venerdì 30 novembre 2012

Cavallasca, 14 novembre 2012: Presentazione del libro “Borgo Propizio” di Loredana Limone


A cura di Glo_In_Stockholm



Cari tutti,

quello che segue è un resoconto della presentazione di “Borgo Propizio”, che la scrittrice Loredana Limone ha tenuto mercoledì 14 novembre presso la biblioteca del comune di Cavallasca, in provincia di Como. Ringrazio  per il prezioso contributo Tatiana, assessore alla cultura e all'ecologia del comune di Cavallasca, e Angelica,che mi hanno raccontato della serata dato che purtroppo, per motivi di lavoro non ho potuto assistere all'incontro.

Il clima della serata è stato molto allegro e cordiale: davanti a un pubblico attento, la presentazione si è aperta con l'introduzione del Sindaco del paese che ha spiegato il perché del tema della serata e anche del   volantino creato apposta per la serata. Infatti il piccolo comune di Cavallasca era costituito in passato da due borghetti limitrofi e si chiamava proprio Lieto Colle, nome di dannunziana memoria in quanto si diceva che il Vate fosse solito villeggiare d'estate presso la Villa del Soldo (situata oggi nel territorio Comunale).

Da Lieto Colle a Borgo Propizio il passo è breve, ed ecco quindi entrare in gioco Loredana Limone e il suo piacevolissimo romanzo.  
La scrittrice inizia così a parlare della sua opera: in origine il libro avrebbe dovuto intitolarsi "Fatti mandare dalla mamma... e poi scoprirete il perché...”, alla fine però, anche per motivazioni legate ai diritti di autore, la scelta cade su un altro nome, inventato, che però sembra di buon auspicio: "BORGO PROPIZIO". Borgo Propizio è un quindi un luogo dell'invenzione, ispirato alla realtà dei piccoli borghi italiani genuini, che Loredana ha avuto occasione di visitare(come ad esempio Gradara).

A questo punto, l'autrice scopre qualcosa di sé, svelando al pubblico con simpatia e brio qualche dettaglio della sua vita. Veniamo così a scoprire che la sua passione per la scrittura incomincia da piccola:  Loredana è nata con la penna in mano e a 9 anni ha composto la sua prima poesia, “Penna”, che i partecipanti hanno avuto modo di ascoltare direttamente da lei. Negli anni successivi, dopo un'adolescenza un po' tormentata, la sua produzione letteraria è costituita soprattutto da poesie un po' malinconiche, di quella malinconia tipica di alcuni ragazzi, forse legata anche allo scarso successo settimanale durante la prima giovinezza, che la faceva soffrire. Verso i 30 anni si innamora (finalmente un amore corrisposto dice lei...) del marito e da Napoli si trasferisce a Milano, dove lavora come impiegata e ha un figlio. Un bambino che non dorme mai, per il quale Loredana comincia a raccontare favole, che avevano come protagonista Francesco (così si chiama il bambino) e un trenino. Queste favole proseguono e si fanno sempre più ricche e dettagliate, a questo punto Loredana decide di trascriverle e di partecipare a un concorso, che ovviamente non ha vinto! La storia è adattissima ai bimbi, infatti in seguito il libro si è guadagnato la pubblicazione.

Per scoprire qualcosa di più, vi invito a cliccare sul link sottostante:


Ma come nasce “Borgo Propizio”?
il libro vede la luce poco alla volta, durante un periodo difficile della vita della scrittrice, caratterizzato da diversi lutti (per la morte della mamma e della zia) e dai problemi legati alla perdita del lavoro del marito. Loredana sente il bisogno di rifugiarsi in un luogo sereno e questo luogo sereno e di pace è proprio Borgo Propizio! Dedicarsi al romanzo anche solo mezz'ora al giorno le serve come una terapia. Ci sono voluti infatti 4 anni per scriverlo e 2 anni per trovare la casa editrice che lo pubblica, ma ne è valsa la pena perché oggi possiamo leggere un libro davvero godibile!

La serata prosegue così in tutta piacevolezza, con Loredana Limone che parla con entusiasmo di Borgo Propizio e le persone presenti in sala attente e allietate dai contenuti e dal modo di gestire la conversazione dell'autrice.

Purtroppo, come ho precedentemente scritto, non ho potuto assistere personalmente alla presentazione, tuttavia, tramite Tatiana e Angelica, sono riuscita a fare a Loredana 5 domande, a cui ha gentilmente risposto (e di questo la ringrazio), e che pubblichiamo insieme alla recensione che potete leggere QUI. Mi auguro possano contribuire a convincere, chi ancora non l'ha fatto, a leggere “Borgo Propizio”.

Recensione e intervista: Borgo Propizio di Loredana Limone

Borgo Propizio - Loredana Limone
Tutto ruota attorno a una latteria, che la giovane Belinda vuole aprire nel centro di un delizioso paesino medievale. Certo, il paesino più che delizioso sembra sonnolento, a causa di una giunta comunale poco attiva; certo, nel negozio che Belinda sta ristrutturando si dice aleggi la presenza di un fantasma, ma la ragazza vuol cambiar vita a tutti i costi, per superare il divorzio dei suoi, per riprendersi da una delusione amorosa, per scappare da una società a cui non sente di appartenere. Intorno a lei, una folla di personaggi divertenti e scombinati, bizzarri e veri, sinceri e misteriosi… come la vita vera.

Edizioni Guanda
Pagine: 280
Prezzo di copertina: 16,50€


Recensione a cura di Glo_In_Stockholm

Voto: 


