la faccia e cambiavano le idee e gli umori a seconda di come tirava il vento.

Ma queste civiltà sapevano fare persino l’amore. Se lo facevano però diventavano coccodrilli. Di buono c’era che avevano inventato macchine straordinarie, per soddisfar tutti i bisogni ed i piaceri. Una specialmente amavo osservare mentre viaggiava nei cieli. Era la macchina per produrre l’arcobaleno. Poteva crearne d’ogni forma e i colori che usava erano vivi.

Erano passati diversi anni quando decisi di prendermi una pausa per pensare a cosa fare. Non avrei potuto continuare all’infinito, avevo anche una vita su questo pianeta, e i risparmi che avevo stavano per finire. Non potevo neppure continuare a mangiare pezzi del pianeta Serafini per sopravvivere; era ottimo, ma quel comportamento mi dava l’impressione d’essere malsano, di stare commettendo un atto simile al cannibalismo.

Fortunatamente, una sera, incontrai all’angolo di una strada un gatto molto saggio. Miagolando e strusciandosi contro le mie gambe mi spiegò cosa avrei dovuto fare, e per saperne di più lo invitai a stare da me. Accettò. Mi consigliò di terminare il Codex Seraphinianus e di dargli nel frattempo del buon polmone da mangiare. Prese presto l’abitudine di dormirmi sulle spalle mentre disegnavo, facendo quasi toccare il foglio alla sua lunga coda bianca.

Capivo che si stava avvicinando il giorno in cui avrei chiuso l’enciclopedia e mi sentivo un po’ malinconico. Volevo scrivere ancora un capitolo che spiegasse la grammatica della lingua che avevo usato per scriverla, ma c’era un grosso problema. Nemmeno io, almeno consciamente, conoscevo quella scrittura. Perché il Codex non era scritto in una lingua umana, ma in una lingua primordiale e complessa. La stessa che parlavano gli abitanti di tutto il pianeta; una cosa decisamente interessante per un linguista, perché a memoria umana o aliena, non s’era mai visto un fatto simile. Le lingue sono sempre state per ovvie ragioni diverse, per spontaneità, per impossibilità, e per tentativo di confinare culture e stati. Sul pianeta Serafini invece sembrava esserci una straordinaria comunicazione, sia fra le cose che fra i suoi abitanti. Proprio come se tutto avesse avuto origine comune e fosse appartenuto ad un’unica matrice. La mia testa (?) Pianeta Tuorlo era effettivamente un sottomondo, il risultato dell’assimilazione e dell’elaborazione della terra, ma soprattutto ne era una bella e lampante metafora. Era la spiegazione e la presa in giro dell’enigma, una risposta scherzosa delle grandi domande. E quella lingua, essendo incomprensibile, avrebbe posto tutti allo stesso piano e, per paradosso, sarebbe stata da tutti ugualmente leggibile. Sapevo che quelle parole erano sensate, ne percepivo le intenzioni, e mi resi conto che l’unica grammatica possibile era fatta di sensazioni. Così cercai di spiegare i vari tipi di parole attraverso il disegno; c’erano parole che bisognava leggere attorno, altre scolpite, fluttuanti, sgocciolanti, cucite come filo al foglio, o adagiate da paracaduti e sollevate da palloncini. Per scrivere in Serafiniano si potevano usare molti strumenti, anche una penna capace di aspirar via le lettere. Ma essendo una lingua preziosa, bisognava anche che ci fossero strumenti capaci di proteggerla da chi ne abusava, in grado di trasformare le parole in bolle di sapone o di rimandarle in gola.

Quando finalmente terminai, con una tavola che rappresentava la mia mano sfinita, morta, scheletrica, il gatto si svegliò e mi miagolò piano nell’orecchio cosa si doveva fare. Gli diedi ragione. Il mio pianeta esisteva, ma non poteva esistere su un altro. Lo guardavo girare nella stanza; ne occupava più della metà, sfiorando soffitto e pavimento. Sospirai accarezzando il gatto e lo feci scendere sul tavolo. Andai svogliatamente al telefono e chiamai un amico scultore. Patrizio rispose con gioia, era da tempo che non mi sentiva, ma mi accorsi della sua perplessità quando gli dissi di cosa avevo bisogno. Non volli spiegargli più del dovuto, gli dissi solo le dimensioni e le caratteristiche della cosa che doveva costruirmi. Rispose che lo avrebbe fatto, ma che poi gli avrei dovuto offrire una cena, almeno per vederci e chiacchierare un po’. Concordammo che il pagamento sarebbe stato una bevuta assieme. La settimana dopo il lavoro sarebbe stato pronto. Riagganciai sollevato e rattristato. Avrei voluto sapere ancora di più su quel pianeta e quella lingua prima di separarmene. Era stato il Serafiniano il dito che indicava tutto e spiegava in silenzio. C’ero affezionato. Ed era per merito suo se avevo terminato il lavoro, era stato il gusto del gioco serio, del mistero da svelare, che mi aveva dato la voglia di infittirlo.

Le mattine passarono veloci, e dopo il settimo, venne l’ottimo giorno.Come Patrizio mi aveva promesso un camion scaricò nel cortile il sofisticato strumento che gli avevo commissionato. Era un bel pomeriggio d’aprile, l’aria era fresca, il cielo azzurro, e c’era odore di ciliegio, quando portai il pianeta Serafini per la prima volta all’esterno. Il gatto saggio rimase a seduto all’ombra mentre liberavo il marchingegno da corde e imballaggio. Una volta terminato lo guardai. Sembrò approvare con la coda la mia decisione.

La Padapulta era pronta. Come il nome suggerisce si trattava di una catapulta a forma di enorme padella. L’ideale se si deve spedire un pianeta d’uovo nello spazio.

Il globo Serafini era in fermento, tutti i suoi abitanti si agitavano festosi sulla superficie, suonando trombe e sventolando bandierine. Mi inchinai in segno di saluto e lo vidi spostarsi sulla Padapulta senza bisogno d’aiuto. Si posò sul fondo e a me non rimase che afferrare la leva della molla. Sorrisi e lo guardai un ultima volta, poi, senza rimpianti, o almeno non troppi, tirai verso il basso.

La Padapulta scattò con uno schiocco e il pianeta Tuorlo venne scagliato nel cielo con una potenza tale che nel cortile s’alzò un gran polverone. Caddi all’indietro e rimasi seduto in terra a guardarlo volar via nel cielo azzurro, passando attraverso le nuvole, che non potevano essere altro che albume. Scomparve lasciandosi dietro un rumore di fritto e io, come un Dio disoccupato, tornato architetto, presi il saggio gatto fra le braccia e tornai in casa.

Era quasi ora di cena e cominciavo ad aver fame, ma questa volta mi sarei fatto una frittata.





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