giovedì 28 marzo 2013

“Anna Karenina”: una storia d'amore? Riflessioni sul libro dal The New Yorker




Un paio di settimane fa, sono stata al cinema con un'amica a vedere “Anna Karenina” e ne sono rimasta piacevolmente colpita. Mi è piaciuta la recitazione dei protagonisti, le ambientazioni, persino le musiche e i meravigliosi costumi. Piena di entusiasmo, volevo scrivere un pezzo su questo film, quando però mi sono imbattuta in internet in un articolo molto interessante pubblicato sul sito di “The New Yorker”, una delle pubblicazioni più interessanti dal punto di vista culturale in lingua inglese. Propongo qui la traduzione di una parte di questo articolo, che offre una lettura interessante della storia e del personaggio di Anna. Buona lettura!

Tratto dall'edizione online di “The New Yorker”

“Anna Karenina”: una storia d'amore?
di Joshua Rothman, pubblicato il 23 novembre 2012



Joe Wright
Qualche settimana fa, era un mercoledì nevoso, mia moglie e io siamo andati a vedere la nuova versione cinematografica di “Anna Karenina”, première newyorkese del film. Prima dell'inizio, il regista Joe Wright, un inglese dai capelli scuri in abito grigio, si è alzato per pronunciare un breve discorso. Ha presentato Keira Knightley, che interpreta Anna, insieme ad Alicia Vikander e Domhnall Gleeson, gli attori che impersonano rispettivamente Kitty e Levin. Wright ha raccontato con grande partecipazione, come un orgoglioso fratello maggiore, di aver lavorato con la Knightley fin dai tempi di “Orgoglio e Pregiudizio”, quando era solo “un'attrice ingenua”. Nel frattempo, ha aggiunto che il suo nuovo film era incentrato sull'amore e su tutti i modi che ha l'amore per renderci umani. Dopodiché, Wright e i suoi attori sono usciti da una porta laterale e il film è cominciato.


La versione di “Anna Karenina” di Joe Wright non è un adattamento diretto del romanzo, ma un'affascinante reinterpretazione espressionista, basata su una sceneggiatura consapevole di Tom Stoppard. Le ambientazioni sono innovative e metafictional, Keira Knightly interpreta Anna con una sensualità drammatica, la scena della corsa a cavallo di Vronsky è vivida e intensa, la storia di Kitty e Levin è dolce, paziente, persino spirituale. Tuttavia, se conoscete e amate il romanzo, troverete che nel film c'è qualcosa che non va. Il problema, credo, è che è troppo romantico. Come nelle promesse di Wright, si tratta di un film sull'amore, ma il romanzo di Tolstoj non è una storia d'amore. Se non altro, “Anna Karenina” è un avvertimento contro il mito e il culto dell'amore.

Quando, dieci anni fa, ho iniziato a leggere “Anna Karenina” per la prima volta – ne sono ossessionato e l'ho riletto sette volte da allora – anche io pensavo che si trattasse di una storia d'amore. Avevo 23 anni e pensavo al matrimonio, per me era ovvio che nel romanzo si parlasse dell'amore, quello buono e quello cattivo, quello saggio e quello avventato. L'ho letto come si legge un libro incentrato sul matrimonio e sull'adulterio. Pensi ai protagonisti e alle loro scelte, “fai il tifo” per un lieto fine. Se succede, ne sei contento, e pensi che se lo siano meritato; se non succede, cerchi di capire che cosa hanno fatto di sbagliato. Ma questa idea “da love story” dell'amore non è propria di “Anna Karenina”. Tolstoj, quando scrisse il romanzo, stava pensando all'amore in modo diverso: un genere di destino, o maledizione, o giudizio; un mezzo attraverso il quale l'universo distribuisce felicità e infelicità, in maniera ingiusta e apparentemente casuale.

Questi pensieri non sono molto romantici, ma sono molto “tolstojani”. Quando iniziò a lavorare ad “Anna Karenina”, Tolstoj semplicemente non aveva abbandonato le tematiche di “Guerra e Pace”. Al contrario, trovò il modo di pensare a molte delle tematiche che lo avevano da sempre interessato - destino, opportunità, la nostra impotenza di fronte alle circostanze e la nostra determinazione a cambiarle – in un contesto diverso. Nel 1873, quando cominciò a scrivere “Anna Karenina”, era occupato a pianificare un romanzo storico su Pietro il Grande. A partire dal 1870, si chiuse nel suo studio a Yasnaya Polyana, a leggere e a prendere appunti, mentre la moglie e l'enorme branco di figli cercavano di mantenere tutt'intorno il più quieto possibile. Ma Pietro il Grande era risultato un argomento troppo epico pure per lui […]. Tolstoj aveva bisogno di un soggetto più maneggiabile, quando fece una scoperta: fra i suoi argomenti si era inserito qualcosa di non pretenzioso e storico, bensì personale, intimo e triste. Nella sua biografia di Tolstoj, Henry Troyat spiega così l'origine del romanzo:

