Dopo aver accolto l'invito della Garzanti che proponeva di scrivere un seguito di Chocolat in occasione dell'uscita del terzo libro di Joanne Harris su Vianne Rocher (di cui vi ho parlato qui), immaginando cosa potrebbe accadere, ho buttato giù qualche riga. Non è un racconto vero e proprio, è più che altro un incipit. E' davvero molto tempo che non scrivo, ed ancora di più quello in cui non pubblico su internet ciò che scrivo. Premetto che Chocolat è un romanzo che amo e che mi ricorda un momento in cui la lettura riusciva davvero a trascinarmi - probabilmente grazie anche alla qualità dei libri che leggevo, ora un po' abbassatasi.
Non è stato difficile quindi riportare alla mente le sensazioni che mi aveva suscitato e che ho cercato di riportare su carta, o per meglio dire al pc.
Eccezionalmente ho anche fatto un uso spropositato della musica (che ascolto molto raramente) ed in particolare del brano di Ludovico Einaudi che vi riporto giù. E' praticamente da ieri sera che lo ascolto a manetta. Giacché sono una che si schernisce sempre, giacché la scrittura è per me un atto molto intimo (e devo dire che postarlo sul blog mi mette anche un po' in difficoltà) preferisco precisare che senza l'invito della Garzanti questo breve testo non sarebbe mai uscito dalla mia testa e dalle mie dita. Quindi, in un certo qual modo, la ringrazio per avermi dato l'occasione.
Ingrossava i teli delle casse di frutta quel vento tiepido e friabile come il pane appena sfornato, lento e vecchio del Sud della Francia, settembrino e disadorno di speranze e preghiere. Si insinuava nei pertugi tra le tegole dei tetti fischiando malinconico una sinfonia udibile solo a tratti, invisibile e forse inesistente. Tra le vie di pietra unte dalle tracce del sole al tramonto, tra i muri lisci e bianchi dall’intonaco disfatto, girovagava quell’aria dolciastra simile all’eco di un ricordo sfiorito, morso dai sussurri che si snodavano al suo passaggio.
Lansquenet non respirava ancora l’aria della notte, ma in quello specchio di passaggio tra il dì e la sera, al momento del vespro, le ombre che proiettavano forme sinistre si curvavano in volute di farfalle, disgregandosi negli angoli più nascosti.
Raccontava così un’antica leggenda dell’Asia, che nelle farfalle vigesse l’ultimo attimo dei defunti: caricato sulle proprie ali, varcava i confini del mondo terrestre.
Non era ancora arrivato il momento dell’aspro assassinio della notte, che ingoiava i rimasugli dei raggi, eppure il vento aveva cominciato a vibrare di note sommesse, di quelle riservate ai canti delle ninfe notturne. Le foglie immobili, gialle ed arse, sollevarono leggermente le punte verso l’alto, accartocciandosi poi su se stesse come papiri inviolabili. Fu in quel momento –quando le nuvole sparirono oltre l’orizzonte e una stella sbiadita aveva fatto capolino nel cielo terso- che la farfalla d’ombra stesa al suolo allargò le ali. Nel particolare delle sue antenne si impigliava la spilla di un cappello nero a tesa larga che tratteneva a stento i riccioli bruni di un viso esile e delicato, solo leggermente arrossato sulle gote di mela.
La bocca piena e matura allargò un sorriso. La pelle di porcellana stirò le guance, concentrandosi in due rughette agli angoli delle labbra. Gli occhi brillarono per un attimo del luccichio intenso della luna, riflessa sul pozzo nero delle pupille. E allora Lansquenet tremò.
Per un attimo il paese, sopito nell’estate afosa appena trascorsa, orfano ancora sferzato dell’ingiuria di quell’abbandono, trattenne il respiro.
La gonna ampia svolazzò furiosa, le braccia si allargarono accogliendo l'incanto del paesino rurale, che bramava il ritorno della sua beniamina.
Così Lansquenet perdonò Vianne Rocher
Se n'era andata con il vento, trinciando di netto il legame di sangue che l'aveva stretta agli abitanti, agli alberi, alle vie, persino alle pietre di un anonimo agglomerato di case e bugie.
La Céleste praline, il gusto amaro del cioccolato, due occhi scuri e tormentati le tornarono alla mente con tanta forza che si sentì strappare il cuore, arrestarsi, sospeso, tra un respiro che accelerava ed il sudore che, malgrado il freddo, le imperlava la fronte.
Le dita si strinsero ora attorno a quelle, più piccole, di una bambina dai tratti imprecisi. Lo sguardo, che vagava tra i particolari del paesaggio aperto davanti a loro, possedeva la bellezza matura di una vecchia stanca. Eppure le guance ancora paffute, le forme acerbe di due abbozzi di seno, i capelli morbidi e profumati che le attorniavano il viso, frustandole la pelle con le loro punte aguzze, ricordavano lo schizzo antico di uno spirito senza tempo.
Non esisteva spiegazione per quel languido gioco di linee che si disegnavano tra le sopracciglia decise e le ciglia chiare che si abbassavano a metà, lasciando trasparire la luce ormai prossima alla morte. La piccola figura scostò una ciocca dalla fronte, socchiudendo la bocca come per assaporare l'aria di cialde ed il vento amico.
- Non è cambiato nulla- commentò Anouk.
Vianne sorrise.
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