Vi avevo segnalato l'uscita de La concubina russa di Kate Funivall qualche giorno fa, adesso la Leggereditore mette a disposizione il primo capitolo di questo promettente romanzo, che potrete trovare il libreria da domani.
1
Russia, dicembre 1917
Il treno si fermò bruscamente. La locomotiva ansimante soffiò nel cielo bianco una nube di vapore grigiastro, mentre i ventiquattro vagoni merci sbattevano e sferragliavano sbandando e stridendo fino a fermarsi. Il suono dei cavalli e degli ordini gridati riecheggiava nella quiete del paesaggio desolato e ricoperto di ghiaccio.
«Perché ci siamo fermati?» sussurrò Valentina Friis a suo marito.
Il suo respiro formò una cortina di ghiaccio tra loro due. Esausta, aveva l’impressione che il suo respiro fosse l’unica parte di lei che ancora aveva la forza di muoversi. Strinse le mani del marito. Questa volta non lo fece per cercare calore, ma perché aveva bisogno di sapere che lui era ancora lì al suo fianco. Il marito scosse la testa, il viso livido dal freddo perché aveva avvolto il cappotto attorno alla bambina che dormiva tra le sue braccia. «Questa non è la fine» disse.
«Promettimelo» disse Valentina con un soffio di voce. Jens sorrise alla moglie e insieme si aggrapparono alla parete di legno grezzo del carro bestiame, gli occhi fissi sulla fessura sottile tra le assi. Tutte le persone intorno a loro facevano lo stesso. Avevano occhi disperati. Occhi che avevano già visto troppo.
«Vogliono farci fuori» disse con voce piatta l’uomo con la barba che si trovava alla destra di Valentina. Aveva un forte accento georgiano e indossava il cappello di astrakan ben calcato sulle orecchie. «Altrimenti per quale motivo ci saremmo fermati in mezzo al nulla?»
«Maria santissima, madre di Dio, proteggi tutti noi.»
Era il lamento di una donna anziana rannicchiata sul pavimento sporco. Aveva addosso così tanti scialli che sembrava un piccolo Buddha grassottello.Ma quegli stracci vecchi e puzzolenti non nascondevano altro se non pelle e ossa.
«No, babushka» disse un’altra voce maschile. Proveniva dalla parte posteriore del vagone dove il vento ghiacciato soffiava incessantemente attraverso le assi portando l’alito della Siberia nei loro polmoni. «No, arriverà il generale Kornilov. Sa che stiamo morendo di fame su questo carro bestiame dimenticato da Dio. Non ci lascerà morire. È un grande comandante.»
Un mormorio di approvazione si alzò dal gruppo di facce scarne, portando una scintilla di fiducia negli occhi spenti. Un ragazzo con i capelli biondi e sporchi che era rimasto seduto indifferente in un angolo saltò in piedi e iniziò a piangere per il sollievo. Era da tempo che non si sprecavano energie per piangere.
«Prego Dio che tu abbia ragione» disse un uomo dagli occhi infossati con una fasciatura sporca sul moncherino del braccio. Di notte si lamentava incessantemente nel sonno, ma di giorno era silenzioso e teso. «Siamo in guerra» disse bruscamente. «Il generale Lavr Kornilov non può essere ovunque.»
«Ma ti dico che è qui. Vedrai.»
«Jens, secondo te ha ragione?» chiese Valentina voltandosi per guardare il marito. Aveva solo ventiquattro anni, era
piccola e fragile, ma possedeva degli occhi scuri e sensuali
capaci di far dimenticare a un uomo, per un breve istante, il
freddo, la fame che divorava le viscere, o il peso della creatura tra le braccia. Jens Friis aveva dieci anni in più di lei ed era preoccupato per la sicurezza di sua moglie se i soldati bolscevichi avessero visto il suo splendido viso. Piegò la testa e diede un bacio sulla fronte.
«Lo scopriremo presto» disse.
La barba rossiccia sulle guance non rasate grattò le labbra screpolate di Valentina, che però fu felice del contatto e si inebriò del profumo del suo corpo non lavato. Le ricordava che non era morta, che non era finita all’inferno. Perché era proprio quello che sembrava. Sia da sveglia che nel sonno era tormentata dal pensiero che questo viaggio da incubo per migliaia di chilometri di neve e ghiaccio potesse andare avanti per l’eternità come dannazione per aver disobbedito ai genitori. All’improvviso la grande porta scorrevole del vagone si aprì e delle voci spaventose gridarono: «Vse is vagona, bistro.»
