domenica 31 luglio 2011

On my wishlist (12)

Hosted by Book Chick City


Buona domenica! Torna la nostra rubrica bisettimanale concentrata sui libri della mia lista dei desideri, quelli che spero prima o poi di leggere e che voglio proporvi. La rubrica è suddivisa in due categorie: i classici -giacché c'è sempre un classico nella mia lista dei desideri- e i "contemporanei", almeno uno dei quali è quasi sempre letteratura per adulti (non nell'accezione del paranormal romance, mi riferisco alla letteratura italiana o internazionale non destinata ad un pubblico "young"). Quelli di questa settimana sono un Murakami (un altro... sono tutti nella mia lista dei desideri i suoi libri, ma non ne ho ancora comprato nemmeno uno), l'antologia di racconti di Joyce -che non ho mai letto- Gente di Dublino e Ternitti quest'anno finalista al premio Strega.

Tra i classici:
Gente di Dublino - James Joyce
Considerati tra i capolavori della letteratura del Novecento, questi quindici racconti - terminati nel 1906 ma pubblicati soltanto nel 1914 perché per la loro audacia e realismo gli editori li rifiutarono - compongono un mosaico unitario che rappresenta le tappe fondamentali della vita umana: l'infanzia, l'adolescenza, la maturità, la vecchiaia, la morte. Fa da cornice a queste vicende la magica capitale d'Irlanda, Dublino, con la sua aria vecchiotta, le birrerie fumose, il vento freddo che spazza le strade, i suoi bizzarri abitanti. Una città che, agli occhi e al cuore di Joyce, è in po' il precipitato di tutte le città occidentali del nostro secolo.




Tra i contemporanei:

Haruki Murakami - Norwegian Wood
Uno dei più clamorosi successi letterari giapponesi di tutti i tempi è anche il libro più intimo, introspettivo di Murakami, che qui si stacca dalle atmosfere oniriche e surreali che lo hanno reso famoso, per esplorare il mondo in ombra dei sentimenti e della solitudine. Norwegian Wood è anche un grande romanzo sull'adolescenza, sul conflitto tra il desiderio di essere integrati nel mondo degli "altri" per entrare vittoriosi nella vita adulta e il bisogno irrinunciabile di essere se stessi, costi quel costi. Come il giovane Holden, Toru è continuamente assalito dal dubbio di aver sbagliato o poter sbagliare nelle sue scelte di vita e di amore, ma è anche guidato da un ostinato e personale senso della morale e da un'istintiva avversione per tutto ciò che sa di finto e costruito. Diviso tra due ragazze, Naoko e Midori, che lo attirano entrambe con forza irresistibile, Toru non può fare altro che decidere. O aspettare che la vita (e la morte) decidano per lui.


Ternitti - Mario Desiati
È il 1975. Mimì Orlando ha quindici anni quando è costretta a lasciare la Puglia dorata per seguire il padre nella grande fabbrica svizzera che produce lu ternitti: l'eternit, promessa di ricchezza per migliaia di emigranti. Per Mimì quelli al Nord sono gli anni del vetro, del freddo che ghiaccia le cose e le persone. Ma anche quelli della passione segreta per Ippazio, diciotto anni, tra le dita già corrose dall'amianto un fiammifero acceso nella notte per rubare uno sguardo, un istante d'amore... Anni Novanta. Mimì è di nuovo in Puglia. Ha una figlia adolescente, Arianna, poco più giovane di lei. Ma accanto a loro non ci sono uomini, per Arianna non c'è un padre. Madre anticonformista e leale, compagna indomita per le sue colleghe in fabbrica e per tutti coloro che accompagna fino alla soglia dell'ultimo respiro roso dal mesotelioma da amianto, è una donna che sa parlare con le proprie inquietudini e paure ma anche - ascoltando le voci degli antenati che sempre la accompagnano - guardare al futuro senza piegarsi mai. "Ternitti" in dialetto significa anche tetto, e il destino vorrà che questa parola sia il sigillo di una vita intera: proprio su un tetto, finalmente a contatto col cielo, Mimì saprà riscattare la sua gente e forse anche il suo amore. La vicenda di un popolo tenace, la tragedia del lavoro che nutre e uccide, la meschinità di un uomo e la fierezza di una donna: tutto si compone con la semplice necessità delle umane cose in un romanzo luminoso e maturo.

venerdì 29 luglio 2011

Novità Perfezione, storia di un tradimento

Oggi in libreria ho notato un volume uscito due settimane fa per Giunti, passato praticamente inosservato per il web nonostante quella che mi sembra una trama interessante. Perfezione.Storia di un tradimento di Julia Metz, in vendita a 15.00 euro per 384 pagine, è il racconto di Julie, vedova di un uomo che scopre aver odiato e che rinascerà dalle sue ceneri, al di là di tutto.

Una vita perfetta che è tutta una bugia. Una donna che impara sulla propria pelle a ricostruirsi un futuro.