“Borgo Propizio”... il titolo promette bene e devo dire che... le sue promesse le mantiene tutte! Grazie a una collega, attiva nell'assessorato alla cultura del suo comune di residenza dove si è tenuta  una presentazione del romanzo da parte di Loredana Limone, ho potuto intraprendere il viaggio suggerito dall'autrice, un viaggio la cui destinazione è proprio un “paesino di una volta”, uno di quelli dove tutti conoscono tutti e dove la vita trascorre lenta, monotona ma rassicurante.
Premetto subito che, come Loredana (gentilissima e disponibile, ha accettato di rispondere ad alcune domande che avevo preparato e che le ho fatto pervenire in vista della presentazione a cui non ho potuto partecipare), anche io sono un'amante dei piccoli borghi e apprezzo le storie lì ambientate, rappresentano per me un'evasione dalla realtà frenetica e a volte spersonalizzante della città, un ritorno a una dimensione più a misura d'uomo e i personaggi descritti sono spesso spassosissimi! Con queste premesse, ero sicura che avrei apprezzato “Borgo Propizio”, anzi le mie aspettative sono state ampiamente soddisfatte.
Quali sono le carte che rendono questo libro speciale? Sicuramente, un ruolo di primo piano lo gioca l'efficace caratterizzazione dei protagonisti: ricordo bene come sono rimasta subito catturata dall'incipit, con l'irresistibile presentazione delle sorelle Mariolina e Marietta, figlie di donna virtuosa e sfortunata, vergini ben oltre i 40 anni, simili ma diverse, così deliziosamente démodé. Da queste due zitelle (uhh che termine vituperato al giorno d'oggi) prende vita una vicenda divertente, a tratti forse un po' paradossale, ma coinvolgente e genuina. Conosciamo allora Ruggero, lo spasimante un po' per caso di Mariolina, un po' fanfarone ma di buon cuore, con i suoi terribili genitori; le pettegole del paese, ficcanaso incorreggibili a cui non sembra vero di poter spiare la nuova vita di Mariolina; Belinda, l'intraprendente ragazza di città, un po' fissata con il latte, venuta a Borgo Propizio per realizzare il sogno di aprire una latteria (ovviamente!); Claudia e Cesare, i genitori separati di Belinda, che farà di tutto per ricostruire la loro unione insieme alla vulcanica zia  Letizia. La penna di Loredana Limone tratteggia così bene questi personaggi che si arriva all'ultima pagina del romanzo con la sensazione di conoscerli e, alla fine, si finisce col volergli bene.
Pregevole è anche il fatto che ognuno è accompagnato da qualche elemento biografico, che lo rende più interessante, “colorandone” ulteriormente la personalità.
Loredana Limone infatti non inserisce nessun personaggio straordinario e le dinamiche relazionali esistenti sono tipiche e questo è a parer mio un punto di forza del romanzo, che lo avvicina al lettore, che ha modo così di immedesimarsi anche prendendo spunto dalla propria esperienza. Pensiamo per esempio al rapporto molto intenso che esiste fra le due sorelle: intenso sì, ma caratterizzato anche da una certa ambiguità che alterna momenti di totale dedizione ad altri di rivalità, come effettivamente può accadere nella realtà.
Un altro elemento vincente è dato dai dialoghi, costruiti in modo da lasciare trasparire l'elemento provinciale dei vari protagonisti, non soltanto  dal punto di vista meramente grammaticale (pensiamo solo all'”ostilità”di Ruggero nei confronti del congiuntivo), ma anche da quello più legato ai contenuti. I personaggi del libro rappresentano infatti le persone comuni che di norma abitano nei piccoli paesi e come tali si comportano e parlano come loro: i discorsi sono semplici, pervasi da alcuni luoghi comuni (si pensi alla povera Marietta sconsolata di fronte al fenomeno della globalizzazione) e senza velleità o pretese.
Non posso poi non menzionare il messaggio positivo che emerge dal romanzo, che può essere riassunto (e non vorrei essere banale, lo premetto), come “c'è una seconda possibilità per tutti”: per i genitori di Belinda, per Mariolina e Ruggero, anche per Marietta... Borgo Proprizio è davvero un luogo lieto, perché non nega a nessuno dei suoi abitanti una cosa fondamentale: la seconda chance.
Molto ben riuscita è anche la conclusione con un escamotage interessante, che però non voglio svelare per non rovinare la sorpresa.

Bene, a questo punto, non mi resta che invitare chi ancora non l'ha fatto, ma perché no anche chi lo ha già letto, di prendersi un momento e di staccare un biglietto in direzione “Borgo Propizio”. Non se ne pentirà... garantito!



Pubblico quindi le risposte alle 5 domande che avevo pensato per la presentazione di Borgo Propizio, avvenuta mercoledì 14 novembre presso la sala consigliare del comune di Cavallasca e che potete leggere QUI.

Interview with...

Loredana Limone


Buongiorno Loredana, innanzitutto volevo farle i miei complimenti per “Borgo Propizio”, un romanzo che ho trovato delizioso. A questo proposito, cogliendo l'occasione della presentazione del suo libro presso la biblioteca di Cavallasca, vorrei porle qualche domanda.
Grazie. Ma, come dice il poeta (o chi per esso), la delizia è nelle papille di chi gusta.

· Il suo romanzo è incentrato sulla vita in piccolo paese di provincia di diversi personaggi, pittoreschi e molto rappresentativi della “fauna” che effettivamente abita i piccoli borghi. A cosa si è ispirata per ambientare il romanzo in un paesino? E perché lo ha chiamato proprio “Borgo Propizio”?
Adoro i borghi, ne ho visitati tanti dal nord al sud Italia, fino a Erice, in Sicilia. Eppure non ci ho mai vissuto. Poiché ho scritto questo romanzo per evadere da un periodo molto problematico, volevo rifugiarmi in un posto che esulasse dalla mia città natale e dalla provincia dove abito. Borgo Propizio è un luogo che avevo dentro, evidentemente, cui fare ritorno; un luogo che finora non ho trovato su questa terra.
Propizio, perché mi portasse bene. E così è stato.


· Come le ho detto in precedenza, i personaggi sono molto caratteristici e simpatici, in particolar modo le due sorelle virtuose e illibate, Mariolina e Marietta, e Ruggero, l'”impreditore edile” spasimante di Mariolina. Come le è nata l'idea di tratteggiare la personalità delle due sorelle e di Ruggero in quel modo?
Il romanzo si apre proprio con l’affetto sororale tra Mariolina e Marietta che in qualche modo siamo mia sorella e io (lei è Marietta!), pur non essendo rimaste zitelle illibate fino a tarda età, anzi ci siamo sposate all’età canonica. C’è tra noi un rapporto fortissimo che… guai se non l’avessi!
Ruggero è venuto da solo, a riprova del fatto che lo scrittore, come solitamente dico parafrasando Madre Teresa di Calcutta, non è altro che una matita nelle mani della narrazione.


· Nel suo romanzo è presente anche un accenno al “mistero” di un fantasma che infesta il luogo dove deve aprire la nuova latteria di Belinda, che si spera porti nuovo lustro a Borgo Propizio. Crede che sia importante per ogni piccolo paese mantenere vivo il suo patrimonio di leggende oppure a causa del progresso e della modernità, questo sia destinato irrimediabilmente ad andare a perso?
Il sociologo polacco Baumann ha definito, la nostra, una società liquida: è un’immagine che ci descrive perfettamente.
Quello che fu, temo, andrà perso prima o poi, perché cambia la sensibilità e le cose si evolvono sempre più velocemente, troppo velocemente, anche a causa (merito o colpa?) della tecnologia. Chi avrebbe mai pensato di non vedere più le cabine telefoniche? Chi riesce a immaginare la vita di cascina in un rimodernato agriturismo? La globalizzazione, poi, fa il resto e il presente già supera confini che non esistono più.

