giovedì 15 dicembre 2011

Christmas tales: I folletti delle finestrelle di Lavinia Scolari (parte III)

I folletti delle finestrelle

di

Lavinia Scolari

Parte II







Quella notte ebbi visite. Dormivo di un sonno agitato quando sentii bussare alla finestra della mia camera. Tre colpi svelti. Poi ancora. Scostai la coperta di lana e il lenzuolo che profumava di bucato, ma non mi alzai. Attesi che quel suono si ripetesse. Così accadde: toc toc toc. Sembravano suoni appuntiti.
Tentai di accendere la lampada sul comodino, ma ci fu solo un clic sordo. Era fulminata.
Toc toc toc. Ancora bussare alla finestra. Mi arresi, sgusciai fuori dalla coltre calda di lana e venni fino alla finestra. Scostai di un colpo il pesante tendaggio blu e per lo spavento scattai indietro di un balzo.
Sul davanzale, un’aquila nera mi fissava con occhi d’oro, ammiccando. Bussò ancora col becco. Era talmente grande che temevo potesse rompere il vetro. Poi mi ricordai:
“Segui la lupa, e lo sguardo dell’aquila”
Indossai di fretta un cappotto sopra al pigiama, mi gettai al collo la sciarpa, infilai una scarpa e poi l’altra, senza calzini, saltellando; uscii dalla stanza e corsi giù in strada.
La finestra della mia stanza dava sulla via, era al primo piano rialzato, ma come avevo temuto, l’aquila non c’era più giù.
Un grido acuto dall’alto mi fece trasalire. Era lei, volteggiava con la sua ombra nera contro il cielo illuminato da una luna rotonda. Scese, planò, risalì e scomparve.
Ma io sapevo dove andare, che cosa fare: prima dovevo seguire la lupa, tornare dove lei mi aveva portato. E così, questa volta, non avevo dubbi. Dovevo dirigermi alla piazza delle finestrelle.