Perfezione.Storia di un tradimento - Julia Metz
Quando Julie scopre che l’uomo con cui è stata sposata per sedici anni non è affatto la persona che credeva, è troppo tardi per ottenere risposte. Un improvviso arresto cardiaco ha infatti stroncato la vita di Henry qualche mese prima. Di lui rimangono solo la nostalgia di un amore puro, la rabbia per la vita che ha taciuto e un grande senso di impotenza. Chi era davvero Henry, il marito e il padre affettuoso che stava scrivendo un romanzo sull’umami, la parola giapponese che significa perfezione? E come è possibile amare per tanto tempo una persona e non sapere chi è realmente? Come in un film fuori fuoco, Julie è costretta a riavvolgere il nastro e cercare di capire. Tassello dopo tassello, attraverso le parole sconosciute appuntate su un diario, attraverso il sesso, che sembra l’unico modo per rimettersi in gioco, e attraverso tutte le persone del presente e del passato che hanno dimostrato o finto di nutrire amicizia per lei, Julie inizia il suo viaggio alla ricerca di se stessa e di una nuova felicità. Un viaggio duro, lungo e doloroso che, come spesso accade, è il preludio – se non della perfezione – di una commovente e straordinaria rinascita.
Con una precisione lapidaria che scandisce il tempo della vita, Julie Metz racconta una storia autentica che non può lasciare indifferenti.

«Mi tornarono in mente tutte le volte negli ultimi anni in cui non avevo voluto fare sesso con Henry. Avevo provato repulsione per lui, c’era qualcosa di non sincero, di viscido che non riuscivo a capire, avevo come la sensazione che ci fosse un estraneo dentro al corpo dell’uomo che conoscevo da sedici anni. Anche baciarlo era come sentirmi violata. Mi ero negata sessualmente per salvaguardare me stessa dall’inganno che il mio corpo percepiva. Ora potevo essere onesta. Lo odiavo. Lo detestavo. E lo amavo ancora. »


«Un libro meraviglioso. Julie Metz racconta con freschezza e candore una storia sorprendente e dolorosa.»
The New York Times

«Il lettore resterà ipnotizzato
USA Today

«Commovente e trionfante.»
Glamour

«Lirico, trascinante, avvincente.»
Redbook



Julie Metz
Julie Metz è graphic designer e ha scritto articoli per Glamour e per il New York Times. Vive a Brooklyn con la sua famiglia. Perfezione, il suo primo libro, è stato un vero successo del passaparola.


Il tempio degli Otaku... Ventitreesimo appuntamento "Planetes"


Scritto da Surymae Rossweisse

Salve a tutti, e benvenuti alla ventitreesima puntata de “Il tempio degli Otaku”. Per una volta tanto oggi non dobbiamo andare molto indietro nel tempo: ci basta andare nel 2001, quando un giovane mangaka, Makoto Yukimura, pubblicava la sua opera di debutto, appunto quella di cui parleremo stavolta. In Giappone fece un discreto successo, arrivando a vincere per ben due volte un prestigioso premio di fantascienza giapponese, e venne anche adattato in anime, cosa che capita in genere a titoli popolari o comunque aventi una certa presa sul pubblico.
E in Italia? Stendiamo un velo pietoso. Di quel successo abbiamo avuto solo echi lontani, e l'anime è stato sì acquistato, ma soltanto per essere trasmesso su un canale di nicchia disperso da qualche parte nella piattaforma Sky. Il motivo di questo trattamento? Chissà. A volte capita che ci siano alcune opere un po' sfortunate, vuoi perché il pubblico non è attirato, vuoi perché – come in questo caso – chi di dovere non ha fatto proprio tutto il possibile per promuoverle. Ma è anche a questo che servono rubriche come la mia, no? Quindi ecco a voi “Planetes” di Makoto Yukimura.

Il manga è formato da quattro volumi costituiti da capitoli conclusivi, che raccontano le vicende di alcuni astronauti. Siamo nel 2075, e la colonizzazione spaziale è ormai diventata una pratica consolidata. Tutti questi viaggi, però, lasciano detriti che se accumulati potrebbero creare danni a navi e satelliti. Di conseguenza, qualcuno deve per forza raccoglierli.
A questo pensa una multinazionale, la Technora Corporation, e la sua Sezione Debris. A farne parte, in particolare, sono Hachirota “Hachimaki” Hoshino, il principale protagonista del manga e figlio a sua volta di un astronauta; il russo Yuri Mihalkov, interessato ai detriti per ragioni personali; la leader del gruppo Fee Carmicheal – quando non è occupata a cercare posti dove poter fumare – e in seguito la dolce Ai Tanabe. Il manga li segue svolgerli con dedizione il loro lavoro; ammesso che problemi personali e minacce terroristiche glielo permettano...