· G.M. Gran Musicante, Gianni Morandi. Trovo originale il riferimento a uno dei cantanti italiani più amati degli anni 60/70 (ma forse ancora adesso) come papabile (ma ahimé mancato) pretendente della mamma di Belinda, Claudia, e come ospite d'onore (ancora una volta mancato) dell'inaugurazione della latteria di Belinda. Come scrive nei ringraziamenti del libro, lei è una fan di Gianni Morandi, ma perché ha deciso di farne una sorta di personaggio in “Borgo Propizio”?
Sono cresciuta con le canzoni di Morandi in sottofondo che suonavano dal vecchio giradischi di mia madre: inevitabile amarle, amarne l’interprete. Oggi la mia ammirazione non è più per il cantante, ma per la persona, che mi sembra simbolo di serietà, onestà, probità. Uno di cui ci vorrebbero parecchi cloni in Italia.

· Leggendo “Borgo Propizio”, mi sono venute in mente le atmosfere dei romanzi di Andrea Vitali, autore della provincia di Como. Anche Andrea Vitali racconta vicende semplici ma accattivanti e descrive personaggi molto pittoreschi e caratteristici, anche se ambientati negli anni 30 e non ai giorni nostri come nel suo libro. Conosce Andrea Vitali? Pensa che descrivere la vita della provincia italiana oggi sia una scelta “vincente” per catturare l'attenzione dei lettori in un paese come il nostro, che secondo varie statistiche, non dedica molto tempo alla lettura?
Non so se veramente la gente non legga tanto in Italia, forse meno che all’estero, ma i dati di vendita di Borgo Propizio sono soddisfacenti. Non conosco Andrea Vitali di persona, però ho letto all’incirca tutti i suoi libri perché sempre – che io sia nervosa, triste, depressa, che abbia litigato con mio figlio o polemizzato con mio marito – mi riconciliano con la vita. Una biblioterapia a tutti gli effetti!
Ma non si può paragonare Vitali a me, una spiaggia sconfinata versus un pugnetto di sabbia.
In merito all’ultima domanda, no, non credo che scrivere della provincia sia una scelta vincente, perché non credo proprio che sia una scelta. Lo scrittore scrive quello che è, quello che ha dentro. Perciò i libri di Vitali sono vivi, i suoi personaggi palpitano (spero anche Borgo Propizio), laddove molti romanzi sanno di polistirolo.


Potrebbe dedicare un saluto speciale ai lettori del blog “Dusty pages in wonderland”? Queste domande sono state pensate da una collaboratrice, Glo in Stockholm, che purtroppo non è potuta essere presente per motivi di lavoro.
Più che un saluto, vorrei lasciarvi con un appuntamento: al borgo, per respirare un’aria speciale, che spero vi faccia stare bene come fa stare bene me.
Un abbraccio propizio a tutti!


L'autrice
Loredana Limone ha composto la prima poesia a nove anni, ma è passata molta acqua sotto i ponti prima che i suoi scritti uscissero dal cassetto. Ha al suo attivo alcuni libri gastronomici e per bambini. Se non abitasse sulla sponda del Naviglio Martesana, dove si è trasferita per amore, Borgo Propizio è il luogo dove le piacerebbe vivere. Perché? Lo scoprirete leggendo questa favola moderna, intelligente e piena di humour, ambientata in questo curioso Borgo (Guanda, 2012). "E se le stelle" è il secondo romanzo sulle avventure del Borgo e ai suoi straordinari personaggi. Il 17 novembre 2012, a Villa Grumello (Como), Loredana riceve la targa straordinaria per la categoria "esordienti" della Prima edizione del Premio di Narrativa "Federico Fellini" per il romanzo "Borgo Propizio".


giovedì 29 novembre 2012

MilanoBookCity: incontro sulla selezione editoriale


Buongiorno a tutti, cari lettori! 
Oggi vi offro un post un po’ speciale, sperando che vi possa piacere.
Come alcuni di voi (chi mi segue su Google+ o su Twitter) sanno, il 16 di questo mese sono riuscita a seguire un paio di conferenze di Bookcity Milano, un nuovo evento legato al mondo della letteratura. Ammetto che parte di me temeva di potersi trovare di fronte a una “Milano book fair – Parte seconda”; fortuna che sin dalle premesse la situazione sembrava migliore. Insomma, per Bookcity si è scomodato tutto il Castello Sforzesco, centinaia di punti sparsi per Milano, autori, professori e conferenzieri noti anche a chi non mastica l’ambiente propriamente culturale, un elenco di attività e incontri da far invidia… 
Sono felice di dirvi che le mie aspettative sono state pienamente soddisfatte e che partecipare a questo evento mi è piaciuto moltissimo. L’anno prossimo mi organizzerò meglio (e con un po’ d’anticipo) e cercherò di seguire quante più attività possibile – non dubito che la puntata 1 di questo evento (questa è stata prudentemente chiamata “puntata 0”) sarà anche meglio di quella di quest’anno.

Ma torniamo al presente e, in particolare, alle due conferenze che ho seguito. Visto che hanno trattato di argomenti particolarmente interessanti, ovvero cosa spinge un editore a scegliere un libro da pubblicare e la bibliodiversità, ho pensato di prendere qualche appunto e di parlarvene qui. Visto che sono state conferenze molto dense, ho deciso di fare due post, così potrò dedicare ad ognuna delle due conferenze lo spazio che merita. Spero che la mia idea vi piaccia e che questi post portino a tante discussioni interessanti.

[NdC: ho evidenziato i nomi delle relatrici con colori diversi, per rendere più agevole e chiara la lettura. Le domande sono evidenziate d’azzurro.]



bookcity1La prima conferenza che ho seguito è stata quella sulla selezione editoriale. Le relatrici sono state molto chiare e appassionate nelle loro spiegazioni, sfoggiando anche una buona dose di ironia. Si poteva percepire chiaramente il loro desiderio di far conoscere delle realtà complicate, ma anche piene di soddisfazioni, come quelle dell’editoria indipendente.

Per rompere il ghiaccio, Alessandro Beretta ha chiesto a questo fantastico quartetto di donne di presentarsi e di introdurre la loro casa editrice. Comincia Emilia Lodigiani, fondatrice di Iperborea (che quest’anno compie 25 anni! Auguri!). La signora Lodigiani ci tiene a sottolineare il mantenimento della fede al progetto iniziale, ovvero la volontà di promuovere la letteratura del Nord Europa in Italia: questa specializzazione, chiaramente, la porta ad affrontare la selezione in modo diverso rispetto alle sue colleghe, poiché lavora principalmente su libri già pubblicati e quindi già passati attraverso una certa scrematura. Ovviamente, però, lei compie un’ulteriore raffinatura, scegliendo i libri che reputa adatti per il mercato italiano e che sono di suo gusto – com’è giusto che sia, aggiungo io. 
In generale, accettano 1/6 dei libri proposti dalle case editrici nordiche e spesso cercano di pubblicare ciò che viene proposto direttamente dai traduttori, che non di rado propongono per la pubblicazione libri che, per passione, hanno già tradotto, senza sapere se ci fosse la possibilità di un effettivo riscontro positivo. 
Pubblicano circa 18 libri l’anno e al momento lo staff di Iperborea consta di 8 persone.