Per strada non c’era nessuno, solo il vento e le statue, e qualche antico doccione infreddolito. Mi ritrovai a correre, per non mancare a un appuntamento che non avevo mai concordato. Corsi e non notai che iniziava a nevicare, di nuovo. Quella neve irreale, di zucchero, fredda e morbida al tatto, quasi carezzevole. Cadeva a fiocchi e un grande manto candido si stendeva sull’asfalto. Tintinnavano campanelli invisibili nell’aria, come di renne. Luci, addobbi, colori di un rosso vermiglio e d’oro. Nastri penzolavano per le strade e iniziai a sentire odore di biscotti di marzapane.
La salita mi rallentò, ma infine arrivai in piazza Postierla. Era rivestita di un tappeto di neve e da quel mantello bianco spuntavano piccole scatole impacchettate con coccarde di porpora e nastri d’argento. Feci attenzione a non calpestarli. Davanti alla fontana c’era la lupa bianca, accovacciata. Venne a leccarmi la mano e tornò nel suo giaciglio. Un urlo acuto si levò dall’alto e l’aquila nera spiegò le ali in discesa. Scese giù, lentamente e si appostò sulla fontana, il suo piedistallo di pietra. Raccolse le ali contro il corpo piumato. Mi guardò, pungente, dritto negli occhi; nei suoi mi specchiavo. E infine si volse a puntare più in alto.
Lo sguardo dell’aquila. Erano le finestrelle, che mi stava indicando.
Non esitai. Mi aggrappai a ogni appiglio, alle insenature nella pietra, ai tubi, al muro irregolare, mi sollevai di peso, persi una scarpa, mi issai e spiai dentro. La finestrella emanava una luce gialla. Riuscii a guardare per pochi secondi.
Dentro c’era un piccolo alberello di natale, con nastri, palline colorate, luci intermittenti, festoni e ghirlande, e poi biscotti appesi e una stella appuntita sulla cima. A un grande tavolo di legno rozzo, con piedi di ceppi, stavano piccoli omini dall’incarnato verdognolo, con cappelli a punta gettati all’indietro, orecchie aguzze e grandi e mani veloci che intagliavano, costruivano, martellavano, fissavano, tessevano, impastavano. E intanto le loro canzoni riempivano l’aria di note leggere.
«Riportali» mi ripeté la fanciulla dal profumo di resina «Riportali all’abete, è quella la loro casa».
La finestrella allora si spalancò e i folletti si girarono di scatto verso di me, un Gulliver spaventato più di loro.
Un vento impetuoso soffiò dall’interno e mi spinse via. Con un salto tornai giù, incespicando. Loro si avvicinarono alla finestrella, la chiusero e si spalmarono contro il vetro, a fissarmi in silenzio.
«Riportali all’abete» mi ripeté lei.
«Come posso fare?» chiesi, gridando all’aria incorporea.
«Offri loro un dono e ti seguiranno».
Un dono? Ma non avevo nulla! Toccai la sciarpa. Era tutto quello che avevo. La sfilai dal collo. Era morbida e teneva al caldo. La tesi verso quelle piccole creature curiose. Mi guardarono con occhietti curiosi, piegando la testa. Era troppo grande per loro, non sarebbe neppure passata dalla finestra!
La lupa annusava qualcosa ai miei piedi. Uno dei tanti pacchetti minuscoli che sbucavano dal terreno. Mi chinai e ne raccolsi uno. Era vuoto. Tirai uno dei nastri e il fiocco si sciolse, lasciando che la scatola si aprisse. Si spalancò e un alone si sprigionò da essa come polvere d’oro, avvolgendo la sciarpa. Questa si rimpicciolì e il pacco la risucchiò richiudendosi di colpo, mentre mani invisibili annodavano un bel fiocco rosso sulla sua sommità.
Eccolo, era il mio dono ai folletti che abitavano la casa delle finestrelle. In mano pesava un poco di più, e brillava come se dentro ci fosse una lanterna accesa. Lo offrii timidamente e questa volta i folletti parvero gradire: batterono le mani, spalancarono la finestrella e si lanciarono fuori come schegge, facendo capriole sulla neve e saltellando intorno a me. Ogni loro movimento era un oscillare cristallino di campanelli.
L’aquila si librò in volo, la lupa si alzò sulle zampe, scodinzolando, e io avvertii odore di muschio, cannella e resina.
Eccola di nuovo, era lei, la mia bellissima fanciulla dei boschi. Aveva edera tra i capelli e ancora edera avvinghiata lungo il corpo sinuoso.
Allargò le braccia:
«Piccoli miei, tornate a casa!» chiamò i folletti.
Quelli saltarono di gioia, con gli occhi scintillanti di lacrimoni, e corsero da lei, rincorrendosi sul suo corpo che li accoglieva, sulle spalle, sulla testa, fra i capelli e in braccio.
«Grazie» mi disse «Questi sono i miei folletti, i folletti dell’abete rosso, che ogni anno, la notte di Natale, cantavano e giocavano e impacchettavano doni. E mi proteggevano, me e il mio albero. Ma li avevo perduti da quando si erano rinchiusi in questa casa costruita da mani d’uomo per gli elfi. Ma loro non sono elfi, sono spiriti del Natale. Sperduti nel mondo degli uomini che non sognano, stavano per dimenticarsi di me e di loro stessi. Grazie per averli fatti tornare.»
«Ma io non ho fatto nulla...» balbettai.
Lei sorrise della mia ingenuità:
«Serviva un dono di umani per farli tornare, perché a causa di un vostro dono erano giunti qui, in questa casa».
«E qual era il primo dono?» domandai titubante.
Lei sollevò la mano bruna. Stava indicando le finestrelle. E quell’ultimo gesto volle essere un congedo: i suoi lineamenti si fecero diafani, come se stesse di nuovo scomparendo.
«Aspetta!» Tentai di trattenerla «Dimmi almeno il tuo nome!»
Ma era tardi e di lei non rimaneva nulla, se non il ricordo, perso nella risata dei folletti.

