Salve a tutti, e benvenuti ad una
nuova puntata de “Il tempio degli Otaku”! Oggi affrontiamo, per la terza volta,
una vecchia conoscenza. Vi dicono niente le parole “saga familiare”? A
giudicare dai vostri brontolii e mugugni, sì. Avete proprio ragione: parliamo
di nuovo de “Le bizzarre avventure di Jojo”.
Tanta attenzione per uno shonen
potrebbe sembrare eccessiva, soprattutto considerando i non pochi difetti
strutturali dell'opera, ma se la merita. Mai come in questa serie, infatti,
vengono apportate alla formula originaria interessanti modifiche e
miglioramenti, che non a caso la rendono una tra le più amate di sempre. Cosa
sono questi cambiamenti? Scopritelo nella recensione di “Le bizzarre
avventure di Jojo: Stardust Crusaders” di Hirohiko Araki! Buona lettura!
Fare parte della famiglia Joestar
porta quasi più svantaggi che vantaggi. Lo sa bene anche il giovane Jotaro,
che è arrivato a rinchiudersi volontariamente in una prigione per minimizzare i
danni dello spirito – maligno? - che gli ha rovinato la vita. Soltanto la
spiegazione del nonno Joseph – protagonista della seconda saga, “Battle
Tendency” - gli farà capire che la sua maledizione può anche essere una
benedizione. Il suo spirito – o per la precisione, Stand – gli garantisce
infatti capacità che nessun umano può ottenere, e che possono servire anche per
nobili scopi...
...Ad esempio, salvare il mondo.
Giusto in quel periodo infatti il vampiro Dio Brando, nemico giurato dei
Joestar, ha rialzato la testa, sferrando un attacco contro la madre di Jotaro,
Holly. Per salvarla è necessario eliminare il problema alla radice: andare in
Egitto, dove si nasconde, ed ucciderlo. Il tempo stringe: riusciranno Jotaro,
suo nonno Joseph ed i loro compagni – Abdul, Kakyoin, Polnareff e il cane
Iggy - con i rispettivi Stand, nell'impresa?
Oggi molti dei suoi contenuti
potrebbero sembrare risibili ed antiquati, ma i tempi “Stardust Crusaders”
doveva rappresentare un'importante innovazione, sia per quanto riguarda
la rivista d'appartenenza – Shonen Jump, la cui rigidità della linea editoriale
è quasi più famosa delle opere che ospita – che rispetto alle precedenti saghe.
Il principale cambiamento deriva dall'introduzione degli Stand, un
metodo di combattimento totalmente diverso da quello usato nelle altre
“bizzarre avventure”. Tanto di guadagnato, comunque: ogni Stand è diverso
dall'altro, con abilità quantomai imprevedibili e stravaganti, che danno luogo
a combattimenti sempre avvincenti. Tanto per fare qualche esempio, avremo
persone in grado di incatenare prevedere il futuro attraverso dei fumetti, di
attaccare attraverso gli specchi e più in generale i riflessi, di controllare
il corpo altrui e così via. Naturalmente il lettore sa che sarà il buono di
turno ad avere la meglio, ma non potrà fare a meno di chiedersi come ci
riuscirà, visto che spesso sarà l'astuzia, e non la mera forza fisica, a fare
la differenza.
Altra differenza con le
precedenti serie è senza dubbio l'ambientazione. Se nella prima saga le
vicende si sarebbero potute svolgere dovunque senza alcuna differenza, e nella
seconda c'erano poche, ma apprezzabili variazioni, qui viene sfruttato
l'espediente del viaggio in tutte le sue potenzialità. Di tanto in tanto, ad
esempio, le lunghe sequenze di combattimenti vengono spezzate da delle
interessantissime digressioni sui costumi locali, dal come contrattare un buon
prezzo senza essere fregati all'etichetta da seguire in determinati contesti.
E' evidente la documentazione dell'autore sui luoghi trattati, anche nel
disegnare i diversi paesaggi ed etnie.