Fuori dal vagone.
La luce accecò Valentina. Ce n’era così tanta. Era stata per lungo tempo al buio nel vagone e la luce piombò su di lei dall’enorme arco del cielo, riflettendosi sulla neve e abbagliandola. Sbatté forte le palpebre e si sforzò di mettere a fuoco la scena.
Ciò che vide le gelò il cuore.
Una fila di fucili. Tutti puntati sui passeggeri coperti di stracci mentre scendevano dal treno e si accalcavano in gruppi pieni di angoscia, i cappotti stretti contro il freddo e la paura. Jens si allungò per aiutare la donna anziana a scendere dal vagone, ma prima che riuscisse a prenderle la mano, venne spinta da dietro e finì con la faccia nella neve. Non emise suono, non pianse. Ma subito venne trascinata in piedi dal soldato che aveva spalancato la porta e venne strattonata come avrebbe fatto un cane con un osso. Valentina scambiò uno sguardo con il marito. Senza dirsi una parola, fecero scivolare la bambina dalle spalle di Jens e la misero in mezzo a loro, nascondendola con i lembi dei cappotti lunghi mentre si muovevano insieme.
«Mamma?» Non fu che un sussurro. Nonostante avesse solo cinque anni, la bambina aveva già imparato quando bisognava rimanere in silenzio. Immobili.
«Zitta, Lydia» mormorò Valentina, ma non riuscì a resistere e abbassò lo sguardo verso la figlia. Tutto ciò che vide fu un paio di grandi occhi castani in un viso a forma di cuore e bianco come le ossa e due piedini negli stivali sprofondati nella neve. Si schiacciò contro suo marito e il viso scomparve del tutto. Solo la manina stretta alla sua le faceva capire che non era così. Il georgiano aveva ragione. Il posto in cui si trovavano era davvero in mezzo al nulla. Un paesaggio dimenticato da Dio. Non c’era nulla, solo neve e ghiaccio e qualche nera roccia isolata battuta dal vento. In lontananza si intravedeva un gruppo di alberi scheletrici come a ricordare che la vita era possibile persino lì. Ma non era un posto in cui vivere. E neanche un posto in cui morire. Gli uomini a cavallo non sembravano far parte di un esercito. Non erano neanche lontanamente paragonabili agli eleganti ufficiali che Valentina era abituata a vedere nelle sale da ballo nelle troika di San Pietroburgo o a pattinare sul ghiaccio su la Neva sfoggiando le loro uniformi nuove e i loro modi impeccabili. Questi uomini erano diversi, erano estranei a quel mondo elegante che si era lasciata alle spalle. Questi uomini erano ostili, pericolosi. Una cinquantina di loro si erano distribuiti per la lunghezza del treno, stavano all’erta ed erano affamati come lupi. Indossavano dei pastrani contro il freddo, alcun grigi, altri neri e uno verde opaco intenso. Ma tutti stringevano tra le braccia lo stesso fucile a canna lunga e avevano lo stesso sguardo fanatico pieno di odio.
«Bolscevichi» mormorò Jens a Valentina mentre venivano radunati in un gruppo in cui il mormorio delle preghiere risuonava come lacrime. «Cappuccio in testa e mani nascoste.»
«Le mani?»
«Sì.»
«Perché le mani?»
«Il compagno Lenin vuole vederle segnate e ruvide per gli anni passati in quello che chiama onesto lavoro.» Le toccò il braccio con fare protettivo. «Non credo che valga suonare il pianoforte, tesoro.»
Valentina annuì col capo, sollevò il cappuccio sopra la testa e mise in tasca la mano libera. I guanti, i suoi guanti di zibellino una volta stupendi, erano stati ridotti a brandelli durante i mesi nella foresta, al tempo in cui si spostavano a piedi di notte, mangiando vermi e licheni di giorno. Tutto quello che aveva era ridotto a brandelli, non solo i guanti.
«Jens,» disse con voce bassa «non voglio morire.»
Lui scosse la testa con veemenza e con la mano libera indicò il soldato alto a cavallo che era chiaramente il comandante, quello con il pastrano verde.
«È lui che deve morire per aver condotto i contadini a questa follia di massa che sta dilaniando la Russia. Gli uomini
come lui danno libero sfogo alla brutalità. Altro che giustizia,
come la chiamano loro.»
