sabato 19 gennaio 2013

Il tempio degli Otaku: #81 “Le bizzarre avventure di Jojo: Stardust Crusaders”








Salve a tutti, e benvenuti ad una nuova puntata de “Il tempio degli Otaku”! Oggi affrontiamo, per la terza volta, una vecchia conoscenza. Vi dicono niente le parole “saga familiare”? A giudicare dai vostri brontolii e mugugni, sì. Avete proprio ragione: parliamo di nuovo de “Le bizzarre avventure di Jojo”.
Tanta attenzione per uno shonen potrebbe sembrare eccessiva, soprattutto considerando i non pochi difetti strutturali dell'opera, ma se la merita. Mai come in questa serie, infatti, vengono apportate alla formula originaria interessanti modifiche e miglioramenti, che non a caso la rendono una tra le più amate di sempre. Cosa sono questi cambiamenti? Scopritelo nella recensione di “Le bizzarre avventure di Jojo: Stardust Crusaders” di Hirohiko Araki! Buona lettura!

Fare parte della famiglia Joestar porta quasi più svantaggi che vantaggi. Lo sa bene anche il giovane Jotaro, che è arrivato a rinchiudersi volontariamente in una prigione per minimizzare i danni dello spirito – maligno? - che gli ha rovinato la vita. Soltanto la spiegazione del nonno Joseph – protagonista della seconda saga, “Battle Tendency” - gli farà capire che la sua maledizione può anche essere una benedizione. Il suo spirito – o per la precisione, Stand – gli garantisce infatti capacità che nessun umano può ottenere, e che possono servire anche per nobili scopi...
...Ad esempio, salvare il mondo. Giusto in quel periodo infatti il vampiro Dio Brando, nemico giurato dei Joestar, ha rialzato la testa, sferrando un attacco contro la madre di Jotaro, Holly. Per salvarla è necessario eliminare il problema alla radice: andare in Egitto, dove si nasconde, ed ucciderlo. Il tempo stringe: riusciranno Jotaro, suo nonno Joseph ed i loro compagni – Abdul, Kakyoin, Polnareff e il cane Iggy - con i rispettivi Stand, nell'impresa?

Oggi molti dei suoi contenuti potrebbero sembrare risibili ed antiquati, ma i tempi “Stardust Crusaders” doveva rappresentare un'importante innovazione, sia per quanto riguarda la rivista d'appartenenza – Shonen Jump, la cui rigidità della linea editoriale è quasi più famosa delle opere che ospita – che rispetto alle precedenti saghe. Il principale cambiamento deriva dall'introduzione degli Stand, un metodo di combattimento totalmente diverso da quello usato nelle altre “bizzarre avventure”. Tanto di guadagnato, comunque: ogni Stand è diverso dall'altro, con abilità quantomai imprevedibili e stravaganti, che danno luogo a combattimenti sempre avvincenti. Tanto per fare qualche esempio, avremo persone in grado di incatenare prevedere il futuro attraverso dei fumetti, di attaccare attraverso gli specchi e più in generale i riflessi, di controllare il corpo altrui e così via. Naturalmente il lettore sa che sarà il buono di turno ad avere la meglio, ma non potrà fare a meno di chiedersi come ci riuscirà, visto che spesso sarà l'astuzia, e non la mera forza fisica, a fare la differenza.
Altra differenza con le precedenti serie è senza dubbio l'ambientazione. Se nella prima saga le vicende si sarebbero potute svolgere dovunque senza alcuna differenza, e nella seconda c'erano poche, ma apprezzabili variazioni, qui viene sfruttato l'espediente del viaggio in tutte le sue potenzialità. Di tanto in tanto, ad esempio, le lunghe sequenze di combattimenti vengono spezzate da delle interessantissime digressioni sui costumi locali, dal come contrattare un buon prezzo senza essere fregati all'etichetta da seguire in determinati contesti. E' evidente la documentazione dell'autore sui luoghi trattati, anche nel disegnare i diversi paesaggi ed etnie.
A parte le obbligatorie tappe del viaggio, comunque, il manga non ha una vera e propria sceneggiatura. Il canovaccio è sempre quello: gli eroi, dopo mille peripezie, arrivano nel paese X, dove incontrano uno scagnozzo di Dio con Stand al seguito. Combattimento. Ripetere. I dialoghi sono pochissimi, e combattono ad armi pari con la mia stesura della trama per la loro incapacità di trasmettere sentimenti seri. Ma non sarebbe Jojo senza... Spariti quasi del tutto, invece, gli inforigurgiti e i commenti non necessari durante gli scontri, per fortuna; forse perché il personaggio che più ci deliziava di questi interventi utilissimi alla storia non appare in questa saga.