A parte le obbligatorie tappe del
viaggio, comunque, il manga non ha una vera e propria sceneggiatura. Il canovaccio
è sempre quello: gli eroi, dopo mille peripezie, arrivano nel paese X, dove
incontrano uno scagnozzo di Dio con Stand al seguito. Combattimento. Ripetere.
I dialoghi sono pochissimi, e combattono ad armi pari con la mia stesura della
trama per la loro incapacità di trasmettere sentimenti seri. Ma non sarebbe
Jojo senza... Spariti quasi del tutto, invece, gli inforigurgiti e i commenti
non necessari durante gli scontri, per fortuna; forse perché il personaggio che
più ci deliziava di questi interventi utilissimi alla storia non appare in
questa saga.
Se leggete abitualmente le mie
recensioni, sapete che espletate le formalità su trama e sceneggiatura viene
sempre il momento topico: l'introspezione psicologica. Farei lo stesso
per “Stardust Crusaders”... se solo ce ne fosse la possibilità. Purtroppo, tra
gli Stand e il viaggio, la cura nei personaggi è stata un po' trascurata da
Araki. Nessuno tra i protagonisti si può dire ben caratterizzato. Possiamo
chiudere un occhio su Joseph, di cui abbiamo già visto la maturazione in
“Battle Tendency”, ed anche su Abdul, la cui esperienza lo esenta dall'imparare
nuove lezioni di vita, ma che dire degli altri? Una volta che Jotaro
capisce come funziona il suo Stand – inutile dire che lo capisce con
straordinaria rapidità – svanisce il suo conflitto psicologico. Nel suo
viaggio non incontrerà persone che arricchiranno la sua visione del mondo, e
non maturerà durante la storia – ed anche se lo facesse, è troppo riservato e
sicuro di sé per coinvolgere il lettore nelle sue scoperte.
Kakyoin e Polnareff sono
semplicemente due occasioni sprecate, per le loro storie personali, soltanto accennate – e nel caso di Kakyoin,
con un flashback che potrebbe entrare in un'ipotetica classifica sui più brutti
della storia – e per il gran numero di combattimenti che affrontano. Ciò
nonostante continuano sempre a comportarsi nello stesso modo, a fare gli stessi
errori, senza mai deviare dai loro comportamenti.
Questo vale anche per i loro
compagni, comunque. Ad esempio, dopo volumi e volumi in cui vengono attaccati
dal nemico esclusivamente quando sono divisi, soltanto a metà dell'opera
afferrano che forse non dovrebbero separarsi... salvo farlo subito dopo. I
nostri sono eroi assolutamente immaturi, che si ritrovano a salvare il
mondo soltanto perché questo coincide con i loro screzi personali con Dio
Brando. Un quadro un po' deprimente, visto che Araki in precedenza aveva
ampiamente dimostrato di poter gestire l'introspezione psicologica dei suoi
personaggi.
Per i cattivi vale più o meno lo
stesso discorso, anche perché durano per lo più lo spazio di un combattimento e
poi non si fanno più vedere. C'è però un'eccezione, e questo vale per tutto il
manga: il sopraccitato Dio Brando. Rispetto alla prima serie, il suo
ruolo nell'azione è più improntato alla reazione che all'azione, apparendo
prima dello scontro finale soltanto sporadicamente, eppure è proprio per questo
che funziona. E quando arriva il suo momento non delude le aspettative,
mostrandosi carismatico come pochi “Big Bad”.
Lo stile di disegno di
Hirohiko Araki mostra lenti, ma sicuri, segnali di evoluzione, con una
costruzione della tavola più fluida e con delle fisionomie che non devono
necessariamente pagare tributo al Tetsuo Hara di “Ken il Guerriero”. Certo
rimangono delle sbavature a livello di prospettive, con diversi piccoli grandi
errori sparsi qua e là, ma è uno stile godibile, adatto alla storia, più
personale...
...Un po' come tutto il manga.
Per oggi è tutto, cari amici. Arrivederci alla prossima volta, con “Il tempio
degli Otaku”!
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