Continua Claudia Tarolo, voce femminile del duo di Marcos y Marcos. Subito si presenta come una donna dalla battuta facile: comincia dicendo che, quando le arriva un libro di un autore nordico, il primo pensiero che le viene in mente è “se arriva dal Nord e non è stato pubblicato da Iperborea, ci facciamo due domande!”. Una bella dimostrazione di stima, senza dubbio. Tornando più seria, la signora Tarolo ha specificato che la sua casa editrice utilizza vari canali attraverso cui riceve proposte (editori stranieri, traduttori, scout letterari, la proposta di manoscritti da parte degli stessi autori – pensate, gli arrivano da 10 a 20 buste al giorno da parte di aspiranti scrittori!), ma che ama anche andarsi a cercare personalmente libri interessanti, cercandoli nelle librerie all’estero, nei cataloghi di editori di tutto il mondo, girovagando per la rete… 
La Marcos y Marcos, poi, si distingue per aver scelto di ridurre la produzione editoriale, limitandosi alla pubblicazione di 13 novità l’anno, scegliendo solo libri in cui si crede fino in fondo e su cui si punta tutto, dedicandogli la massima attenzione. Lo staff consta di 9 persone.

Si presenta poi Daniela di Sora, fondatrice di Voland, che esordisce definendo la propria linea editoriale come un incrocio tra le due appena presentate: inizialmente si occupava solo di letteratura slava, ma ha dovuto rinunciare per la mancanza di introiti. Decide allora di aprire a tutti gli altri paesi, cercando però di mantenere il focus su autori di zone poco conosciute dai lettori italiani, come la Catalogna e il Belgio; evita, dunque, le letteratura già ampiamente esplorate, come quella anglofona. In generale evitano anche di pubblicare italiani, salvo eccezioni: agli aspiranti autori che le inviano i loro manoscritti risponde spesso di controllare meglio il catalogo della casa editrice cui si invia il libro, per non spedirlo a realtà (come quella di Voland) evidentemente non propense alla pubblicazione dei loro libri. 
In casa editrice sono in cinque e pubblicano, negli “anni grassi”, un massimo di 22-23 libri l’anno – mai di più.

20121116_135748A questo punto si aggiunge Ginevra Bompiani, direttrice di Nottetempo, arrivata dopo a causa del ritardo di un treno (o così mi pare di aver capito). Per quanto riguarda la sua casa editrice, la signora Bompiani afferma di non aver mai avuto un ambito specifico: si dà uno sguardo particolare a due antipodi, ovvero all’Italia e a paesi “dall’altra parte del mondo”, a libri pubblicati in lingue sconosciute, quasi a “indovinare” dai samples (poche pagine tradotte – spesso in un inglese approssimativo, pare – ad uso e consumo degli editori stranieri) come sarà il libro intero. 
Ora accettano anche l’invio di opere in formato .pdf, per evitare di essere sommersi dalla carta – anche se in un certo senso preferiva l’invio dei cartacei, perché poneva un “freno”: è più dispendioso e difficile inviare molti manoscritti a molte case editrici, mentre fare un invio multiplo a 200 e-mail è facile. La Bompiani ha messo ben in chiaro che, se subodorano questa cosa, difficilmente prenderà in considerazione il libro proposto: vuole un rapporto diretto, di scelta decisa e di fiducia.

A questo punto, il moderatore Beretta lancia un input: il verbo tematico, in tutti questi discorsi, sembra essere “credere”, ovvero avere fiducia nei libri che si decide di pubblicare.

Subito la signora Bompiani identifica il verbo “credere” con il verbo “piacere”, identificando il gradimento personale come primo criterio assoluto (quindi, “si pubblica ciò che all’editore piace”). Si crea un rapporto a tu per tu con ogni manoscritto, almeno nelle realtà indipendenti: si pone infatti l’accento sulla sostanziale differenza tra il pensiero da editore indipendente (definito “desperate housewife dell’editoria”) e quello manageriale, che si appoggia a parametri più oggettivi per la scelta dei testi da pubblicare (vendite all’estero, dati dell’autore…). 
Non che gli indipendenti non tengano conto di questi dati: semplicemente, per usare le parole della direttrice di Nottetempo, “se ne dimentica” per un po’, perché sceglie prima di tutto ciò che incanta e cattura, guardando meno alla commerciabilità.

La signora di Sora mostra nuovamente di sapersi porre nel giusto mezzo, affermando di conciliare i due macro-criteri identificati dalla Bompiani. Molto schiettamente, ammette di rinunciare alle pubblicazione di libri che le piacciono, ma di cui intuisce l’incapacità di arrivare al mercato; le uniche eccezioni che fa sono quelle legate ad autori su cui punta a prescindere, poiché la sua non è una politica editoriale legata al titolo, ma legata a tutta la produzione di un autore – di cui, quindi, si pubblicano anche libri più “deboli”, ma necessari per comprendere appieno il suo sviluppo. 
Sottolinea, però, di non aver mai pubblicato un libro solo perché vendibile – ricollegandosi, dunque, all’importanza del gradimento personale.

Torna poi a parlare la signora Tarolo, che sottolinea un concetto per me molto importante, ovvero la necessità che un libro esca con la giusta casa editrice: Marcos y Marcos, ad esempio, ha ripubblicato libri già editi e andati male non per la loro qualità, ma per vari criteri esterni, come la tempistica o altri problemi che sorgono in seno alle grandi case editrici, che sono “forti, ma meno flessibili”. Un esempio di questa politica è stato il ritorno in libreria di John Kennedy Toole, pubblicato anni orsono dalla Rizzoli e andato miseramente: ora, ripubblicato, è il maggior successo della sua casa editrice. 
Anche lei, comunque, sottolinea l’importanza di amare i libri che si portano in libreria, perché “non sarebbe in grado di sostenere” un libro che non ama.

La signora Lodigiani, infine, pone l’accento su un problema ben preciso, ovvero sul tempo di durata di un libro sugli scaffali delle librerie. A dire il vero non ci si sofferma troppo, ma declina questo ragionamento secondo quello che tenta di fare lei con la sua casa editrice: si cerca di tenerli sugli scaffali a lungo (non per un mese, come capita con certe altre case editrici, aggiungo io), perché così hanno il tempo di “scoprire il loro lettore”, creando nel frattempo uno “zoccolo duro” di appassionati, pieni di fiducia verso il marchio editoriale. 
Per quanto riguarda i criteri di scelta che la spingono a preferire un libro a un altro, la direttrice di Iperborea delinea tre criteri fondamentali, ovvero un buon livello letterario, una storia appassionante (per cosa dice e per come lo dice) e l’interrogazione continua sul nostro posto nella società. Si sente la passione che questa donna prova per la letteratura nordica, posso assicurarvelo!

book_city_milanoA questo punto il tempo sta per finire e, volendo concedere qualche momento anche al pubblico, il moderatore pone un’ultima domanda, ovvero come viene gestito il rapporto con gli esordienti e come si scelgono i classici da riproporre.

