Oggi sono lieta di presentarvi I folletti delle finestrelle, il racconto scritto per Christmas Tales da un'autrice esordiente che giudico talentuosissima e a cui mi dolgo amaramente aver dato tre stelline, nonostante la sua evidente maestria. Lavinia Scolari, infatti, era stata così brava nel suo L'uomo dal campanello d'oro che -non so se l'effetto fosse voluto- mi aveva trasmesso una grande inquietudine, motivo per cui non avevo alzato il voto (e posso assicurare all'autrice che ancora, tra me e me, ogni tanto ripenso a quel voto e mi dico "eppure dovevo darle quattro stelline" - per capirci qualcosa in più leggete la recensione). In questa prima parte la Scolari introduce il racconto con delle magnifiche descrizioni... per leggere il resto rimanete collegati col blog nei prossimi giorni!
I
folletti delle finestrelle
di
Lavinia Scolari
Questa è una storia di Natale, un po’ vera e un
po’ no.
Il muro
di pietra era rivestito di un drappo di foglie scarlatte, quasi arrese, che
pendevano come grappoli dal rampicante rinsecchito dal freddo. Si era formato
un tappeto, sotto, trapunto di altre foglie cadute, abbandonate al vento di
fine novembre, d’un giallo scuro, striato di senape. La città, di pietra come
quel muro, dormiva sbuffando dai pochi comignoli rimasti. Erano spirali di un bianco
tenue, come ovatta di zucchero, che si perdevano all’orizzonte contro le
sinuosità delle colline, d’un verde acido, sbiadito, carico di terra e sapore
di inverno.
La
strada tortuosa del corso scendeva come un lungo drago scuro, incespicando
contro le colonne delle piazze: abbozzi di obelischi isolati, con statue di
lupe di bronzo che svettano in cima, acuminate nel muso e dagli occhi scavati.
Quello era uno dei simboli della città, la lupa, così mi avevano detto al mio
arrivo; come la piazza rotonda, che sembrava sprofondare man mano che ti
avvicinavi al suo epicentro, o la torre alta dell’orologio, appesantita dai
nidi dei colombi.
Da dove
mi trovavo, in piedi, con una borsa blu a tracollo, le statue d’oro degli
angeli mi fissavano intensamente, e il duomo riluceva di marmi bianchi e
corvini. Era ancora presto, ma stavano già sistemando, con vecchie scale d’un
bianco sporco, dei festoni natalizi, qualche luminaria timida, intermittente,
raccolta tra il fogliame finto della festa.
In
piazza mancava solo il grande abete, che ogni anno superava in altezza le teste
di marmo degli uomini del Trecento, le quali facevano capolino da sotto il
cornicione di un antico edificio. Anche loro giù a fissarti. Se avessi alzato
la testa, avresti incontrato lo sguardo severo, accigliato, di chi ha molto da
rimproverarti.
Nel
pomeriggio, la luce si attenuava, una leggera foschia si mescolava al fumo
delle caldarroste, e sentivo già in bocca il sapore acre del Pane de’ Santi,
fragrante di uvetta e noci. Non era poi così fredda, quell’aria sottile di
Toscana, pungeva solo un po’ la mia pelle che veniva dal mare, ed era abituata
ad altri crepuscoli, meno morbidi, più accesi.
La
piccola finestra quadrata era davanti a me, famosa perché “non ce n’erano di
più piccole al mondo”, così mi avevano raccontato. Ero curioso e andai a
cercarla. Avevo camminato un bel po’ per trovarla e poi ecco che, dietro
l’ultimo incurvarsi della strada, era sbucata una colonna, bianca, irregolare,
con in cima una lupa che allattava due infanti nudi. Rispetto alle altre
statue, questa lupa era bianca, d’un bianco sporco, scavato di ombre. Alle sue
spalle, un’insegna recitava: “Piazza Postierla”. Era lei, la piazza della
finestrella.
La misi
subito a fuoco, defilata rispetto alle grandi serrande verdognole che stavano
alla sua sinistra. Davvero era piccola, minuscola, avrei potuto tenerla in
mano, e forse neppure la mia mano avrebbe potuto passarvi attraverso. Non era
sola, ce n’era un’altra sopra di lei. Ne cercai una terza, senza successo.
Erano due in tutto.
Si
affacciavano in quell’accenno di piazzola a un crocevia in salita. Quella città
era un alternarsi di salite e discese, un’allegoria urbana della vita,
faticosa, arrancata e poi all’improvviso spedita e agile, proprio quando non
senti più il muscolo e l’ultimo passo è il più difficile.
Lì,
sotto le due finestre più piccole del mondo, c’era una fontana, ignorata dai
passanti, la pietra lucente e levigata dall’acqua. Era sormontata da un’aquila
di pietra scura che spiegava appena le ali, quasi volesse incutere paura più
che spiccare il volo. Puntava minacciosa lo sguardo su chiunque si avvicinasse,
e io credetti che fosse la muta custode della fonte. Ero stato temerario e mi
ero fermato ai suoi piedi, come un pellegrino. Zampillava qualche goccia d’acqua,
che il vento rapiva e schizzava sul mio viso. Erano fredde, ma dolci.
La
finestra più piccola del mondo stava silente, assorta, il vetro opaco, glauco
come il mare d’inverno, quel mare che era da me così lontano. Ma qualcosa mi
lasciava deluso: la piazza e i suoi due piccoli occhi di vetro, uno sopra
l’altro, sembravano ignorati, orfani di spettatori. C’erano solo l’aquila e la
lupa a tenere loro compagnia, l’una nera, come ebano e onice, l’altra bianca,
come nuvola e neve.
