I folletti delle finestrelle
di
Lavinia Scolari
Parte II
Quella
notte ebbi visite. Dormivo di un sonno agitato quando sentii bussare alla
finestra della mia camera. Tre colpi svelti. Poi ancora. Scostai la coperta di
lana e il lenzuolo che profumava di bucato, ma non mi alzai. Attesi che quel
suono si ripetesse. Così accadde: toc toc
toc. Sembravano suoni appuntiti.
Tentai
di accendere la lampada sul comodino, ma ci fu solo un clic sordo. Era fulminata.
Toc toc toc. Ancora bussare alla
finestra. Mi arresi, sgusciai fuori dalla coltre calda di lana e venni fino
alla finestra. Scostai di un colpo il pesante tendaggio blu e per lo spavento
scattai indietro di un balzo.
Sul
davanzale, un’aquila nera mi fissava con occhi d’oro, ammiccando. Bussò ancora
col becco. Era talmente grande che temevo potesse rompere il vetro. Poi mi
ricordai:
“Segui la lupa, e lo sguardo dell’aquila”
Indossai
di fretta un cappotto sopra al pigiama, mi gettai al collo la sciarpa, infilai
una scarpa e poi l’altra, senza calzini, saltellando; uscii dalla stanza e
corsi giù in strada.
La
finestra della mia stanza dava sulla via, era al primo piano rialzato, ma come
avevo temuto, l’aquila non c’era più giù.
Un
grido acuto dall’alto mi fece trasalire. Era lei, volteggiava con la sua ombra
nera contro il cielo illuminato da una luna rotonda. Scese, planò, risalì e
scomparve.
Ma io
sapevo dove andare, che cosa fare: prima dovevo seguire la lupa, tornare dove
lei mi aveva portato. E così, questa volta, non avevo dubbi. Dovevo dirigermi
alla piazza delle finestrelle.
Per
strada non c’era nessuno, solo il vento e le statue, e qualche antico doccione
infreddolito. Mi ritrovai a correre, per non mancare a un appuntamento che non
avevo mai concordato. Corsi e non notai che iniziava a nevicare, di nuovo.
Quella neve irreale, di zucchero, fredda e morbida al tatto, quasi carezzevole.
Cadeva a fiocchi e un grande manto candido si stendeva sull’asfalto.
Tintinnavano campanelli invisibili nell’aria, come di renne. Luci, addobbi,
colori di un rosso vermiglio e d’oro. Nastri penzolavano per le strade e
iniziai a sentire odore di biscotti di marzapane.
La
salita mi rallentò, ma infine arrivai in piazza Postierla. Era rivestita di un
tappeto di neve e da quel mantello bianco spuntavano piccole scatole
impacchettate con coccarde di porpora e nastri d’argento. Feci attenzione a non
calpestarli. Davanti alla fontana c’era la lupa bianca, accovacciata. Venne a
leccarmi la mano e tornò nel suo giaciglio. Un urlo acuto si levò dall’alto e
l’aquila nera spiegò le ali in discesa. Scese giù, lentamente e si appostò
sulla fontana, il suo piedistallo di pietra. Raccolse le ali contro il corpo
piumato. Mi guardò, pungente, dritto negli occhi; nei suoi mi specchiavo. E
infine si volse a puntare più in alto.
Lo
sguardo dell’aquila. Erano le finestrelle, che mi stava indicando.
Non
esitai. Mi aggrappai a ogni appiglio, alle insenature nella pietra, ai tubi, al
muro irregolare, mi sollevai di peso, persi una scarpa, mi issai e spiai
dentro. La finestrella emanava una luce gialla. Riuscii a guardare per pochi
secondi.
Dentro
c’era un piccolo alberello di natale, con nastri, palline colorate, luci
intermittenti, festoni e ghirlande, e poi biscotti appesi e una stella
appuntita sulla cima. A un grande tavolo di legno rozzo, con piedi di ceppi,
stavano piccoli omini dall’incarnato verdognolo, con cappelli a punta gettati
all’indietro, orecchie aguzze e grandi e mani veloci che intagliavano,
costruivano, martellavano, fissavano, tessevano, impastavano. E intanto le loro
canzoni riempivano l’aria di note leggere.