Comincia a parlare Claudia Tarolo, che subito ammette di avere un rapporto ambivalente, perché sono oppressi dagli arrivi delle proposte degli esordienti. Dice che “è difficile trovare chi non scrive” e porta subito esempi di momenti imbarazzanti (e, per noi che ascoltavamo, estremamente divertenti) come, per dirne uno, il professore di greco della figlia che, saputo il lavoro della madre, le chiede di leggere il suo manoscritto (ditemi voi, poi, come avrebbe potuto comunicare un rifiuto – e chissà che voti avrebbe assegnato il docente, da quel momento in poi…!) . E’ arrivata a nascondere, in certi casi, la propria professione, sempre per il timore di sentirsi proporre un manoscritto. 
In generale, comunque, ammette di preferire la scelta e la scoperta di inediti, piuttosto che la traduzione di libri già pubblicati in altri paesi, perché sapere che “in mezzo al mucchio c’è qualcosa di bellissimo” le dà grandi soddisfazioni.

Ginevra Bompiani concorda con la Tarolo e porta come esempio un ricordo personale, ovvero il suo primo incontro con Milena Agus, prima attraverso la lettera di presentazione e poi con la lettura del libro. Afferma anche che la selezione di un manoscritto non implica, in realtà, che ci sia un soggetto che sceglie un oggetto, ma assomiglia piuttosto all’incontro tra due soggetti imperfetti.

A spezzare una lancia per le traduzioni ci pensa Daniela di Sora, che parla di quanto sia altrettanto straordinario trovare autori di paesi generalmente poco frequentati dai lettori, come ad esempio la Bulgaria; la direttrice di Voland dice di sentirsi come un “ponte” tra il nostro paese e “realtà esistenti ma sconosciute”. 
Riprendendo poi il discorso dei libri ripubblicati, ci tiene a sottolineare che le tirature che servono a una grande casa editrice per decretare il successo di un libro sono enormi, rispetto a quelle necessarie a case editrici di medie dimensioni.

Per Emilia Lodigiani (che, lo ricordo, è la fondatrice di Iperborea), la faccenda è ovviamente diversa. Comunque, dice di leggere le prime tre pagine di tutto quello che arriva in casa editrice, anche se palesemente inadatto alla sua linea editoriale. In certi casi ha anche inviato delle lettere di incoraggiamento, spingendo gli autori a proporsi a realtà più adatte alle loro esigenze. 
Per quanto riguarda i classici stranieri, invece, spiega che la loro pubblicazione solitamente avviene in concomitanza di occasioni particolari, come centenari di nascita e morte, o l’uscita di un film, così che gli eventi facciano “da traino”.

Il-Castello-visto-da-via-Dante-foto-Paolo-AntoniniFinite le risposte, comincia uno dei miei momenti preferiti: le domande del pubblico. Purtroppo non sono riuscita a porre la mia domanda, ma ci sono stati comunque degli spunti interessanti. 
La prima domanda era una richiesta di delucidazione sui meccanismi di distribuzione. Ha risposto Emilia Lodigiani, spiegando che ogni casa editrice di medio livello si appoggia a un distributore nazionale. Ginevra Bompiani ha sottolineato che le grandi case editrici pubblicizzano solo i libri che hanno tirature dalle 10.000 copie in su, i restanti vengono lanciati sul mercato ma senza essere particolarmente seguiti. Si tira in ballo anche la Legge Levi: la fondatrice di Nottetempo ammette che si tratta di una “lotta disperata” per ottenere un po’ di visibilità contro gli sconti delle grandi realtà editoriali. 
Claudia Tarolo prende la parola per un momento, lanciando una frecciata agli editori a pagamento, dicendo che “pubblicare e stampare sono due cose ben diverse”.

Un uomo chiede se davvero vengono letti tutti i manoscritti che ricevono e domanda spiegazioni sull’effettivo rapporto tra editor e autore. 
Riprende subito a parlare la Tarolo, che ammette che né lei, né il resto del suo staff, ha il tempo materiale per leggere tutto (anche se vorrebbero poterlo fare). In generale, comunque, sono davvero sufficienti le prime tre pagine per decidere se vale la pena continuare o meno. Per quanto riguarda l’editing, lo definisce un lavoro condiviso in cui “l’editor incontra e stimola l’autore”. 
La Bompiani, invece, dice di leggere tutto quello che arriva, appoggiandosi anche a una lettrice professionale. 
La revisione del testo, invece, secondo lei dev’essere affrontata principalmente dall’autore.

Un ragazzo pone due domande ben precise: come è possibile creare un rapporto di fidelizzazione tra lettore e casa editrice e come si possono incontrare dal vivo degli editori. 
Risponde prima Emilia Lodigiani, dicendo che la fidelizzazione è un risultato che si raggiunge attraverso il passaparola e l’esperienza personale, “assaggiando” vari titoli; Daniela di Sora aggiunge che spesso gioca un ruolo importante anche il consiglio di un libraio di fiducia – quando quest’ultimo è preparato, s’intende. Risponde anche alla seconda domanda, dicendo che spesso gli editori di piccole-medie dimensioni sono presenti agli stand delle fiere editoriali (dove chiacchierano più che volentieri), mentre in generale si possono incontrare durante eventi come, appunto, Milano Bookcity.

E con queste risposte si è chiuso il primo dei due incontri che ho seguito. 
Che ne pensate? Ci sono dei punti con cui siete in disaccordo, siete rimasti sorpresi da certe risposte? Apprezzate le case editrici che hanno preso parte alle discussione?


mercoledì 28 novembre 2012

W...w...w... Wednesday! (44)

www...wednesdays è stato creato da MizB di ShouldBeReading



What are you currently reading? (Cosa stai leggendo?)
What did you recently finish reading? (Quale libro hai finito di recente?)
What do you think you’ll read next? (Quale libro pensi sarà la tua prossima lettura?)





