A cura di Tonino Mangano.
Se scorressimo le pagine di alcune delle opere più famose di Charles Dickens – Grandi Speranze, Oliver Twist, David Copperfield – ci accorgeremmo di come l'autore inglese abbracci, nelle sue narrazioni, un ampio lasso di tempo della vita dei suoi protagonisti, in generale dalla prima giovinezza fino all’età adulta, o concentrandosi in modo peculiare sulla loro infanzia.
L’obiettivo che muove la penna di Dickens nel rappresentare la vita in ogni suo stadio è quello di delineare le problematiche, le aspettative e le reali condizioni in cui i suoi personaggi versano, denunciando le ipocrisie della propria epoca, mostrando le luci e le ombre dell’Età Vittoriana.
Esulando per un momento da questi caratteri, che la critica letteraria riconosce a Dickens e che rappresentano il fil rouge che accomuna le sue opere a quelle di altri autori del tempo (Stevenson, Wilde, Brontë ecc.), si potrebbe focalizzare l’attenzione sul particolare interesse dell’autore inglese per ciò che concerne il mondo dell’infanzia e le sue sfumature.
Queste ultime traspaiono dai suoi giudizi nei confronti dei giovani da lui descritti. Se prendessimo a esempio Oliver Twist, noteremmo le simpatie dell’autore nei confronti di Oliver; caso contrario e accolto con antipatia è Noah Claypole, il garzone dell’impresario funebre Mr. Sowerberry; con occhio diverso vengono guardati i ragazzi alle dipendenze di Fagin. Nel loro caso i giudizi mutano lentamente, in modo quasi impercettibile nel corso della vicenda narrata. In un primo momento potrebbero essere guardati con simpatia, paragonati a dei nuovi compagni di giochi di Oliver (si ricordino il primo aiuto dato a Oliver e la sfida del fazzoletto con Fagin), successivamente resi sfrontati furfanti, per poi diventare vittime innocenti di Bill Sikes e del citato Fagin, e ancora una volta redenti dalla benevolenza e dalla pietà dell’autore e delle autorità inglesi. I ragazzi di Fagin, i ladruncoli dei sobborghi di Londra, così come altri personaggi giovani, disperati e pertanto costretti alla malavita, sono un particolare che ricorre nel genere del romanzo picaresco.
Le radici di questo genere letterario affondano nel periodo del Rinascimento spagnolo (El Renacimiento). La novela picaresca (racconto/romanzo picaresco) si distingue per il realismo contenutistico ed espressivo che contrastava con il carattere idealista della letteratura rinascimentale spagnola, influenzata dalla filosofia neoplatonica.
La prima vera grande opera picaresca è il Lazarillo de Tormes (Lazzarino di Tormes) la cui pubblicazione è attestata intorno al 1554, di autore anonimo. Nelle pagine di questa opera compaiono tutte le caratteristiche che influiranno sulla successiva produzione picaresca, per quanto poi nelle altre letterature nazionali molti di questi caratteri verranno eliminati per coglierne e svilupparne gli elementi essenziali e declinare il genere picaresco alle necessità del contesto culturale di ogni tempo.
La novela picaresca si contraddistingueva per la narrazione autobiografica, infatti il pícaro scriveva in prima persona, ricordando la sua vita dalla nascita fino al momento presente. È evidente anche la presenza di un protagonista antieroico. Il ragazzo, dalle origini familiari poco abbienti, si ritrova, costretto dalla povertà, a commettere atti più o meno corretti per sopravvivere, anche ingannando i molti padroni presso cui presta servizio. Quelli che sono a tutti gli effetti dei tiri mancini vengono definiti picardías, da cui deriva la denominazione del genere. Per concludere il novero delle caratteristiche peculiari dell’originaria novela picaresca, si ricorda la necessità del finale tragico: il protagonista non riesce a integrarsi con successo nella società a causa delle voci sulla sua mancanza di onore o per via della giustizia che fa il suo corso e lo punisce per i crimini compiuti.

La parentesi spagnola fu fondamentale per lo sviluppo della letteratura europea in genere. Molti dei suoi caratteri e l’esempio del Lazarillo de Tormes costituirono un modello per generi narrativi simili alla novela picaresca, ma anche per tutti quelli che non guardavano da vicino al mondo di un’infanzia difficile. Il romanzo picaresco fu avvertito come un trampolino di lancio, una svolta improvvisa della narrativa rinascimentale fino ad allora contraddistinta dalle opere cavalleresche, religiose o filosofiche, lasciando invece spazio a nuovi generi dell’età moderna, come il romanzo d’esplorazione e d’avventura, con vicende dai caratteri seriosi più sfumati (I viaggi di Gulliver di Swift, che però ha un chiaro intento satirico, Robinson Crusoe di Defoe).
I Bildungsroman e i romanzi di denuncia sociale affondano alcune loro radici in questa letteratura cinquecentesca, apportando le necessarie modifiche ai caratteri costituitivi di questo genere. Specialmente nel romanzo di formazione troviamo due splendidi esempi nostrani, anche diametralmente opposti tra loro nel modo di trattare la materia. Edmondo De Amicis, con Cuore, sfrutta un metodo paternalistico nel rimproverare il personaggio più bistrattato, ma forse il più ricordato della sua opera, Franti, un discolo alunno della terza elementare. In lui si ritrovano un certo realismo nel comportamento infantile, l’antieroismo e l’infrazione delle regole con una certa soddisfazione personale. Il mezzo picaresco utilizzato dall’autore non è il fulcro di tutta la vicenda, ma è uno strumento nelle sue mani per formulare quel codice di condotta morale che auspicava fosse appreso dalle future generazioni di italiani. Il «prontuario delle moralità dominanti […] di ciò che l’età postunitaria avrebbe voluto essere» (come Cuore viene definito da Asor Rosa), nel suo intento pedagogico che mira a «fare gli italiani» (secondo la famosa espressione di Carlo D’Azeglio), disarticola le caratteristiche originarie del romanzo picaresco per permettere una denuncia da parte della società scolastica a danno del Franti, con l’intento di delineare una netta demarcazione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, senza riuscire a mediare tra le voci discordanti, che avrebbero offerto un carattere pluralistico alle discussioni riguardanti la storia e l’educazione postunitaria.