In quel momento l’ufficiale gridò un ordine e altri soldati
scesero da cavallo. I calci dei fucili colpirono le persone in
15faccia e risuonarono contro le loro schiene. Mentre il treno
soffiava nell’area deserta, i soldati spingevano e schiacciavano il carico di centinaia di deportati in un cerchio stretto a
una cinquantina di metri dai binari della ferrovia. Poi rubarono tutto ciò che trovarono nei vagoni.
«No, vi prego, no» gridò un uomo vicino a Valentina mentre un mucchio di coperte a brandelli e un piccolo fornello per cucinare venivano gettati fuori da uno dei vagoni anteriori. Le lacrime gli solcavano le guance. Valentina allungò una mano e gliela appoggiò sulla spalla. Nessuna parola poteva essere d’aiuto. Intorno a lei i volti disperati erano grigi e tesi. Davanti a ogni vagone il mucchio di miseria cresceva a mano a mano che gli oggetti accumulati con cura venivano lanciati nella neve e incendiati. Le fiamme, alimentate dal carbone della locomotiva e da qualche spruzzo di vodka, divorarono anche gli ultimi brandelli di autostima. I vestiti, le coperte, le fotografie, una decina di icone della Vergine Maria e addirittura una miniatura dello zar Nicola II. Tutto venne carbonizzato, bruciato e ridotto in cenere.
«Siete dei traditori. Tutti voi. Traditori del vostro Paese.»
L’accusa venne dall’ufficiale alto con il pastrano verde. Sebbene non avesse mostrine, eccetto un distintivo con due sciabole incrociate sul berretto con la visiera, non c’erano dubbi sulla sua autorità. Montava un cavallo robusto e muscoloso, che riusciva a controllare senza sforzo dandogli dei colpetti con il tacco. Aveva gli occhi scuri e impazienti, come se il carico di Russi Bianchi rappresentasse per lui un compito ripugnante.
«Nessuno di voi merita di vivere» disse freddo. Un profondo lamento salì dalla folla che vacillò per lo shock. Alzò la voce. «Ci avete sfruttato. Maltrattato. Credevate che non sarebbe mai arrivato il momento in cui avreste dovuto rispondere a noi, al popolo della Russia. Ma vi sbagliavate. Eravate ciechi. Dov’è tutta la vostra ricchezza? Dove sono adesso le vostre belle case e i vostri cavalli? È finito il tempo dello zar e io vi giuro che...» Una voce si sollevò da qualche parte al centro della folla.
«Dio benedica lo zar. Dio protegga i Romanov.»
Riecheggiò uno sparo. Il fucile rinculò nelle mani dell’ufficiale. Una figura nella fila davanti cadde al suolo, una macchia scura sulla neve.
«Quell’uomo ha pagato per la vostra disonestà.» Il suo sguardo ostile percorse con disprezzo la folla impietrita.
«Voi e tutti quelli come voi altro non eravate che parassiti sulle spalle dei lavoratori affamati. Avete creato un mondo fatto di crudeltà e tirannia in cui i ricchi voltavano le spalle ai lamenti dei poveri. E ora abbandonate il vostro Paese, come topi che scappano da una nave in fiamme. E avete il coraggio di portare con voi la gioventù della Russia.» Spostò il cavallo da un lato e si allontanò dalla schiera di facce scarne. «Ora consegnerete i vostri oggetti di valore.»
Fece un cenno col capo e i soldati iniziarono a muoversi tra i prigionieri. Sistematicamente si impossessarono di gioielli, orologi, portasigari in argento, qualsiasi cosa che avesse un minimo di valore, compresi tutti i tipi di monete. Mani insolenti rovistarono i vestiti, sotto le braccia, nelle bocche e addirittura tra i seni, alla ricerca degli oggetti nascosti con cura che per i proprietari significavano la sopravvivenza.