Buonasera lettori, è con la febbre addosso che rinnovo questa puntata di W...w...w...Wednesdays!, con cui vi aggiorno sull'andamento delle mie letture.
E' un andamento piuttosto confuso, nel senso che sgraffigno tutto ciò che mi capita e comincio a leggerlo. Purtroppo anche questa politica è dirottata a fini utilitaristici, perché i 5 libri che sto leggendo senza pudore sono tutti gravati dall'oneroso senso del dovere. Sto leggendo I vicerè di De Roberto perché devo farlo per l'università. Sto leggendo I miserabili (l'unica lettura che per lo meno ho scelto da sola di impormi) per il gruppo di lettura, di cui potete trovare informazioni QUI. Sto leggendo Muses di Francesco Falconi perché devo finirlo, me lo trascino già da più di un mese (non che sia una brutta lettura, ma sono ormai vecchia per queste cose). Sto leggendo La rosa bianca di Stefania Auci perché uscirà il primo dicembre in edicola e lì avrà vita solo per un mese. Sto leggendo Caduto fuori dal tempo, l'ultimo libro di Grossman, perché devo scrivere il prossimo articolo per Speechless.
Continuando così temo che non riuscirò a terminarne presto nemmeno uno. L'ultimo libro finito risale infatti al 23 ottobre, cioè un mese fa, e non è stata nemmeno una lettura entusiasmante. Si trattava infatti di Sdisonorata società, di Gianpiero Caldarella, che ho trovato un po' banale e non graffiante -tranne rare eccezioni- come avrebbe voluto. Forse sono troppo abituata alla satira di Crozza.
Per quanto riguarda il prossimo libro, invece, non so davvero cosa leggerò. Quelli nel mio e-reader sono ormai a quota 81, e sono tutti libri che voglio leggere (non lo riempio di roba che mi interessa poco). Quelli cartacei invece avranno ormai raggiunto la cinquantina. La pila sulla mia scrivania tende pericolosamente verso il basso, sormontata da un pupazzetto azzurro a forma di lupo dell'Ikea. Voglio assolutamente leggere La stella nera di New York - assieme ad altri mille mila libri, ma forse parto proprio da questo. 
Voi cosa leggete? :D


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L’addio alla letteratura di Philip Roth



L’autore più premiato al mondo dice addio alla letteratura. Philip Roth, classe 1933, venticinque romanzi alle spalle, ha deciso di fare come gli oratores romani e ritirarsi a vita privata. La notizia è di un mese fa, pubblicata dal giornale francese “Les Inrocks”, ma sta facendo il giro del mondo solo in queste ultime settimane. Un addio dichiarato, tranquillo, di un uomo stanco di quasi ottant’anni, che ha avuto tanto dalla vita e che tanto ha donato ai suoi lettori. Scrittore che con i suoi romanzi ha ispirato il cinema, Roth è stato più volte candidato al Nobel per la letteratura, senza però essere insignito del prestigioso riconoscimento. Non sono invece mancati i riconoscimenti della critica alla sua narrativa autobiografica e fortemente improntata dalla psicologia e dalla socio-etnografia, nella quale sono presenti accurati ritratti familiari e spesso il protagonista è un alter-ego dell’autore e, in alcuni casi, suo omonimo. Famosissimo il ciclo di sei romanzi che ha per protagonista Nathan Zuckerman (“Lo scrittore fantasma”, “Zuckerman scatenato”, “La lezione di anatomia”, “L'orgia di Praga”, “La controvita” e “Il fantasma esce di scena”), che ritroviamo invece come narratore in altri tre romanzi, compreso “Pastorale americana”, che è valso a Roth il Premio Pulitzer nel 1997.
A chi guarda con rammarico alla decisione di Roth di dire addio alla scrittura, mi sentirei di rispondere che uno scrittore sa quando è tempo di smettere, quando la scintilla dell’ispirazione non è più così forte da soppiantare il bisogno di tranquillità. “Nemesi”, romanzo dello scorso anno sulla forza dei sentimenti che colpiscono l'animo umano in tempo di catastrofe, è stata la sua ultima pubblicazione (tra l’altro pubblicato nel 2012 nella collana Numeri Primi).

Per altre informazioni riguardo i romanzi di Philip Roth, vi rimando ad alcuni articoli precedentemente pubblicati sul blog:


Philip Roth
Ha vinto il Premio Pulitzer nel 1997 per Pastorale americana. Nel 1998 ha ricevuto la National Medal of Arts alla Casa Bianca, e nel 2002 il piú alto riconoscimento dell'American Academy of Arts and Letters, la Gold Medal per la narrativa. Ha vinto due volte il National Book Award e il National Book Critics Circle Award, e tre volte il PEN/Faulkner Award. Nel 2005 Il complotto contro l'America ha ricevuto il premio della Society of American Historians per «il miglior romanzo storico di tematica americana del periodo 2003-2004». Recentemente Roth ha ricevuto i due piú prestigiosi premi PEN: il PEN/Nabokov Award del 2006 e il PEN/Saul Bellow Award for Achievement in American Fiction. Roth è l'unico scrittore americano vivente la cui opera viene pubblicata in forma completa e definitiva dalla Library of America. Nel 2011 ha ricevuto la National Humanities Medal alla Casa Bianca, ed è poi stato dichiarato vincitore della quarta edizione del Man Booker International Prize.
Di Philip Roth Einaudi ha pubblicato: Pastorale americana, Operazione Shylock, Il teatro di Sabbath, Ho sposato un comunista, Lamento di Portnoy, La macchia umana, L'animale morente, Lo scrittore fantasma, Zuckerman scatenato, Chiacchiere di bottega, Il complotto contro l'America, Il seno, La lezione di anatomia, L'orgia di Praga, Everyman, Patrimonio, Il fantasma esce di scena, Il professore di desiderio, Indignazione, L'umiliazione, La controvita, La mia vita di uomo, Nemesi, Goodbye, Columbus, Quando lei era buona) e il volume Zuckerman che raccoglie i romanzi Lo scrittore fantasma, Zuckerman scatenato, La lezione di anatomia, L'orgia di Praga, Nemesi e «Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno» ovvero, guardando Kafka.L’autore più premiato al mondo dice addio alla letteratura. Philip Roth, classe 1933, venticinque romanzi alle spalle, ha deciso di fare come gli oratores romani e ritirarsi a vita privata. La notizia è di un mese fa, pubblicata dal giornale francese “Les Inrocks”, ma sta facendo il giro del mondo solo in queste ultime settimane. Un addio dichiarato, tranquillo, di un uomo stanco di quasi ottant’anni, che ha avuto tanto dalla vita e che tanto ha donato ai suoi lettori. Scrittore che con i suoi romanzi ha ispirato il cinema, Roth è stato più volte candidato al Nobel per la letteratura, senza però essere insignito del prestigioso riconoscimento. Non sono invece mancati i riconoscimenti della critica alla sua narrativa autobiografica e fortemente improntata dalla psicologia e dalla socio-etnografia, nella quale sono presenti accurati ritratti familiari e spesso il protagonista è un alter-ego dell’autore e, in alcuni casi, suo omonimo. Famosissimo il ciclo di sei romanzi che ha per protagonista Nathan Zuckerman (“Lo scrittore fantasma”, “Zuckerman scatenato”, “La lezione di anatomia”, “L'orgia di Praga”, “La controvita” e “Il fantasma esce di scena”), che ritroviamo invece come narratore in altri tre romanzi, compreso “Pastorale americana”, che è valso a Roth il Premio Pulitzer nel 1997.