Lo scomparso Umberto Eco, nel suo Elogio a Franti, in Diario Minimo, sembra intravedere nel Franti un possibile contraltare, una nuova possibilità di interpretare la realtà, una visione parallela a quella più ortodossa dell’autore di Cuore. Se il riso di Franti viene tacciato di cattiveria, in realtà, secondo Eco, questa risata potrebbe essere una forma diversa di conoscere, giudicare e vivere la realtà in cui ci si trova, un barlume di libertà espressiva e di rinnovamento di tutto ciò che era destinato a cadere e che non funzionava nel sistema ideologico dell’Italia postunitaria. Eco ha, in poche parole, cercato di riabilitare la figura del ragazzino ribelle che, nella sua interpretazione della pars destruens delle convenzioni sociali, si erge a elemento innovatore, a difensore del dinamismo e del cambiamento sebbene questo progredisca con forme “scomode” per la maggior parte della società.


Sebbene non proprio picaresco come i tre titoli precedenti, anche negli anni Cinquanta, J.D. Salinger diede vita a uno dei più fortunati e moderni picari della letteratura contemporanea: Holden Caulfield, Il giovane Holden. Le due caratteristiche salienti che vengono recuperate dalla tradizione picaresca più genuina sono l’autobiografia e la vita solitaria del protagonista, per quanto si possa sindacare sulla solitudine del personaggio, data la presenza dei genitori e di una sorella. Ad ogni modo, anche Il giovane Holden potrebbe annoverarsi tra i titoli della letteratura picaresca, sebbene questa natura sia stemperata dalla mancanza di vere e proprie vicissitudini e avventure che intrappolano Holden in una spirale di problemi. Indubbiamente Salinger presenta accenni di situazioni pericolose in cui il suo personaggio incappa, ma al piacere di presentare un crescendo di peripezie si sostituiranno l’analisi introspettiva del protagonista e la critica alla società che lo circonda nel corso delle sue peregrinazioni newyorkesi.
Un collegamento originale e forse un po’ forzato tra la letteratura di guerra all’italiana (la letteratura del secondo dopoguerra incentrata su storie di resistenza e quelle ambientate durante la ricostruzione) e la letteratura picaresca è quello che trova il suo anello di congiunzione nel primo romanzo di Italo Calvino: Il sentiero dei nidi di ragno, in cui il protagonista Pin, orfano dei genitori e accudito dalla sorella, non diviene un protagonista assoluto della vicenda, ma assurge a vettore dell’autore con cui analizzare le gesta partigiane, dei fascisti e tramite cui avanzare considerazioni generali e più immediate su tematiche relative alla guerra, alla lotta per la libertà e, più specificatamente, all’autodeterminazione dei popoli.
Ricordando le parole di Umberto Eco riferite al personaggio di Franti e per mezzo di uno sguardo rapido sulla letteratura picaresca presa ad esempio, non ci si può esimere dal trarre conclusioni che dovrebbero apparire immediate. La simpatia che in genere viene provata per la tenera età scanzonata è evidente, in quanto foriera di quella natura semplice e diretta, aliena a ogni forte influenza delle convenzioni sociali a cui sono sottoposti gli adulti. È proprio grazie a questa natura libera da ogni condizionamento che questi autori sono riusciti a muovere critiche più o meno aspre, dirette contro costumi atavici e che avrebbero dovuto affrontare da tempo il loro declino, o contro abitudini dall’impatto distruttivo e disumanizzante. Le riflessioni che discendono dalla letteratura picaresca, ci riportano al concetto che potremmo definire “disobbedienza costruttiva”, ipotizzata con altri termini dalla Arendt nel suo saggio Vita Activa; o ricordando l’esempio della disobbedienza di sofoclea memoria, nell’Antigone. Esulando dalla tragicità della rappresentazione teatrale greca o abbandonando il tono accorato delle disquisizioni arendtiane, accostandosi alla letteratura picaresca e alla leggerezza delle vicende presentate, si riescono a cogliere numerose sfumature di critica e spunti di riflessione che afferiscono ai più svariati campi della vita in società.
Spaziando ulteriormente nelle riflessioni legate alla letteratura picaresca, non possiamo che cogliere un implicito appello al rispetto della gioventù, intesa in ogni suo aspetto, come previsto dal testo della Dichiarazione di Ginevra dei diritti del fanciullo del 1924 e successivamente della Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia2 del 1989. Oltre all’imprescindibile diritto all’amore familiare, ai diritti alla vita, alla salute e al divieto di discriminazione in ogni sua forma, in questa sede si darà una particolare rilevanza al diritto all’educazione, deputata a garantire l’accesso all’informazione e alle conoscenze che possano permettere ai più giovani di sviluppare un più raffinato senso critico, che eviti loro di vivere le stesse esperienze del picaro del Lazarillo de Tormes, o di incorrere negli stessi errori e pericoli dei protagonisti dei romanzi più moderni, e non solo.
In questo senso, non si può fare altro che sostenere un cammino costante sul sentiero della conoscenza, incoraggiando a proseguire con le parole di Immanuel Kant: Sapere aude!, abbi il coraggio di sapere. Un messaggio che potrebbe estendersi a tutte le fasce d’età.
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