“Siena,
1295”.
Ecco
che finalmente la critica riesce a dare un tempo e un luogo a Folgore di San
Gimignano, poeta leggendario come il nome (o il soprannome) con cui è (poco)
conosciuto.
Già,
Folgore: un appellativo forse autoimposto difficile da portare, troppo facile
da accostare al coraggio luminoso che s’accompagna all’eufonia del vocabolo; un
uomo elegante, capace di estendere la propria finissima parola poetica ad ogni
dolcissima attività con cui era sobrio dilettarsi al tempo: la caccia, il ballo,
il convento, le giostre; un dandy medioevale, che amava curarsi e curare gli
altri e le cose, tutto preso dal continuo trasfigurare la vita poesia e la
poesia in vita.
Questo
vagheggiamento quasi mitico della sua figura diventa sicuramente più concreto
se ci si confronta con la sua opera forse più famosa e sicuramente meglio
riuscita: la “Corona dei Mesi”.
Il
poeta immagina, con notevole abilità lirica, di dedicare a ciascun mese
dell’anno un sonetto specifico, in modo tale da reinterpretare il senso dello
scorrere del tempo, diverso tutti gli anni ma anche tutti gli anni uguale: ad
ogni mese saranno quindi associati particolari dettagli, che prescindono il più
delle volte dalla circolarità delle stagioni per arrivare a definire piccole e
delicate situazioni idilliche che ben rappresentano lo stile un po’ pittorico
di Folgore, fondato sulla restituzione di precise immagine allegoriche dai
colori accesi e dai toni dolci, tese ad allettare l’immaginazione mai sopita
del lettore.
La
famosa Corona si compone di quattordici sonetti: dodici dedicati ad ogni mese,
con un sonetto di introduzione e uno di chiusura; di notevole valenza narrativa
è l’apertura del ciclo di sonetti, in cui Folgore brinda all’allegria e alla
felicità di una brigata cortese e nobile (probabilmente composta, secondo
l’immaginario del poeta, dai lettori della Corona) e incorona il signore di
Siena Nicolò de Nisi, committente dell’opera, accompagnato dagli scroscianti
applausi di una brigata composta da Ancaiano, Bartolo, Tingoccio, Mugavero,
Fainotto e Min di Tingo, definiti “tanto fieri da sembrare figli di Priamo” e
“tanto cortesi” come Lancillotto.
Leggendo
il sonetto dedicato a Novembre è opportuno specificare il preciso schema
metrico: quattordici rime in dodecasillabi con rima ABBA-ABBA-BCBCBC.
E
di novembre a Petriuolo, al bagno,
con
trenta muli carchi di moneta:
le
rughe sian tutte coverte a seta;
coppe
d’argento, bottacci di stagno:
e
dar a tutti stazzonier guadagno;
torchi
e doppier che vegnan di Chiareta;
confetti
con cedrata di Gaeta:
bëa
ciascun e conforti ’l compagno.
E
'l freddo sia grande e ’l fuoco spesso;
fagiani,
starne, colombi e mortiti,
lèvori
e cavrioli rosto e lesso:
e
sempre aver acconci gli appetiti;
la
notte ’l vento e piover a ciel messo:
e
siate ne le letta ben forniti.
Un
susseguirsi d’immagini e suoni contraddistingue il ritmo del sonetto: il
tintinnio delle monete tramutate in coppe di lussuosissimo argento e il battito
dei bicchieri colmi di cedrata tesi l’uno contro l’altro come accompagnamento
dei confetti; tutta la scena è inserita in un clima gelido, cui solo un fuoco
ben acceso può opporsi, per un trionfo
del gusto della selvaggina posta elegantemente su una tavola ben apparecchiata,
simbolo di un ricchissimo convitto.
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