Recensione: la trilogia "Millenium" di Stieg Larsson


Miellenium 1 -Uomini che odiano le donne
Sono passati molti anni da quando Harriet, nipote prediletta del potente industriale Henrik Vanger, è scomparsa senza lasciare traccia. Da allora, ogni anno l'invio di un dono anonimo riapre la vicenda, un rito che si ripete puntuale e risveglia l'inquietudine di un enigma mai risolto. Ormai molto vecchio, Henrik Vanger decide di tentare per l'ultima volta di fare luce sul mistero che ha segnato tutta la sua vita. L'incarico di cercare la verità è affidato a Mikael Blomkvist: quarantenne di gran fascino, Blomkvist è il giornalista di successo che guida la rivista Millennium, specializzata in reportage di denuncia sulla corruzione e gli affari loschi del mondo imprenditoriale. Sulle coste del Mar Baltico, con l'aiuto di Lisbeth Salander, giovane e abilissima hacker, indimenticabile protagonista femminile al suo fianco ribelle e inquieta, Blomkvist indaga a fondo la storia della famiglia Vanger. E più scava, più le scoperte sono spaventose.


Millenium 2 – La ragazza che giocava con il fuoco
Mikael Blomkvist è tornato vittorioso alla guida di Millennium, pronto a lanciare un numero speciale su un vasto traffico di prostituzione dai paesi dell'Est. L'inchiesta si preannuncia esplosiva: la denuncia riguarda un intero sistema di violenze e soprusi, e non risparmia poliziotti, giudici e politici, perfino esponenti dei servizi segreti. Ma poco prima di andare in stampa, un triplice omicidio fa sospendere la pubblicazione, mentre si scatena una vera e propria caccia all'uomo: l'attenzione di polizia e media nazionali si concentra su Lisbeth Salander, la giovane hacker, "così impeccabilmente competente e al tempo stesso così socialmente irrecuperabile", ora principale sospettata. Blomkvist, incurante di quanto tutti sembrano credere, dà il via a un'indagine per accertare le responsabilità di Lisbeth, "la donna che odia gli uomini che odiano le donne". È lei la vera protagonista di questo nuovo episodio della Millennium Trilogy, un thriller serrato che all'intrigo diabolico unisce un'acuta descrizione della società moderna, con le sue contraddizioni e deviazioni, consegnandoci con Lisbeth Salander un personaggio femminile unico, commovente e indimenticabile.


Millenium 3 – La regina dei castelli di carta
La giovane hacker Lisbeth Salander è di nuovo immobilizzata in un letto d'ospedale, anche se questa volta non sono le cinghie di cuoio a trattenerla, ma una pallottola in testa. È diventata una minaccia: se qualcuno scava nella sua vita e ascolta quello che ha da dire, potenti organismi segreti crolleranno come castelli di carta. Deve sparire per sempre, meglio se rinchiusa in un manicomio. La cospirazione di cui si trova suo malgrado al centro, iniziata quando aveva solo dodici anni, continua. Intanto, il giornalista Mikael Blomkvist è riuscito ad avvicinarsi alla verità sul terribile passato di Lisbeth ed è deciso a pubblicare su "Millennium" un articolo di denuncia che farà tremare i servizi di sicurezza, il governo e l'intero paese. Non ci saranno compromessi. L'ultimo capitolo della trilogia di Stieg Larsson è ancora una volta una descrizione della società contemporanea sotto forma di thriller. Un romanzo di trame occulte e servizi segreti deviati, che cattura il ritmo del nostro tempo e svela a cosa possono condurre le perversioni di un sistema malato. Una storia che, fedele all'anima del suo autore, narra di violenza contro le donne, e di uomini che la rendono possibile.

A cura di Lamia

Voto: 

Chiamare Millenium“trilogia” è in parte sbagliato, poiché, nell'idea originaria dell'autore, doveva trattarsi di una serie di romanzi polizieschi molto più lunga, che purtroppo è stata stroncata dalla sua morte prematura.
La serie, uscita postuma, è stata in vetta alle classifiche di tutta Europa, guadagnando il titolo di caso editoriale. Questa volta parliamo di un caso editoriale che merita di esserlo.

Forte della sua esperienza come giornalista -ottimo giornalista, oserei dire- Larsson ci presenta dei romanzi stilisticamente impeccabili. La scrittura è ottima, fluida. Ogni azione ha la sua giusta reazione, in un susseguirsi logico, realistico e ben congegnato. Nulla è lasciato al caso, tutto è valutato attentamente e curato. L'autore sa sempre fin dove spingersi con le parole: anche nelle scene più volente, riesce a essere descrittivo senza essere volgare o scadere in un linguaggio poco consono.

Ciò che più colpisce in questa trilogia è l'eroina, Lisbeth Salander, personaggio contraddittorio e del tutto anticonvenzionale che ribalta completamente i clichè del suo ruolo. È guidata da una propria morale, che agisce fuori dai parametri comuni. È una ragazza forte, benchè abbia perso completamente la fiducia verso il prossimo. Raggiunge i suoi obiettivi da sola, non chiede mai aiuto a nessuno e il gioco di squadra non fa decisamente per lei. Ama le sfide e ha una mente geniale.
Lisbeth si presenta come una persona eccentrica, con numerosi piercing e tatuaggi e un look da punk, ma dietro la sua corazza ha i suoi punti deboli e le sue fragilità sebbene non darà mai loro la chance di farla da padroni.
Larsson la dipinge con tinte talmente vivide da farla emergere prepotentemente dalla carta, come pochi autori sanno fare.
Dopo aver letto Millenium, non potrete che essere innamorati di questa ragazza.

La sua controparte maschile, Mikael Blomkvist, è invece molto più vicina ai canoni tipici del cavaliere senza paura. Il giornalista è guidato da una ferrea morale -che si scontrerà più volte con quella di Lisbeth-, è un paladino quasi donchisciottesco, che si erge a difesa del bene combattendo le ingiustizie del mondo tramite il suo giornale, Millenium.

Proprio la vividezza dei personaggi è un punto forte della trilogia. Nessuno, nemmeno i più secondari, sono lasciato al margine. Ognuno è descritto, caratterizzato e dotato di un background del tutto coerente e ben lontano dagli stereotipi.
Questa attenzione per i particolari, tipica di Larsson, che è capace di raccontarci i dettagli del lavoro di una comparsa, o la lista della spesa di Lisbeth, può risultare quasi snervante, ma non fa che contribuire a dare spessore e godibilità alla storia.
Un po' tecnico, forse, quando si parla di affari finanziari e inchieste giornalistiche, nel tipico modo di chi conosce la materia di cui sta parlando, ma non così tecnico da costituire un ostacolo insormontabile.

L'intreccio in tutti e tre i libri è ben congegnato, privo di tempi morti. Larsson sa manipolare l'attenzione del suo lettore e non è mai scontato, nonostante il numero spropositato di pagine. I suoi colpi di scena sono magistrali, mai banali ma sempre ben pensati e inseriti.
Come si ripete spesso Lisbeth prima di agire: “ogni azione ha una conseguenza”, e questo sembra essere il mantra anche dell'autore, che si muove sempre sicuro e padrone della scena. Anche quando gli eventi raggiungono apici quasi impossibili, Larsson riesce a tenerli ben imbrigliati e non cede alla tentazione di strafare.
(Fatta eccezione forse per la promisuità di Mikael, che occupa però poco spazio nei libri).