Personalmente, il formato a storie conclusive non mi attira molto. La trama principale – sempre labile, in questi casi – è così labile che lasciare il passo ai filler è un gioco da ragazzi. La conseguenza? La fine della storia si allontana sempre di più, con il rischio di rovinare quello che sarebbe potuto essere un buon manga. La libertà di manovra del mangaka, quindi, si rivela un'arma a doppio taglio.
Per fortuna questo non è il caso di Planetes. Il formato autoconclusivo non si estende a macchia d'olio su ogni minima sfaccettatura della vicenda principale, ma seleziona pochi temi e personaggi su cui concentrarsi. Fate ciao con la manina, quindi, a tutte quelle vagonate di filler riguardanti personaggi più-che-secondari alle prese con vicende talmente noiose da poter essere consigliate agli insonni. E menomale!
Per quanto riguarda l'ambientazione fantascientifica del manga, è piuttosto credibile e realistica, rendendo così evidente il fatto che Yukimura si è documentato sull'argomento. Le parti più fantastiche non stridono con quelle più scientifiche, al punto che è quasi impossibile notare la differenza. Ad esempio, mi ricordo un anime degli anni '90 in cui si spendevano minuti e minuti a mostrare i sistemi ultra tecnologici di un'organizzazione paramilitare – era ambientato nel 2015 - ma il protagonista ascoltava musica attraverso un arretrato mangianastri. E questa serie è molto, molto, molto più famosa di Planetes...
… Un proverbio dice “pochi ma buoni”. Si potrebbe applicare anche a questo manga, visto che il cast è piuttosto ridotto. Per qualcuno potrebbe essere un demerito, e potrebbe anche pensare che molti dei manga più famosi di sempre hanno tonnellate di personaggi. Vero. Però più personaggi vuol dire dividere lo spazio per tutti loro per caratterizzarli al meglio. Si crea così un fragile equilibrio tra il dare a tutti la propria vetrina e non favorire nessuno. I personaggi principali di Planetes sono solo quattro. In realtà, come già detto, il protagonista è Hachimaki, ma le storie per gli altri personaggi non mancheranno. Tra un episodio e l'altro, inoltre, quest'ultimo maturerà non poco. Vediamo nei primi capitoli un ragazzo infantile, che fa il suo lavoro solamente per il vanesio desiderio di avere una navicella spaziale tutta per sé, che non sa controllare i propri istinti, arrabbiato con tutto e tutti ma senza un motivo ben preciso. Un protagonista ben lontano dallo stereotipo del buono-perché-sì e dall'idealista, ma una persona molto più vicina al lettore di quanto si possa pensare. Vari incontri ed incidenti, però, lo porteranno a confrontarsi con l'ombra del suo famoso padre, a trovare l'amore, a chiedersi – come tutti coloro che si trovano in mezzo allo spazio infinito, ma soprattutto come tutti noi – del senso della vita e di Dio, arrivando finalmente ad una persona matura. Lo stesso discorso in scala minore vale anche per gli altri membri dell'equipaggio raccogli detriti, a cui viene comunque dedicato parecchio spazio. Ci sono diversi capitoli, ad esempio, sull'infanzia di Tanabe, oppure sulla vita sulla terra di Fee. A Yuri, poi, viene dedicata la prima storia in assoluto, un ottimo biglietto da visita. Anche i personaggi minori, comunque, non si fanno certo mettere in un angolo, comprese alcune comparse come un vecchio astronauta gravemente malato, un terrorista e una ragazza nata e cresciuta sulla luna. Sebbene i momenti comici non manchino, inoltre, non mancano nemmeno temi più seri, come i pro e i contro della colonizzazione spaziale, le malattie fisiche e psichiche degli astronauti, l'inquinamento e la propaganda fatta dai potenti che non si sporcano mai le mani nei confronti di coloro che, invece, si spezzano la schiena ogni giorno senza che vengano mai riconosciuti i loro meriti.

Parliamo adesso del tratto di Yukimura. Personalmente l'ho seguito anche nella sua opera attualmente in corso – preparatevi: non appena finisce (?), avrà il suo venerdì tutta per sé – e devo dire che soltanto in questa il suo stile sboccia completamente. Questo però non vuol dire che in Planetes faccia un pessimo lavoro, anzi. La cura maniacale per i dettagli era presente anche allora, così come l'uso sapiente dei retini – più spesso sostituiti da tratteggi o disegni a mano – il rispetto delle proporzioni, e un gusto nelle inquadrature che doveva ancora maturare, ma che era già più che discreto. Si vedeva, insomma, che le premesse erano buone, sia in campo narrativo che in campo stilistico.

Per oggi è tutto, gente. Arrivederci alla prossima settimana con “Il tempio degli Otaku”!

giovedì 28 luglio 2011

Poems (16) Do Not Go Gentle Into That Good Night


Per questa puntata di Poems ho deciso di riprendere un componimento di Dylan Thomas che ricorre nel libro Matched di Ally Condie,  senza nessuna particolare spiegazione o ricordo a questo legato. E' una bella poesia, punto :)



Do Not Go Gentle Into That Good Night
Non andare docile in quella buona notte,
I vecchi brucino infervorati sul finire del giorno;
Infuriati, infuriati contro il morente bagliore.
Benché i savi infine ammettano ch’era giusta la tenebra
Poiché le loro labbra nessun fulmine scagliarono
Non se ne vanno docili in quella buona notte.
Gli onesti, nell’onda ultima, urlando quanto fulgide
Le fragili opere potevano danzare in verdi anse
Infuriano, infuriano contro il morente bagliore.
I bruti che strinsero e cantarono il sole in volo,
E tardi appresero d’averne afflitto il corso,
Non se ne vanno docili in quella buona notte.
Gli austeri, morenti, scorgendo con vista accecante
Che gli occhi sanno splendere simili a bolidi e gioire
Infuriano, infuriano contro il morente bagliore.
E tu, padre mio, qua sulla triste altura, ti prego,
Condannami, o salvami, ora, con le tue fiere lacrime;
Non andare docile in quella buona notte.
Infuriati, infuriati contro il morente bagliore.
(leggi il testo originale qui)