Valentina perse l’anello di smeraldo che aveva nascosto nell’orlo del suo vestito, mentre a Jens venne tolta persino la moneta d’oro che aveva nascosto nello stivale. Quando tutto finì, la folla rimase in piedi in silenzio, si sentiva solo il suono dei singhiozzi soffocati. Privati della speranza, non avevano più voce. L’ufficiale era invece compiaciuto. L’espressione di disgusto aveva abbandonato il suo viso. Si voltò e diede un ordine secco all’uomo a cavallo dietro di lui. Un gruppo di soldati a cavallo iniziò subito a farsi strada nella folla, dividendola e creando scompiglio. Valentina strinse la manina della figlia e le fu chiaro che Jens sarebbe morto prima di lasciare l’altra. La bambina emise un urlo soffocato quando un grosso baio fece un balzo posando gli zoccoli ferrati pericolosamente vicino a loro, ma per il resto resisté con forza e non emise altro suono.
«Cosa stanno facendo?» chiese Valentina.
«Prelevano gli uomini. E i bambini.»
«Oh mio dio, no.»
Suo marito aveva ragione. Solo gli anziani e le donne venivano risparmiati. Tutti gli altri erano smistati e radunati da un’altra parte. Grida di angoscia si disperdevano per la terra desolata mentre dal lato opposto del treno un lupo procedeva lentamente, attirato dall’odore del sangue.
«Jens, no, non lasciare che ti portino via. Né te né lei» supplicò Valentina.
«Papà?» Un piccolo viso spuntò tra loro due.
«Fai silenzio, tesoro.»
Il calcio di un fucile batté sulla spalla di Jens un attimo dopo che ebbe sistemato il cappotto sulla testa della figlia. Barcollò, ma riuscì a rimanere saldo coi piedi per terra.
«Tu. Da quella parte.» Sembrava che il soldato a cavallo stesse cercando ardentemente una scusa per premere il grilletto. Era molto giovane. Molto nervoso. Jens tenne duro. «Non sono russo.» Mise la mano nella tasca interna del cappotto, muovendola molto lentamente per non innervosire il soldato e tirò fuori il suo passaporto.
«Vede,» disse Valentina con insistenza «mio marito è danese.»
Il soldato aggrottò le sopracciglia, incerto sul da farsi. Ma il suo comandante aveva lo sguardo acuto e si era accorto subito dell’esitazione. Lanciò il cavallo in mezzo alla folla in panico e raggiunse il giovane soldato.
«Grodensky, che succede? Perché sta perdendo tempo?» chiese.
Non era il soldato ad attirare il suo sguardo, bensì Valentina. Aveva inclinato il viso per parlare con il soldato a cavallo e il cappuccio le era caduto indietro, mostrando capelli
lunghi e scuri e la fronte alta dalla pelle bianca e perfetta. Mesi di fame le avevano accentuato gli zigomi, gli occhi erano diventati enormi per il suo viso. L’ufficiale scese da cavallo. Da vicino si accorsero che era più giovane di quanto sembrava, doveva avere meno di quarant’anni, ma aveva gli occhi di un uomo molto più anziano. Prese il passaporto e lo esaminò brevemente, spostando lo sguardo da Valentina a Jens e poi ancora su Valentina.
«Ma voi,» disse in modo brusco a Valentina «voi siete russa?»
Dietro di loro iniziavano a sentirsi degli spari.
«Per nascita, sì,» rispose senza voltare la testa nella direzione del suono «ma ora sono danese, per matrimonio.»
Voleva avvicinarsi al marito per nascondere meglio la bambina tra di loro, ma non osava muoversi. Strinse solo le dita attorno alla mano fredda della figlia.
All’improvviso l’ufficiale colpì Jens allo stomaco con il fucile e lui si piegò in due emettendo un grido di dolore. Subito un secondo colpo dietro la testa lo fece cadere a terra sulla neve. Il sangue schizzò sulla superficie ghiacciata.
Valentina strillò.
Sentì immediatamente la piccola mano liberarsi dalla sua e vide la figlia gettarsi sulle gambe dell’ufficiale con la ferocia di un gatto selvatico che soffia, morde e graffia inferocito.
Come al rallentatore, vide il calcio del fucile abbassarsi in direzione della testa della bambina.
«No!» gridò, e prese la bambina tra le braccia prima che venisse colpita. Ma qualcuno di più forte le strappò il corpicino dalle mani.
«No, no, no!» gridò. «È una bambina danese. Non è russa.»
«Lei è russa» insisté l’ufficiale tirando fuori la rivoltella.
«Lotta come una russa.» Con indifferenza posizionò la canna della pistola al centro della fronte della bambina. La bambina rimase immobile. Solo i suoi occhi rivelavano la paura. La sua piccola bocca era chiusa ermeticamente.
