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Voto:
Un viaggio per gli Stati Uniti,
quattro ragazzi giovanissimi che hanno tentato almeno una volta il suicidio,
tanti problemi e il desiderio di sentirsi una famiglia. Il club dei suicidi si snoda in linea con questi punti, in un
continuum che, non essendo intervallato da capitoli, risulta un po’soffocante. E’
questa linearità a dare l’impressione di una trama poco corposa, sebbene di
cose durante il libro ne succedano parecchie: il viaggio tocca varie tappe e
passa attraverso varie esperienze, ma si ha l’impressione di uno stallo, di un
punto fermo, che ruota tutto intorno le personalità e i pensieri, i
comportamenti e le relazioni tra i protagonisti. Frank ha un rapporto difficile
con il padre troppo pretenzioso, quello di Audrey è in carcere -mentre sembra
che alla madre non importi di lei-, Jin-Ae non ha il coraggio di confessare la
sua omosessualità alla famiglia e Owen… questo sta a voi scoprirlo.
Lo stile è secco, incisivo,
ridotto all’osso. Le frasi sono brevi e i pensieri vengono come delimitati dai
numerosissimi punti che riempiono la pagina, tanto che all’inizio la
definizione migliore che ho trovato per la prosa è stata “snervante”. L’autore
riporta infatti gli avvenimenti in maniera analitica, senza descrizioni e
spesso senza sentimenti. Verrebbe quasi da definire “arida” la personalità di
Owen, che tuttavia è solo ferita, maciullata dal senso di colpa, ma che lo
stile così scarno dell’autore non permette di far emergere. Potrebbe essere una
scelta coerente con lo stato d’animo di un ragazzo profondamente ferito, ma
nella svolta finale –quando le cose dovrebbero essere cambiate- si mantiene
così. Breve, tanti punti, poche descrizioni e una narrazione poco fluida.
Persino le fasi della nascita di un certo amore sono ugualmente rude, con tre o
quattro frasi buttate lì per testimoniare l’evento. E’ come se il lettore dovesse
intuire tutto quello che c’è dietro la semplice descrizione dei fatti nudi e
crudi. Dei sentimenti non conosciamo niente, delle stesse motivazioni che spingono
i ragazzi al suicidio sappiamo pochissimo, tranne alcune frasi sparse che finalmente
fanno capire qualcosa, ma sono sprazzi che vogliono renderci chiaro che i
ragazzi non sono realmente intenzionati a morire. Vogliono solo smettere di
soffrire.
Quello di Borris è insomma uno
stile che può piacere e non piacere, che si adatta alla tematica del libro ma
che dice spesso troppo poco.
La storia è, invece, toccante per
i personaggi e vicende –l’età, che si aggira intorno ai 15 anni, è forse l’elemento
che colpisce maggiormente- ma, ripeto, è come repressa dallo stile. Il libro si
legge comunque velocemente, ma capire cosa ti lascia in fondo è il quesito a
cui non sono ancora riuscita a dare risposta…
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