Chi è l'autore?
Dylan Thomas (Swansea, Galles 1914 - New York 1953) è un poeta britannico, la cui opera poetica, narrativa e teatrale è fortemente legata alle sue radici gallesi. Conclusi gli studi nel 1931, nel 1934 si trasferì a Londra, dove nello stesso anno pubblicò la raccolta poetica d’esordio, Diciotto poesie (1934. Questo primo volume, seguito da Venticinque poesie (1936) e La mappa dell’amore (1939), rivela la predilezione di Thomas per un linguaggio vivido e intimo, in cui l’effetto sonoro delle parole non ha minore importanza del loro significato. Benché a tratti oscura per gli elementi visionari e di suggestione surrealistica che contiene, la sua opera giovanile anticipa i temi della sessualità, della morte, della religione e della redenzione che avrebbero caratterizzato tutta la poesia di Thomas. Molte poesie raccolte in Morti ed entrate (1946) attingono alle esperienze di vita che segnarono lo scrittore durante il conflitto mondiale. Meno votate all’introspezione rispetto alle prime poesie, questa raccolta e Nel paese del sonno (1951) sono di solito considerate le opere più riuscite dell’autore. Tra le altre si ricorda l’insieme di bozzetti autobiografici Ritratto dell’autore da cucciolo (1940)

Anteprima Avevano spento anche la luna

La Garzanti torna con le tematiche forti: il 25 agosto ci attende in libreria Avevano spento anche la luna di Ruta Sepetys, americana figlia di rifugiati lituani che, in questo romanzo ispirato ad una storia vera, affronta la realtà delle deportazioni nei gulag staliniani durante il secolo scorso. Il romanzo (18.60 euro per 304 pagine) è stato unanimemente acclamato da Washington Post, New York Times, The Wall Street Journal e Publishers Weekly, mentre in Italia, ad aprile, Alessandra Furkas, presso il Corriere della sera scrive: "affronta una delle pagine più dolorose della storia moderna". Il libraio ha inoltre organizzato uno Speciale e molte sono le aspettative che si stanno creando attorno a quello che, sembra, sia un romanzo crudo ma sincero. 



Mi hanno tolto tutto. 
Mi hanno lasciato soltanto il buio e il freddo. 
Ma io voglio vivere. 
A ogni costo.

Lina ha appena compiuto quindici anni quando scopre che basta una notte, una sola, per cambiare il corso di tutta una vita. Quando arrivano quegli uomini e la costringono ad abbandonare tutto. E a ricordarle chi è, chi era, le rimangono soltanto una camicia da notte, qualche disegno e la sua innocenza. È il 14 giugno del 1941 quando la polizia sovietica irrompe con violenza in casa sua, in Lituania. 
Lina, figlia del rettore dell'università, è sulla lista nera, insieme a molti altri scrittori, professori, dottori e alle loro famiglie. Sono colpevoli di un solo reato, quello di esistere. Verrà deportata. Insieme alla madre e al fratellino viene ammassata con centinaia di persone su un treno e inizia un viaggio senza ritorno tra le steppe russe. Settimane di fame e di sete. Fino all'arrivo in Siberia, in un campo di lavoro dove tutto è grigio, dove regna il buio, dove il freddo uccide, sussurrando. E dove non resta niente, se non la polvere della terra che i deportati sono costretti a scavare, giorno dopo giorno. 
Ma c'è qualcosa che non possono togliere a Lina. La sua dignità. La sua forza. La luce nei suoi occhi. E il suo coraggio. Quando non è costretta a lavorare, Lina disegna. Documenta tutto. Deve riuscire a far giungere i disegni al campo di prigionia del padre. È l'unico modo, se c'è, per salvarsi. Per gridare che sono ancora vivi. Lina si batte per la propria vita, decisa a non consegnare la sua paura alle guardie, giurando che, se riuscirà a sopravvivere, onererà per mezzo dell'arte e della scrittura la sua famiglia e le migliaia di famiglie sepolte in Siberia. Ispirato a una storia vera, Avevano spento anche la luna spezza il silenzio su uno dei più terribili genocidi della storia, le deportazioni dai paesi baltici nei gulag staliniani. Venduto in ventotto paesi, appena uscito in America è balzato in testa alle classifiche del «New York Times». Definito all'unanimità da librai, lettori, giornalisti e insegnanti un romanzo importante e potente, racconta una storia unica e sconvolgente, che strappa il respiro e rivela la natura miracolosa dello spirito umano, capace di sopravvivere e continuare a lottare anche quando tutto è perso.


«Avevano spento anche la luna è un romanzo duro e poetico al tempo stesso. Un'opportunità per colmare un vuoto troppo a lungo dimenticato.»
«The Wall Street Journal»

«I commenti entusiastici dei librai dimostrano la potenza di questo romanzo.»
«Publishers Weekly» 

«Pochi libri sono ben scritti, pochissimi sono importanti, questo romanzo è entrambe le cose.»
«The Washington Post» 

«Morirono più di venti milioni di persone. Ma c'è ancora chi nega questa realtà. Ruta Sepetys, figlia di un rifugiato lituano, dimostra che la verità è un'altra. Commovente. Un romanzo importante, che merita il maggior pubblico possibile.»
«Booklist»




Ruta Sepetys
Ruta Sepetys è nata in Michigan, da una famiglia di rifugiati lituani. Non ha mai dimenticato le sue origini e la storia della sua famiglia. Per questo è andata in Lituania, nel tentativo di recuperare la memoria paterna. Per scrivere Avevano spento anche la luna le ricerche sono state impegnative e l'hanno portata a visitare i campi di lavoro in Siberia e a conoscere storici e tantissimi sopravvissuti, che l'hanno aiutata a descrivere i particolari più importanti di quel passato di atrocità.

mercoledì 27 luglio 2011

Primo capitolo La concubina russa

Vi avevo segnalato l'uscita de La concubina russa di Kate Funivall qualche giorno fa, adesso la Leggereditore mette a disposizione il primo capitolo di questo promettente romanzo, che potrete trovare il libreria da domani.