«Non uccidetela, vi prego» supplicò Valentina. «Vi prego, non uccidetela. Farò... qualsiasi cosa... qualsiasi. Ma risparmiatela.»
Si sentì un lamento profondo venire dalla figura piegata del marito che era a terra ai suoi piedi.
«Vi prego» supplicò dolcemente. Si slacciò il primo bottone del cappotto senza distogliere lo sguardo dal viso dell’ufficiale. «Qualsiasi cosa.»
Il comandante bolscevico allungò una mano e le toccò i capelli, le guance, la bocca. Lei trattenne il fiato sperando di accendere il desiderio nell’ufficiale. E per un breve istante fu certa di esserci riuscita. Ma quando lui si guardò attorno e vide i suoi uomini fissarli, tutti con il desiderio di lei impresso negli occhi, sperando di poterne approfittare a loro volta, scosse la testa.
«No. Non ne vale la pena. Neanche per i dolci baci delle tue splendide labbra. No. Si creerebbero troppi problemi tra le mie truppe.» Alzò le spalle. «Peccato.» Le sue dita strinsero il grilletto. «Lasciate che compri la sua libertà» disse in fretta Valentina. Si voltò per guardarla aggrottando le folte sopracciglia. Valentina disse di nuovo: «Lasciate che compri mia figlia. E mio marito.»
Lui rise. I soldati fecero eco a quel suono duro. «Con cosa?»
«Con questi» Valentina si mise due dita in gola e si piegò mentre uno schizzo di bile calda saliva dallo stomaco vuoto.
In mezzo alla macchia giallognola di liquido che si disperse sulla neve c’erano due piccoli pacchetti di cotone, non più grandi di una nocciola. A un gesto dell’ufficiale, un soldato con la barba li raccolse e glieli porse. Sporchi e umidi, i due pacchetti stavano al centro del suo guanto nero. Valentina si avvicinò. «Diamanti» disse con orgoglio.
Aprì i pacchetti velocemente e vide quelle che sembravano due pepite di ghiaccio brillante che luccicavano nella sua direzione. Valentina vide il volto del comandante riempirsi di avidità. «Uno per comprare mia figlia. L’altro per mio marito.»
«Ma io me li prenderò in ogni caso. Tu li hai già persi.»
«Lo so.»
All’improvviso lui sorrise. «Molto bene. Possiamo trattare. Dato che io ho i diamanti e tu sei molto bella, ti puoi tenere la mocciosa.» Lydia venne spinta tra le braccia di Valentina e si aggrappò a lei come se volesse entrare nel suo corpo.
«E anche mio marito» insisté Valentina.
«Tuo marito ce lo teniamo.»
«No, no. Per l’amor di dio, io...»
Ma a quel punto i cavalli arrivarono in rinforzo. Formarono un muro compatto che riportava le donne e gli uomini anziani sul treno. Lydia gridò tra la braccia di Valentina: «Papà, papà...» Le lacrime iniziarono a scenderle lungo le guance magre mentre vedeva il corpo del padre che veniva trascinato via. Valentina non riusciva a trovare le lacrime. Solo un senso di vuoto gelido dentro di lei, desolato ed esanime come la terra che si stendeva all’esterno. Si sedette sul pavimento del carro bestiame che puzzava di sporco, la schiena contro il legno della parete. Stava scendendo la notte e l’aria era così fredda che faceva quasi male respirare, ma non se ne rese conto. Aveva la testa piegata e i suoi occhi non vedevano nulla. Attorno a lei, il suono del dolore riempiva gli spazi vuoti. Il ragazzo con i capelli biondi e sporchi non c’era più, come neanche l’uomo che era così sicuro che l’Armata Bianca sarebbe arrivata a liberarli. Le donne piangevano per la perdita dei mariti, dei figli e delle figlie e fissavano l’unica bambina di tutto il treno celando la loro invidia. Valentina aveva stretto il cappotto attorno a sé e a Lydia, ma poteva ancora sentire la figlia tremare.
«Mamma,» sussurrò la bambina «papà tornerà?»
«No.»
Era la ventesima volta che le faceva la stessa domanda,come se sperasse di poter cambiare la risposta. Al buioValentina sentì il piccolo corpo tremare.Prese tra le mani il viso freddo della bambina e le disse forte: «Ma noi sopravvivremo, tu e io. La sopravvivenza è tutto.»
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