Se leggete abitualmente le mie recensioni, sapete che espletate le formalità su trama e sceneggiatura viene sempre il momento topico: l'introspezione psicologica. Farei lo stesso per “Stardust Crusaders”... se solo ce ne fosse la possibilità. Purtroppo, tra gli Stand e il viaggio, la cura nei personaggi è stata un po' trascurata da Araki. Nessuno tra i protagonisti si può dire ben caratterizzato. Possiamo chiudere un occhio su Joseph, di cui abbiamo già visto la maturazione in “Battle Tendency”, ed anche su Abdul, la cui esperienza lo esenta dall'imparare nuove lezioni di vita, ma che dire degli altri? Una volta che Jotaro capisce come funziona il suo Stand – inutile dire che lo capisce con straordinaria rapidità – svanisce il suo conflitto psicologico. Nel suo viaggio non incontrerà persone che arricchiranno la sua visione del mondo, e non maturerà durante la storia – ed anche se lo facesse, è troppo riservato e sicuro di sé per coinvolgere il lettore nelle sue scoperte.
Kakyoin e Polnareff sono semplicemente due occasioni sprecate, per le loro storie personali,  soltanto accennate – e nel caso di Kakyoin, con un flashback che potrebbe entrare in un'ipotetica classifica sui più brutti della storia – e per il gran numero di combattimenti che affrontano. Ciò nonostante continuano sempre a comportarsi nello stesso modo, a fare gli stessi errori, senza mai deviare dai loro comportamenti.
Questo vale anche per i loro compagni, comunque. Ad esempio, dopo volumi e volumi in cui vengono attaccati dal nemico esclusivamente quando sono divisi, soltanto a metà dell'opera afferrano che forse non dovrebbero separarsi... salvo farlo subito dopo. I nostri sono eroi assolutamente immaturi, che si ritrovano a salvare il mondo soltanto perché questo coincide con i loro screzi personali con Dio Brando. Un quadro un po' deprimente, visto che Araki in precedenza aveva ampiamente dimostrato di poter gestire l'introspezione psicologica dei suoi personaggi.
Per i cattivi vale più o meno lo stesso discorso, anche perché durano per lo più lo spazio di un combattimento e poi non si fanno più vedere. C'è però un'eccezione, e questo vale per tutto il manga: il sopraccitato Dio Brando. Rispetto alla prima serie, il suo ruolo nell'azione è più improntato alla reazione che all'azione, apparendo prima dello scontro finale soltanto sporadicamente, eppure è proprio per questo che funziona. E quando arriva il suo momento non delude le aspettative, mostrandosi carismatico come pochi “Big Bad”.

Lo stile di disegno di Hirohiko Araki mostra lenti, ma sicuri, segnali di evoluzione, con una costruzione della tavola più fluida e con delle fisionomie che non devono necessariamente pagare tributo al Tetsuo Hara di “Ken il Guerriero”. Certo rimangono delle sbavature a livello di prospettive, con diversi piccoli grandi errori sparsi qua e là, ma è uno stile godibile, adatto alla storia, più personale...

...Un po' come tutto il manga. Per oggi è tutto, cari amici. Arrivederci alla prossima volta, con “Il tempio degli Otaku”!

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