«Riportali»
mi ripeté la fanciulla dal profumo di resina «Riportali all’abete, è quella la
loro casa».
La
finestrella allora si spalancò e i folletti si girarono di scatto verso di me,
un Gulliver spaventato più di loro.
Un
vento impetuoso soffiò dall’interno e mi spinse via. Con un salto tornai giù,
incespicando. Loro si avvicinarono alla finestrella, la chiusero e si
spalmarono contro il vetro, a fissarmi in silenzio.
«Riportali
all’abete» mi ripeté lei.
«Come
posso fare?» chiesi, gridando all’aria incorporea.
«Offri
loro un dono e ti seguiranno».
Un
dono? Ma non avevo nulla! Toccai la sciarpa. Era tutto quello che avevo. La
sfilai dal collo. Era morbida e teneva al caldo. La tesi verso quelle piccole
creature curiose. Mi guardarono con occhietti curiosi, piegando la testa. Era
troppo grande per loro, non sarebbe neppure passata dalla finestra!
La lupa
annusava qualcosa ai miei piedi. Uno dei tanti pacchetti minuscoli che
sbucavano dal terreno. Mi chinai e ne raccolsi uno. Era vuoto. Tirai uno dei
nastri e il fiocco si sciolse, lasciando che la scatola si aprisse. Si spalancò
e un alone si sprigionò da essa come polvere d’oro, avvolgendo la sciarpa.
Questa si rimpicciolì e il pacco la risucchiò richiudendosi di colpo, mentre
mani invisibili annodavano un bel fiocco rosso sulla sua sommità.
Eccolo,
era il mio dono ai folletti che abitavano la casa delle finestrelle. In mano
pesava un poco di più, e brillava come se dentro ci fosse una lanterna accesa.
Lo offrii timidamente e questa volta i folletti parvero gradire: batterono le
mani, spalancarono la finestrella e si lanciarono fuori come schegge, facendo
capriole sulla neve e saltellando intorno a me. Ogni loro movimento era un
oscillare cristallino di campanelli.
L’aquila
si librò in volo, la lupa si alzò sulle zampe, scodinzolando, e io avvertii
odore di muschio, cannella e resina.
Eccola
di nuovo, era lei, la mia bellissima fanciulla dei boschi. Aveva edera tra i
capelli e ancora edera avvinghiata lungo il corpo sinuoso.
Allargò
le braccia:
«Piccoli
miei, tornate a casa!» chiamò i folletti.
Quelli
saltarono di gioia, con gli occhi scintillanti di lacrimoni, e corsero da lei,
rincorrendosi sul suo corpo che li accoglieva, sulle spalle, sulla testa, fra i
capelli e in braccio.
«Grazie»
mi disse «Questi sono i miei folletti, i folletti dell’abete rosso, che ogni
anno, la notte di Natale, cantavano e giocavano e impacchettavano doni. E mi
proteggevano, me e il mio albero. Ma li avevo perduti da quando si erano
rinchiusi in questa casa costruita da mani d’uomo per gli elfi. Ma loro non
sono elfi, sono spiriti del Natale. Sperduti nel mondo degli uomini che non
sognano, stavano per dimenticarsi di me e di loro stessi. Grazie per averli
fatti tornare.»
«Ma io
non ho fatto nulla...» balbettai.
Lei
sorrise della mia ingenuità:
«Serviva
un dono di umani per farli tornare, perché a causa di un vostro dono erano
giunti qui, in questa casa».
«E qual
era il primo dono?» domandai titubante.
Lei
sollevò la mano bruna. Stava indicando le finestrelle. E quell’ultimo gesto
volle essere un congedo: i suoi lineamenti si fecero diafani, come se stesse di
nuovo scomparendo.
«Aspetta!»
Tentai di trattenerla «Dimmi almeno il tuo nome!»
Ma era
tardi e di lei non rimaneva nulla, se non il ricordo, perso nella risata dei
folletti.