Toc toc toc. Bussarono alla porta della mia camera. Era mattino e io ero a letto. Mi alzai svogliatamente e aprii un sottile spiraglio di porta. Era mia nonna. Reggeva qualcosa, il vassoio della colazione. Ero ancora più confuso: non mi aveva mai portato la colazione in camera.
Entrò prorompente, ridendo:
«Su, pelandrone! Stamani vai a scegliere il mio albero di Natale!»
Era vero. Avevo promesso. Feci colazione con latte caldo, caffè e fette biscottate spalmate di marmellata alla ciliegia. Una doccia mi svegliò per bene e poi uscii di casa per incontrare Claudio.
Lo trovai vicino al grande abete rosso, con un cappello di lana grigia in testa e guanti che lasciavano libere le dita. Mi rimproverò bonariamente del ritardo prima di sollevare la sua accetta. Io guardai l’abete. Piccole ombre si muovevano rapide per i rami più alti, e dentro le insenature. Sulla corteccia mi parve di vedere disegnato il volto di una donna che mi sorrideva. Claudio fece per vibrare l’ascia, ma io lo fermai appena in tempo:
«Aspetta!»
Lui aggrottò la fronte.
«Che c’è?»
«Non voglio che questo albero si tocchi». dissi.
«Ma è l’abete che hai scelto, ricordi? Quello per tua nonna» ribatté lui, frastornato.
«Non voglio che venga abbattuto».
«Sarà difficile, per me da solo, estrarlo con tutte le radici. È troppo grosso» disse lui, e lo soppesò guardando in alto, fino alla sua cima.
Mi aveva frainteso.
«Dimmi, Claudio, dove passerai il Natale?»
Lui parve stordito da quella domanda improvvisa:
«A casa, con la mia famiglia» rispose insicuro.
Ma quella era proprio la risposta che cercavo.
«Bene,» dissi e poggia la mano contro il tronco dell’abete «voglio che sia così anche per lui. Che passi il Natale qui, a casa, con le radici affondate nella terra, assieme alla sua famiglia».
Claudio rimase in silenzio per qualche secondo. Poi scelse di levare un’ultima protesta:
«Ma è solo un abete di Natale!»
«E infatti è al Natale che appartiene, non a noi».
Questa volta Claudio non aggiunse altro. Scrollò le spalle e se ne andò, grattandosi la testa.

Passarono i giorni, e in casa di mia nonna svettava un abete finto, ma con addobbi ricchi e lucenti, festoni d’oro e d’argento, lampadine a forma di campanule e boccette di vetro colorato. Non odorava né di resina né di albero, però era bello, allegro, dava un senso di festa e di gioia. Di notte, quando mia nonna già dormiva, la sua luce danzava dei colori del cielo sulla parete della stanza. Lo ammiravo in silenzio, con una tazza di cioccolata in mano.
Toc toc toc
Sussultai. Di nuovo la finestra, quel bussare, ancora lui. Ma stavolta non avevo paura, solo speranza. Scattai in piedi e corsi a scostare la tenda.
Non c’era nessuno.
Stavo per tornarmene in poltrona, quando mi accorsi di un minuscolo pacchetto giallo, avvolto in una carta da regalo perfettamente ripiegata, con una grossa coccarda rosso-carminio che brillava in alto. Aprii la finestra. L’aria era gelida. Raccolsi delicatamente il pacchetto e lo portai dentro.
Lo scartai con cura, facendo attenzione che non si rompesse. Quando lo aprii, all’interno trovai una piccola sciarpa di velluto verde smeraldo, assai simile a quella che era stata mia.  Sorrisi. Sapevo chi la inviava.
Dentro c’era ancora dell’altro, un foglio minuscolo, di pergamena, forse. Riuscii a prenderlo a fatica, litigando con indice e pollice. Era piegato. Lo aprii. C’era scritto qualcosa in una calligrafia aggraziata:

Mi chiamano Driade

Ora sapevo il suo nome. Un lupo ululò nella notte e un rumore di ali spiegate sfarfallò fuori, sotto la neve.


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