Improvvisamente ebbe un'illuminazione. Si ricordò di un fatto che lo aveva profondamente colpito un anno prima. Un vicino e amico, Bibikov […] viveva con una donna di nome Anna Stepanovna Pirogova, una donna alta, dal viso largo e una natura franca e spontanea, che era diventata la sua amante. Ma negli ultimi periodi l'aveva trascurata a favore della governante tedesca del figlio. Si era persino deciso a sposare la bionda Freulein. Venuta a conoscenza del tradimento, la gelosia di Anna Stepanovna divenne inarrestabile: fuggì via con un mucchio sfatto di vestiti e vagò per la campagna per tre giorni, pazza di dolore. Quindi si gettò sotto un treno merci alla stazione di Yasenki. Prima di morire, inviò a Bibikov un messaggio “Tu sei il mio assassino. Sìì felice, se un assassino può essere felice. Se vuoi, potrai vedere il mio cadavere sui binari di Yasenki.”. Era il 4 gennaio del 1872. Il giorno seguente, Tolstoj si recò alla stazione come spettatore, mentre l'autopsia venne effettuata in presenza di un ispettore di polizia. In piedi in un angolo riparato, aveva osservato ogni dettaglio del corpo della donna disteso sul tavolo, insanguinato e mutilato […]. Che vergogna, pensò, eppure è così casta. […] Cercò di immaginare l'esistenza di quella povera donna che aveva dato tutto per amore, solo per andare incontro a una morte tremenda.

Credo che sia amore, ma quello che davvero interessava Tolstoj non era l'amore in se stesso, ma le sue estreme conseguenze. Quando iniziò a scrivere “Anna Karenina”, introdusse anche altri personaggi e altre storie, fra cui quella di Kitty e Levin, ma senza il “balsamo” della loro vicenda romantica, il fulcro del romanzo è quello che accadde ad Anna Stepanovna. Ciò lo rende diverso da altre storie, nelle quali l'amore è benefico e positivo: se ce l'hai sei felice, se non ce l'hai non lo sei (pensiamo ad esempio a Elizabeth Bennet e Charlotte Lucas in “Orgoglio e pregiudizio”). In “Anna Karenina” l'amore può essere insieme maledizione e benedizione, forza elementare degli affari umani, come la genialità o la rabbia o la forza o la ricchezza. A volte è buono, altre è tremendo, crudele, persino pericoloso. Che Kitty e Levin si innamorino è meraviglioso, ma Anna sarebbe stata molto meglio se non si fosse mai invaghita di Vronsky.

Questa visione dell'amore è accettabile, in teoria, ma in pratica si fa fatica ad accettarla, perché si scontra con la mitologia del sentimento, secondo cui gli amanti che il destino hanno fatto incontrare sono più romantici, più innamorati del resto di noi. Una mitologia che ci spinge a considerare la morte di Anna come un nobile sacrificio. È un modo di pensare seducente, ma folle. Il fatto è che dalla passione fra Anna e Vronsky non è venuto niente di buono, e tutti sarebbero stati meglio se nulla fosse accaduto. La loro relazione è stata una catastrofe per Anna, ovviamente, ma anche per Vronsky, Karenin e il loro figlio Seryozha.
[…]

Se Anna non è l'eroina del romanzo – se non è una martire dell'Amore – che cosa è allora? Decidere cosa pensare della protagonista è una delle sfide centrali di “Anna Karenina”. Alcuni lettori, forse perché si sentono traditi da lei, finiscono per mettere in discussione il suo personaggio, la sua capacità di giudizio e le sue motivazioni. Incapaci di vederla sotto una luce positiva, finiscono per giudicarla in modo negativo. Keira Knightley, durante un'intervista registrata nel corso della prèmiere newyorkese, sembra pensarla così: “[...] molte persone, in molti adattamenti cinematografici (e non li ho visti tutti) hanno considerato Anna come un'eroina, un'innocente, una sorta di creatura santa che viene tradita dal mondo, dal marito, da tutto. Non ho pensato per forza questo l'ultima volta che ho letto il libro. Penso che si possa dire questo di Anna, ma penso anche che lei sia un'anti-eroina”. […] In fin dei conti, forse “anti-eroina” è un termine troppo forte per Anna: Tolstoj, come sostenuto dal critico G. S. Morson, era sensibile all'idea che molte cose cattive non accadono per mala fede, ma per ignoranza. Anna compie atti sbagliati, ma spesso perché sottovaluta le conseguenze negative delle sue scelte. Non ha pianificato di innamorarsi di Vronsky, così per gioco (non è una panterona scatenata) e una delle ragioni per l'infelicità che verrà è che andando a letto con lui, lei ha deluso se stessa. Nel romanzo (così come nel film) Anna si reca a Mosca per fare da paciere tra suo fratello Stiva e la moglie Dolly, che lui ha tradito. Allontanandosi, non vede l'ora di tornare dalla famiglia a San Pietroburgo: “Grazie al cielo” pensa “domani rivedrò Seryozha e Alexei Alexandrovich, e la mia solita vita pia proseguirà come prima.”
[…] Il suo affair con Vronsky è più una tragedia comandata dal destino, che una storia d'amore. E Tolstoj è attento a mostrare che lo stesso vale, anche se in modo opposto, anche per Levin e Kitty, che semplicemente sono stati fortunati, mentre Anna non lo è stata. […] Levin e Kitty non avrebbero potuto finire insieme se non fosse stato per Anna, che ruba Vronsky a Kitty durante un ballo come descritto nelle prime pagine del libro. Quasi una provocazione. Tolstoj mette questo fatto, ossia che l'adulterio di Anna ha gettato le basi per il matrimonio felice dei due, al centro del romanzo dove rimane come un promemoria muto e ironico di quanto i nostri successi possono dipendere dai disastri altrui.

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