Ma
questo non cambiava le cose: le finestre erano sporche e trascurate e la mia
delusione divenne tristezza. Mi chiesi se ci fosse mai stato qualcuno, dietro
la loro cornice grezza, a osservare i passanti avvolti nelle lunghe sciarpe,
quando l’inverno iniziava a preparare il Natale.
Ma chi
avrebbe potuto esserci là, dietro quel fazzoletto di vetro, più piccolo del mio
palmo?
C’ero
solo io, unico turista disadorno, a fissarle. Gli altri non le degnavano di uno
sguardo. Eppure, mi avevano assicurato che erano un’attrazione, un emblema, un
altro, come la lupa. Ma gli stranieri, nei loro cappelli a larghe falde,
addentavano pizze bianche e scattavano i loro flash rumorosi agli scorci, alle
strade di sassi squadrati, alle insegne bizzarre, ma mai, mai nessuno, per
tutto il tempo che rimasi lì appoggiato al muro, guardò le piccole finestre o
abbozzò loro un sorriso.
Ero
amareggiato da quella noncuranza. Avrei voluto dare loro l’attenzione che
meritavano, sbirciare dentro, per scoprire se ancora qualcuno abitava quelle
stanze buie. Ma le finestre erano troppo alte, e le loro imposte, così strette,
di un beige annerito, sembravano essere sul punto di chiudersi in un impeto di
pudore. Restai così, immobile, per qualche minuto ancora, a fissarle e a
sbirciare la cecità dei passanti nei loro riguardi.
Poi
incontrai Driade e fu come aprire il mio libro.
Camminavo
a passi spediti lungo il serpentone di pietre levigate, facendo attenzione a
non scivolare. La discesa rendeva il mio passo più rapido mentre seguivo
l’attorcigliarsi della strada del corso, e intanto le luci dei negozi sul mio
volto danzavano come lucciole in fuga. Gli addobbi che pendevano dai cornicioni
delle case e solcavano le strade erano nastri color cremisi, con bordi dorati e
foglie intrecciate. Io non ne ero ancora cosciente, ma lei mi attendeva lì,
proprio sotto una di quelle corone di foglie.
Era
triste, l’incarnato del suo bel viso era color cannella e sulle guance aveva
diffuso un tenue rossore. I suoi capelli profumavano di resine brune, e la luce
ondeggiava su di loro facendo brillare anche nella penombra quel colore
soffice, ondulato. Mi avvicinai e avvertii un odore fresco, intenso, di muschio
e di terra bagnata.
Passai
oltre, cercando di evitare di guardarla. I suoi occhi spenti si alzarono e io
potei sentire il suo sguardo affondare nella mia schiena.
«Riportali.»
sussurrò.
Mi
voltai di scatto. Scomparsa. Solo l’odore di resina esitava a svanire.
Accade
così - credo - quando capisci che stai sognando: tutto scorre come nella vita
reale, vissuta, ti sembra di agire, parlare, sentire; poi è un soffio, e il
meraviglioso si apre alla coscienza, e sai di essere un dormiente che guarda
nello specchio dei suoi sogni.
Ma
quella volta non mi sveglia. Lei c’era stata, l’avevo vista, e dopo quella
frase sfuggente, era sparita. Rimasi a guardarmi intorno per qualche minuto, ma
quando mi accorsi che iniziavo a essere osservato per la stranezza del mio
comportamento, mi strinsi nel cappotto e tornai a casa.
Non era
casa mia, ma di mia nonna, che aveva sempre vissuto lì, in quelle lande senesi.
Uno dei camini sbuffanti era proprio il suo, e adesso era acceso, il fuoco
crepitava divorando alcuni ciocchi di legno profumato. Lei impastava farina e
mi offriva dei biscotti alle mandorle, velati di zucchero. Biscotti della
festa. Ma lì, in casa sua, festa era sempre.
Mi
sentivo un ospite coperto di ogni riguardo. Mia nonna desiderava che rimanessi
fino alla notte di Natale e magari per tutto l’inverno. Ma non potevo, dovevo
tornare. Il lavoro non c’era, ma lo cercavo, lo aspettavo. Quella telefonata
che attendevo, sarebbe potuta arrivare. Non potevo restare lì troppo a lungo,
come se fosse un eterno Natale.
«Hai
visto le finestrelle?» mi chiese, e posò due barattoli di miele e mostarda sul
tavolo.
«Le ho
viste».
«Erano
aperte o serrate?»
«Serrate»
non esitai a rispondere.
«Capisco»
fece lei, un po’ delusa, e tagliò una grande fetta di pane. Il pecorino sul
tavolo era appoggiato su un lungo tagliere di legno pesante.
«Devi
scegliere un albero» mi disse, affettando ancora del pane.
«Io? Perché?»
«Per
Natale. Un bell’abete, vero, dalla campagna» e tese la mano indicando fuori
dalla finestra con il coltello appuntito. Non volevo scegliere alberi, né
abbatterli o portarmeli dietro. Non ero fatto per queste cose. Come si sceglie
un abete di Natale? Io non ne sapevo nulla. Tentai di tirarmi indietro, così le
dissi che di lì a pochi giorni sarei dovuto andare via.
Lei
sembrò non aver udito. Sorrise:
«Lo
voglio grande, e profumato, un bell’abete rosso.»
Novembre
finì e Dicembre entrò alle porte della città con il suo freddo pungente e
qualche pioggia più greve. Io ero ancora lì, da mia nonna. Calzai degli stivali
alti, indossai dei guanti imbottiti e un cappello di lana, e una sciarpa verde
smeraldo che lei stessa aveva lavorato a maglia per me. Poi presi un mazzo di
chiavi e uscii per cercare un abete rosso, grande, profumato.
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