1

Russia, dicembre 1917

Il treno si fermò bruscamente. La locomotiva ansimante soffiò nel cielo bianco una nube di vapore grigiastro, mentre i ventiquattro vagoni merci sbattevano e sferragliavano sbandando e stridendo fino a fermarsi. Il suono dei cavalli e degli ordini gridati riecheggiava nella quiete del paesaggio desolato e ricoperto di ghiaccio.
«Perché ci siamo fermati?» sussurrò Valentina Friis a suo marito.
Il suo respiro formò una cortina di ghiaccio tra loro due. Esausta, aveva l’impressione che il suo respiro fosse l’unica parte di lei che ancora aveva la forza di muoversi. Strinse le mani del marito. Questa volta non lo fece per cercare calore, ma perché aveva bisogno di sapere che lui era ancora lì al suo fianco. Il marito scosse la testa, il viso livido dal freddo perché aveva avvolto il cappotto attorno alla bambina che dormiva tra le sue braccia. «Questa non è la fine» disse.
«Promettimelo» disse Valentina con un soffio di voce. Jens sorrise alla moglie e insieme si aggrapparono alla parete di legno grezzo del carro bestiame, gli occhi fissi sulla fessura sottile tra le assi. Tutte le persone intorno a loro facevano lo stesso. Avevano occhi disperati. Occhi che avevano già visto troppo.
«Vogliono farci fuori» disse con voce piatta l’uomo con la barba che si trovava alla destra di Valentina. Aveva un forte accento georgiano e indossava il cappello di astrakan ben calcato sulle orecchie. «Altrimenti per quale motivo ci saremmo fermati in mezzo al nulla?»
«Maria santissima, madre di Dio, proteggi tutti noi.»
Era il lamento di una donna anziana rannicchiata sul pavimento sporco. Aveva addosso così tanti scialli che sembrava un piccolo Buddha grassottello.Ma quegli stracci vecchi e puzzolenti non nascondevano altro se non pelle e ossa.
«No, babushka» disse un’altra voce maschile. Proveniva dalla parte posteriore del vagone dove il vento ghiacciato soffiava incessantemente attraverso le assi portando l’alito della Siberia nei loro polmoni. «No, arriverà il generale Kornilov. Sa che stiamo morendo di fame su questo carro bestiame dimenticato da Dio. Non ci lascerà morire. È un grande comandante.» 
Un mormorio di approvazione si alzò dal gruppo di facce scarne, portando una scintilla di fiducia negli occhi spenti. Un ragazzo con i capelli biondi e sporchi che era rimasto seduto indifferente in un angolo saltò in piedi e iniziò a piangere per il sollievo. Era da tempo che non si sprecavano energie per piangere.
«Prego Dio che tu abbia ragione» disse un uomo dagli occhi infossati con una fasciatura sporca sul moncherino del braccio. Di notte si lamentava incessantemente nel sonno, ma di giorno era silenzioso e teso. «Siamo in guerra» disse bruscamente. «Il generale Lavr Kornilov non può essere ovunque.»
«Ma ti dico che è qui. Vedrai.»
«Jens, secondo te ha ragione?» chiese Valentina voltandosi per guardare il marito. Aveva solo ventiquattro anni, era
piccola e fragile, ma possedeva degli occhi scuri e sensuali
capaci di far dimenticare a un uomo, per un breve istante, il
freddo, la fame che divorava le viscere, o il peso della creatura tra le braccia. Jens Friis aveva dieci anni in più di lei ed era preoccupato per la sicurezza di sua moglie se i soldati bolscevichi avessero visto il suo splendido viso. Piegò la testa e diede un bacio sulla fronte.
«Lo scopriremo presto» disse.
La barba rossiccia sulle guance non rasate grattò le labbra screpolate di Valentina, che però fu felice del contatto e si inebriò del profumo del suo corpo non lavato. Le ricordava che non era morta, che non era finita all’inferno. Perché era proprio quello che sembrava. Sia da sveglia che nel sonno era tormentata dal pensiero che questo viaggio da incubo per migliaia di chilometri di neve e ghiaccio potesse andare avanti per l’eternità come dannazione per aver disobbedito ai genitori. All’improvviso la grande porta scorrevole del vagone si aprì e delle voci spaventose gridarono: «Vse is vagona, bistro.»
Fuori dal vagone.
La luce accecò Valentina. Ce n’era così tanta. Era stata per lungo tempo al buio nel vagone e la luce piombò su di lei dall’enorme arco del cielo, riflettendosi sulla neve e abbagliandola. Sbatté forte le palpebre e si sforzò di mettere a fuoco la scena.
Ciò che vide le gelò il cuore. 
Una fila di fucili. Tutti puntati sui passeggeri coperti di stracci mentre scendevano dal treno e si accalcavano in gruppi pieni di angoscia, i cappotti stretti contro il freddo e la paura. Jens si allungò per aiutare la donna anziana a scendere dal vagone, ma prima che riuscisse a prenderle la mano, venne spinta da dietro e finì con la faccia nella neve. Non emise suono, non pianse. Ma subito venne trascinata in piedi dal soldato che aveva spalancato la porta e venne strattonata come avrebbe fatto un cane con un osso. Valentina scambiò uno sguardo con il marito. Senza dirsi una parola, fecero scivolare la bambina dalle spalle di Jens e la misero in mezzo a loro, nascondendola con i lembi dei cappotti lunghi mentre si muovevano insieme.