Lo stile di Larsson non è uno stile piacevole per tutti -a causa della sopracitata attenzione per i dettagli -ma se vi imbarcherete in questa avventura, sarete completamente catturati dai suoi intrecci, e incantati da quello che un bravo autore può creare.

martedì 27 novembre 2012

Recensione: Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka

Venivamo tutte per mare - Julie Otsuka 
Una voce forte, corale e ipnotica racconta dunque la vita straordinaria di queste donne, partite dal Giappone per andare in sposa agli immigrati giapponesi in America, a cominciare da quel primo, arduo viaggio collettivo attraverso l’oceano. È su quella nave affollata che le giovani, ignare e piene di speranza, si scambiano le fotografie dei mariti sconosciuti, immaginano insieme il futuro incerto in una terra straniera. A quei giorni pieni di trepidazione, seguirà l’arrivo a San Francisco, la prima notte di nozze, il lavoro sfibrante, la lotta per imparare una nuova lingua e capire una nuova cultura, l’esperienza del parto e della maternità, il devastante arrivo della guerra, con l’attacco di Pearl Harbour e la decisione di Franklin D. Roosevelt di considerare i cittadini americani di origine giapponese come potenziali nemici. Fin dalle prime righe, la voce collettiva inventata dall’autrice attira il lettore dentro un vortice di storie fatte di speranza, rimpianto, nostalgia, paura, dolore, fatica, orrore, incertezza, senza mai dargli tregua. Un altro scrittore avrebbe impiegato centinaia di pagine per raccontare le peripezie di un intero popolo di immigrati, avrebbe sprecato torrenti di parole per dire cos’è il razzismo. Julie Otsuka ci riesce con queste essenziali, preziose pagine.





Voto:  

Un fatto poco noto della storia del Novecento riguarda le cosiddette “mogli in fotografia”. Poco prima della Seconda Guerra Mondiale, infatti, giovani donne giapponesi venivano cedute in matrimonio a uomini oltreoceano. L'unico modo che avevano gli sposi per conoscersi era, appunto, vedersi in fotografia. Dopo l'attacco di Pearl Harbour, per ovvi motivi, il governo americano ha deciso di nascondere il fatto e soprattutto i mezzosangue nati da questa unione; anche con la violenza, fomentando l'opinione pubblica contro gli immigrati e portandoli via dalle loro città con la forza. 

Una storia poco conosciuta, ma che ha colpito la scrittrice Julie Otsuka: dopo numerose letture ha perciò deciso di affrontare l'argomento. Il risultato è “Venivamo tutte per mare”, edito in Italia da Bollati Boringhieri.
Questa sarà diversa dalle recensioni che in genere scrivo, in cui prima si parte dalla trama, poi si procede con le varie considerazioni su personaggi, scrittura, varie ed eventuali. Il motivo è che questo romanzo non ha una vera e propria trama, e nemmeno dei veri e propri personaggi. 

La modalità narrativa, infatti, è quella di una prima persona plurale che racconta le varie peripezie delle mogli giapponesi: i preparativi per la partenza, il viaggio in mare, la prima notte di nozze, la maternità, il lavoro, ed infine il clima di terrore psicologico instillato durante la guerra. 

Potremmo perciò parlare di piccoli monologhi, in cui però non si affaccia sulla scena un personaggio, ma una moltitudine indefinita. Potremmo paragonarlo ad un coro: le voci si fondono tra loro creando una sola grande voce, anche se ascoltando con attenzione si possono udire gli sforzi dei singoli. Alle volte ci sono anche dei piccoli assoli solisti: si ha quasi l'impressione di riconoscere chi sta parlando. 

L'unica controindicazione è quella di dover seguire con particolare attenzione la lettura, perché quasi sempre le diverse frasi si contraddicono tra loro. Lo stile di Julie Otsuka, però, facilita le cose, perché è molto secco e schematico. Le frasi sono brevi, dal linguaggio semplice: ciò garantisce la delicatezza nei momenti più toccanti (quasi a voler far calare il sipario in situazioni più emozionali ed intime) ma anche la crudezza delle parti più drammatiche.

Potete capire come parlare di introspezione psicologica in questo contesto sia praticamente impossibile. Non del tutto, però, perché “Venivamo per mare” ha un'unica, grande protagonista: la moltitudine. Viene espresso bene, tra le righe dei periodi scarni, il sentire comuni delle spose: la speranza di una vita migliore in quel grande paese sconosciuto (e perciò non deludere le aspettative della famiglia, che tanto ha sofferto per poter dar loro quella possibilità), la repentina disillusione nel trovare un ambiente ostile e faticoso, fuori e dentro dalle mura domestiche, lo sconcerto di fronte alla maternità ed infine l'inquietudine nell'essere riconosciute il nemico dell'America, loro che non si sono mai tirate indietro quando dovevano lavorare per la loro nuova patria. 

Lo stesso discorso viene applicato all'ultimo capitolo, dove la folla che narra è quella americana che assiste impotente alla sparizione dei giapponesi, cui segue l'amara constatazione che forse quelle donne così silenziose e ligie al dovere erano una parte importante, se non fondamentale, della nazione. 

Naturalmente, però, le storie e le personalità delle donne non sono tutte uguali, e Julie Otsuka se ne rende conto. Sono tante le differenze delle voci soliste. Le ragioni per la partenza: alcune hanno un passato che preferiscono dimenticare, altre sono povere e non hanno altre speranze per il futuro. La vita nel nuovo paese, con i loro mariti in fotografia: c'è chi, pur provando una comprensibile nostalgia, troverà un modo di adattarsi alla nuova vita, ed eventualmente a trovare l'amore, e c'è chi non ci riuscirà, per circostanze esterne o per mancanza di volontà. La propaganda razzista: chi si abbandona alla paura e al sospetto senza remore, e chi invece cerca – invano – di mantenere una parvenza di controllo sulla situazione.

Nel corso del romanzo sempre più spazio viene dato alla famiglia, in particolare a quei figli mezzosangue che si ritrovano divisi tra due culture, ed assisteremo alla scissione di chi non riuscirà mai ad integrarsi in quel paese in cui tuttavia è nato e chi invece abbraccerà con fin troppo entusiasmo i nuovi valori americani, entrando così in rottura con le madri tradizionaliste.

“Venivamo tutte per mare” non scalerà mai le classifiche di vendita, non diventerà mai un film campione di incassi. Tuttavia, quanto a qualità, non ha niente da invidiare a titoli più blasonati, anzi riuscirà a lasciare il segno nel lettore per il suo tema poco noto e l'originale modalità narrativa. Nelle sue particolarità, un romanzo degno di essere letto ed interiorizzato.

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