Toc toc toc. Bussarono alla porta
della mia camera. Era mattino e io ero a letto. Mi alzai svogliatamente e aprii
un sottile spiraglio di porta. Era mia nonna. Reggeva qualcosa, il vassoio
della colazione. Ero ancora più confuso: non mi aveva mai portato la colazione
in camera.
Entrò
prorompente, ridendo:
«Su,
pelandrone! Stamani vai a scegliere il mio albero di Natale!»
Era
vero. Avevo promesso. Feci colazione con latte caldo, caffè e fette biscottate
spalmate di marmellata alla ciliegia. Una doccia mi svegliò per bene e poi
uscii di casa per incontrare Claudio.
Lo
trovai vicino al grande abete rosso, con un cappello di lana grigia in testa e
guanti che lasciavano libere le dita. Mi rimproverò bonariamente del ritardo
prima di sollevare la sua accetta. Io guardai l’abete. Piccole ombre si
muovevano rapide per i rami più alti, e dentro le insenature. Sulla corteccia
mi parve di vedere disegnato il volto di una donna che mi sorrideva. Claudio
fece per vibrare l’ascia, ma io lo fermai appena in tempo:
«Aspetta!»
Lui
aggrottò la fronte.
«Che
c’è?»
«Non
voglio che questo albero si tocchi». dissi.
«Ma è
l’abete che hai scelto, ricordi? Quello per tua nonna» ribatté lui,
frastornato.
«Non
voglio che venga abbattuto».
«Sarà
difficile, per me da solo, estrarlo con tutte le radici. È troppo grosso» disse
lui, e lo soppesò guardando in alto, fino alla sua cima.
Mi
aveva frainteso.
«Dimmi,
Claudio, dove passerai il Natale?»
Lui
parve stordito da quella domanda improvvisa:
«A
casa, con la mia famiglia» rispose insicuro.
Ma
quella era proprio la risposta che cercavo.
«Bene,»
dissi e poggia la mano contro il tronco dell’abete «voglio che sia così anche
per lui. Che passi il Natale qui, a casa, con le radici affondate nella terra,
assieme alla sua famiglia».
Claudio
rimase in silenzio per qualche secondo. Poi scelse di levare un’ultima
protesta:
«Ma è
solo un abete di Natale!»
«E
infatti è al Natale che appartiene, non a noi».
Questa
volta Claudio non aggiunse altro. Scrollò le spalle e se ne andò, grattandosi
la testa.
Passarono
i giorni, e in casa di mia nonna svettava un abete finto, ma con addobbi ricchi
e lucenti, festoni d’oro e d’argento, lampadine a forma di campanule e boccette
di vetro colorato. Non odorava né di resina né di albero, però era bello,
allegro, dava un senso di festa e di gioia. Di notte, quando mia nonna già
dormiva, la sua luce danzava dei colori del cielo sulla parete della stanza. Lo
ammiravo in silenzio, con una tazza di cioccolata in mano.
Toc toc toc
Sussultai.
Di nuovo la finestra, quel bussare, ancora lui. Ma stavolta non avevo paura,
solo speranza. Scattai in piedi e corsi a scostare la tenda.
Non
c’era nessuno.
Stavo
per tornarmene in poltrona, quando mi accorsi di un minuscolo pacchetto giallo,
avvolto in una carta da regalo perfettamente ripiegata, con una grossa coccarda
rosso-carminio che brillava in alto. Aprii la finestra. L’aria era gelida.
Raccolsi delicatamente il pacchetto e lo portai dentro.
Lo
scartai con cura, facendo attenzione che non si rompesse. Quando lo aprii,
all’interno trovai una piccola sciarpa di velluto verde smeraldo, assai simile
a quella che era stata mia. Sorrisi.
Sapevo chi la inviava.
Dentro
c’era ancora dell’altro, un foglio minuscolo, di pergamena, forse. Riuscii a
prenderlo a fatica, litigando con indice e pollice. Era piegato. Lo aprii.
C’era scritto qualcosa in una calligrafia aggraziata:
Mi
chiamano Driade
Ora
sapevo il suo nome. Un lupo ululò nella notte e un rumore di ali spiegate
sfarfallò fuori, sotto la neve.
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