«Mamma?» Non fu che un sussurro. Nonostante avesse solo cinque anni, la bambina aveva già imparato quando bisognava rimanere in silenzio. Immobili.
«Zitta, Lydia» mormorò Valentina, ma non riuscì a resistere e abbassò lo sguardo verso la figlia. Tutto ciò che vide fu un paio di grandi occhi castani in un viso a forma di cuore e bianco come le ossa e due piedini negli stivali sprofondati nella neve. Si schiacciò contro suo marito e il viso scomparve del tutto. Solo la manina stretta alla sua le faceva capire che non era così. Il georgiano aveva ragione. Il posto in cui si trovavano era davvero in mezzo al nulla. Un paesaggio dimenticato da Dio. Non c’era nulla, solo neve e ghiaccio e qualche nera roccia isolata battuta dal vento. In lontananza si intravedeva un gruppo di alberi scheletrici come a ricordare che la vita era possibile persino lì. Ma non era un posto in cui vivere. E neanche un posto in cui morire. Gli uomini a cavallo non sembravano far parte di un esercito. Non erano neanche lontanamente paragonabili agli eleganti ufficiali che Valentina era abituata a vedere nelle sale da ballo nelle troika di San Pietroburgo o a pattinare sul ghiaccio su la Neva sfoggiando le loro uniformi nuove e i loro modi impeccabili. Questi uomini erano diversi, erano estranei a quel mondo elegante che si era lasciata alle spalle. Questi uomini erano ostili, pericolosi. Una cinquantina di loro si erano distribuiti per la lunghezza del treno, stavano all’erta ed erano affamati come lupi. Indossavano dei pastrani contro il freddo, alcun grigi, altri neri e uno verde opaco intenso. Ma tutti stringevano tra le braccia lo stesso fucile a canna lunga e avevano lo stesso sguardo fanatico pieno di odio.
«Bolscevichi» mormorò Jens a Valentina mentre venivano radunati in un gruppo in cui il mormorio delle preghiere risuonava come lacrime. «Cappuccio in testa e mani nascoste.»
«Le mani?»
«Sì.»
«Perché le mani?»
«Il compagno Lenin vuole vederle segnate e ruvide per gli anni passati in quello che chiama onesto lavoro.» Le toccò il braccio con fare protettivo. «Non credo che valga suonare il pianoforte, tesoro.»
Valentina annuì col capo, sollevò il cappuccio sopra la testa e mise in tasca la mano libera. I guanti, i suoi guanti di zibellino una volta stupendi, erano stati ridotti a brandelli durante i mesi nella foresta, al tempo in cui si spostavano a piedi di notte, mangiando vermi e licheni di giorno. Tutto quello che aveva era ridotto a brandelli, non solo i guanti.
«Jens,» disse con voce bassa «non voglio morire.»
Lui scosse la testa con veemenza e con la mano libera indicò il soldato alto a cavallo che era chiaramente il comandante, quello con il pastrano verde.
«È lui che deve morire per aver condotto i contadini a questa follia di massa che sta dilaniando la Russia. Gli uomini
come lui danno libero sfogo alla brutalità. Altro che giustizia,
come la chiamano loro.»
In quel momento l’ufficiale gridò un ordine e altri soldati
scesero da cavallo. I calci dei fucili colpirono le persone in
15faccia e risuonarono contro le loro schiene. Mentre il treno
soffiava nell’area deserta, i soldati spingevano e schiacciavano il carico di centinaia di deportati in un cerchio stretto a
una cinquantina di metri dai binari della ferrovia. Poi rubarono tutto ciò che trovarono nei vagoni.
«No, vi prego, no» gridò un uomo vicino a Valentina mentre un mucchio di coperte a brandelli e un piccolo fornello per cucinare venivano gettati fuori da uno dei vagoni anteriori. Le lacrime gli solcavano le guance. Valentina allungò una mano e gliela appoggiò sulla spalla. Nessuna parola poteva essere d’aiuto. Intorno a lei i volti disperati erano grigi e tesi. Davanti a ogni vagone il mucchio di miseria cresceva a mano a mano che gli oggetti accumulati con cura venivano lanciati nella neve e incendiati. Le fiamme, alimentate dal carbone della locomotiva e da qualche spruzzo di vodka, divorarono anche gli ultimi brandelli di autostima. I vestiti, le coperte, le fotografie, una decina di icone della Vergine Maria e addirittura una miniatura dello zar Nicola II. Tutto venne carbonizzato, bruciato e ridotto in cenere.
«Siete dei traditori. Tutti voi. Traditori del vostro Paese.»
L’accusa venne dall’ufficiale alto con il pastrano verde. Sebbene non avesse mostrine, eccetto un distintivo con due sciabole incrociate sul berretto con la visiera, non c’erano dubbi sulla sua autorità. Montava un cavallo robusto e muscoloso, che riusciva a controllare senza sforzo dandogli dei colpetti con il tacco. Aveva gli occhi scuri e impazienti, come se il carico di Russi Bianchi rappresentasse per lui un compito ripugnante.
