Se nell'Ottocento Dickens aveva fatto della descrizione delle condizioni disumane imposte agli operai nelle fabbriche la punta di diamante della sua narrativa, le sale d'ufficio sono oggi il più inflazionato dei set letterari. Se a partire dagli anni Trenta fino agli inizi del nuovo secolo il focus era centrato sulla denuncia della classe dirigenziale e delle illegalità commesse dai colletti bianchi[1], adesso non solo si indaga sul rapporto tra settori amministrativi e staff di supporto, ma anche sulle relazioni che intercorrono tra colleghi che svolgono la stessa mansione. Dalla narrativa tout court ai romanzi erotici, non c'è promozione, licenziamento o amplesso che si svolga in assenza di una postazione completa di scrivania, computer e seduta ergonomica.
Naturalmente questi sono solo alcuni degli innumerevoli titoli che riguardano l'argomento. Kundera direbbe che il romanzo è “l’ultimo osservatorio dal quale si possa abbracciare la vita umana nel suo insieme”[2]. Dello stesso avviso sembra essere Alice Furse[3], sostenendo che al centro dei romanzi ambientati in ufficio ci sarebbe qualcosa di più trascendentale: un universo fatto di disagi celati dietro ad abitudini volte a mantenere lo status quo. La deriva alienante dei protagonisti di tali romanzi è evidenziata dall'impossibilità di scindere lo spazio privato da quello pubblico, dove il secondo ha maggiore impatto sul primo per le pressioni alle quali ognuno di noi è sottoposto sul luogo di lavoro. Soprusi perpetuati dalle sfere più alte, mancati riconoscimenti, incertezza della durata dell'incarico ci portano a familiarizzare con i protagonisti e ad identificarci empaticamente con loro. Ovviamente, il lettore è conscio del fatto che alle situazioni-limite della realtà lavorativa non è sempre possibile porre rimedio, tanto da dover ammettere "la propria impotenza di fronte alle forze che circondano noi e le nostre banali esistenze". Queste storie hanno il pregio di espletare al meglio il ruolo della letteratura: farci sentire meno soli, facendo i conti con la personale esperienza ed esorcizzando la paura di vedere il proprio io annientato sotto il peso della quotidianità.
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[1] Erwin Sutherland, I crimini dei colletti bianchi, 1949. Questo sociologo-criminologo, conosciuto soprattutto per aver elaborato la teoria dell'associazione differenziale, una teoria criminologica generale che insisteva sul fatto che il comportamento deviante, come anche quello conforme, fossero frutto di apprendimento delle dinamiche caratterizzanti di un certo contesto sociale. Nello specifico, inventò egli stesso la definizione di "colletti bianchi", spiegando che anche le classi dirigenziali sono soggette all'apprendimento della criminalità ma, a differenza dei ceti bassi, i loro non sono crimini "di strada", ma illeciti che coinvolgono e influenzano grandi sfere della società, compromettendo il benessere e la stabilità.
[2] Milan Kundera, Il sipario, Adelphi, 2005, citato in Gianfranco Rebora, Letture e visioni. Il management attraverso il cinema e la letteratur,http://www.biblio.liuc.it/ liucpap/pdf/178.pdf
[3] Alice Furse, Bad days at the office: the novels that turn work into a private hell, 21 Luglio 2015, The Guardian on-line,http://www.theguardian.com/ books/booksblog/2015/jul/21/ best-office-novels-desk-job- hell-amelie-nothomb-jenny- turner-helen-phillips-lydie- salvayre
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