«Nessuno di voi merita di vivere» disse freddo. Un profondo lamento salì dalla folla che vacillò per lo shock. Alzò la voce. «Ci avete sfruttato. Maltrattato. Credevate che non sarebbe mai arrivato il momento in cui avreste dovuto rispondere a noi, al popolo della Russia. Ma vi sbagliavate. Eravate ciechi. Dov’è tutta la vostra ricchezza? Dove sono adesso le vostre belle case e i vostri cavalli? È finito il tempo dello zar e io vi giuro che...» Una voce si sollevò da qualche parte al centro della folla.
«Dio benedica lo zar. Dio protegga i Romanov.»
Riecheggiò uno sparo. Il fucile rinculò nelle mani dell’ufficiale. Una figura nella fila davanti cadde al suolo, una macchia scura sulla neve.
«Quell’uomo ha pagato per la vostra disonestà.» Il suo sguardo ostile percorse con disprezzo la folla impietrita.
«Voi e tutti quelli come voi altro non eravate che parassiti sulle spalle dei lavoratori affamati. Avete creato un mondo fatto di crudeltà e tirannia in cui i ricchi voltavano le spalle ai lamenti dei poveri. E ora abbandonate il vostro Paese, come topi che scappano da una nave in fiamme. E avete il coraggio di portare con voi la gioventù della Russia.» Spostò il cavallo da un lato e si allontanò dalla schiera di facce scarne. «Ora consegnerete i vostri oggetti di valore.» 
Fece un cenno col capo e i soldati iniziarono a muoversi tra i prigionieri. Sistematicamente si impossessarono di gioielli, orologi, portasigari in argento, qualsiasi cosa che avesse un minimo di valore, compresi tutti i tipi di monete. Mani insolenti rovistarono i vestiti, sotto le braccia, nelle bocche e addirittura tra i seni, alla ricerca degli oggetti nascosti con cura che per i proprietari significavano la sopravvivenza.
Valentina perse l’anello di smeraldo che aveva nascosto nell’orlo del suo vestito, mentre a Jens venne tolta persino la moneta d’oro che aveva nascosto nello stivale. Quando tutto finì, la folla rimase in piedi in silenzio, si sentiva solo il suono dei singhiozzi soffocati. Privati della speranza, non avevano più voce. L’ufficiale era invece compiaciuto. L’espressione di disgusto aveva abbandonato il suo viso. Si voltò e diede un ordine secco all’uomo a cavallo dietro di lui. Un gruppo di soldati a cavallo iniziò subito a farsi strada nella folla, dividendola e creando scompiglio. Valentina strinse la manina della figlia e le fu chiaro che Jens sarebbe morto prima di lasciare l’altra. La bambina emise un urlo soffocato quando un grosso baio fece un balzo posando gli zoccoli ferrati pericolosamente vicino a loro, ma per il resto resisté con forza e non emise altro suono.
«Cosa stanno facendo?» chiese Valentina.
«Prelevano gli uomini. E i bambini.»
«Oh mio dio, no.»
Suo marito aveva ragione. Solo gli anziani e le donne venivano risparmiati. Tutti gli altri erano smistati e radunati da un’altra parte. Grida di angoscia si disperdevano per la terra desolata mentre dal lato opposto del treno un lupo procedeva lentamente, attirato dall’odore del sangue.
«Jens, no, non lasciare che ti portino via. Né te né lei» supplicò Valentina.
«Papà?» Un piccolo viso spuntò tra loro due.
«Fai silenzio, tesoro.»
Il calcio di un fucile batté sulla spalla di Jens un attimo dopo che ebbe sistemato il cappotto sulla testa della figlia. Barcollò, ma riuscì a rimanere saldo coi piedi per terra.
«Tu. Da quella parte.» Sembrava che il soldato a cavallo stesse cercando ardentemente una scusa per premere il grilletto. Era molto giovane. Molto nervoso. Jens tenne duro. «Non sono russo.» Mise la mano nella tasca interna del cappotto, muovendola molto lentamente per non innervosire il soldato e tirò fuori il suo passaporto.
«Vede,» disse Valentina con insistenza «mio marito è danese.»
Il soldato aggrottò le sopracciglia, incerto sul da farsi. Ma il suo comandante aveva lo sguardo acuto e si era accorto subito dell’esitazione. Lanciò il cavallo in mezzo alla folla in panico e raggiunse il giovane soldato.
«Grodensky, che succede? Perché sta perdendo tempo?» chiese.
Non era il soldato ad attirare il suo sguardo, bensì Valentina. Aveva inclinato il viso per parlare con il soldato a cavallo e il cappuccio le era caduto indietro, mostrando capelli
lunghi e scuri e la fronte alta dalla pelle bianca e perfetta. Mesi di fame le avevano accentuato gli zigomi, gli occhi erano diventati enormi per il suo viso. L’ufficiale scese da cavallo. Da vicino si accorsero che era più giovane di quanto sembrava, doveva avere meno di quarant’anni, ma aveva gli occhi di un uomo molto più anziano. Prese il passaporto e lo esaminò brevemente, spostando lo sguardo da Valentina a Jens e poi ancora su Valentina.
«Ma voi,» disse in modo brusco a Valentina «voi siete russa?»
Dietro di loro iniziavano a sentirsi degli spari.
«Per nascita, sì,» rispose senza voltare la testa nella direzione del suono «ma ora sono danese, per matrimonio.»
Voleva avvicinarsi al marito per nascondere meglio la bambina tra di loro, ma non osava muoversi. Strinse solo le dita attorno alla mano fredda della figlia.
All’improvviso l’ufficiale colpì Jens allo stomaco con il fucile e lui si piegò in due emettendo un grido di dolore. Subito un secondo colpo dietro la testa lo fece cadere a terra sulla neve. Il sangue schizzò sulla superficie ghiacciata.
Valentina strillò.
Sentì immediatamente la piccola mano liberarsi dalla sua e vide la figlia gettarsi sulle gambe dell’ufficiale con la ferocia di un gatto selvatico che soffia, morde e graffia inferocito.
Come al rallentatore, vide il calcio del fucile abbassarsi in direzione della testa della bambina.
«No!» gridò, e prese la bambina tra le braccia prima che venisse colpita. Ma qualcuno di più forte le strappò il corpicino dalle mani.
«No, no, no!» gridò. «È una bambina danese. Non è russa.»
«Lei è russa» insisté l’ufficiale tirando fuori la rivoltella.
«Lotta come una russa.» Con indifferenza posizionò la canna della pistola al centro della fronte della bambina. La bambina rimase immobile. Solo i suoi occhi rivelavano la paura. La sua piccola bocca era chiusa ermeticamente.
«Non uccidetela, vi prego» supplicò Valentina. «Vi prego, non uccidetela. Farò... qualsiasi cosa... qualsiasi. Ma risparmiatela.»
Si sentì un lamento profondo venire dalla figura piegata del marito che era a terra ai suoi piedi.
«Vi prego» supplicò dolcemente. Si slacciò il primo bottone del cappotto senza distogliere lo sguardo dal viso dell’ufficiale. «Qualsiasi cosa.»
Il comandante bolscevico allungò una mano e le toccò i capelli, le guance, la bocca. Lei trattenne il fiato sperando di accendere il desiderio nell’ufficiale. E per un breve istante fu certa di esserci riuscita. Ma quando lui si guardò attorno e vide i suoi uomini fissarli, tutti con il desiderio di lei impresso negli occhi, sperando di poterne approfittare a loro volta, scosse la testa.
«No. Non ne vale la pena. Neanche per i dolci baci delle tue splendide labbra. No. Si creerebbero troppi problemi tra le mie truppe.» Alzò le spalle. «Peccato.» Le sue dita strinsero il grilletto. «Lasciate che compri la sua libertà» disse in fretta Valentina. Si voltò per guardarla aggrottando le folte sopracciglia. Valentina disse di nuovo: «Lasciate che compri mia figlia. E mio marito.»
Lui rise. I soldati fecero eco a quel suono duro. «Con cosa?»
«Con questi» Valentina si mise due dita in gola e si piegò mentre uno schizzo di bile calda saliva dallo stomaco vuoto.
In mezzo alla macchia giallognola di liquido che si disperse sulla neve c’erano due piccoli pacchetti di cotone, non più grandi di una nocciola. A un gesto dell’ufficiale, un soldato con la barba li raccolse e glieli porse. Sporchi e umidi, i due pacchetti stavano al centro del suo guanto nero. Valentina si avvicinò. «Diamanti» disse con orgoglio.
Aprì i pacchetti velocemente e vide quelle che sembravano due pepite di ghiaccio brillante che luccicavano nella sua direzione. Valentina vide il volto del comandante riempirsi di avidità. «Uno per comprare mia figlia. L’altro per mio marito.»
«Ma io me li prenderò in ogni caso. Tu li hai già persi.»
«Lo so.»
All’improvviso lui sorrise. «Molto bene. Possiamo trattare. Dato che io ho i diamanti e tu sei molto bella, ti puoi tenere la mocciosa.» Lydia venne spinta tra le braccia di Valentina e si aggrappò a lei come se volesse entrare nel suo corpo.
«E anche mio marito» insisté Valentina.
«Tuo marito ce lo teniamo.»
«No, no. Per l’amor di dio, io...»
Ma a quel punto i cavalli arrivarono in rinforzo. Formarono un muro compatto che riportava le donne e gli uomini anziani sul treno. Lydia gridò tra la braccia di Valentina: «Papà, papà...» Le lacrime iniziarono a scenderle lungo le guance magre mentre vedeva il corpo del padre che veniva trascinato via. Valentina non riusciva a trovare le lacrime. Solo un senso di vuoto gelido dentro di lei, desolato ed esanime come la terra che si stendeva all’esterno. Si sedette sul pavimento del carro bestiame che puzzava di sporco, la schiena contro il legno della parete. Stava scendendo la notte e l’aria era così fredda che faceva quasi male respirare, ma non se ne rese conto. Aveva la testa piegata e i suoi occhi non vedevano nulla. Attorno a lei, il suono del dolore riempiva gli spazi vuoti. Il ragazzo con i capelli biondi e sporchi non c’era più, come neanche l’uomo che era così sicuro che l’Armata Bianca sarebbe arrivata a liberarli. Le donne piangevano per la perdita dei mariti, dei figli e delle figlie e fissavano l’unica bambina di tutto il treno celando la loro invidia. Valentina aveva stretto il cappotto attorno a sé e a Lydia, ma poteva ancora sentire la figlia tremare.
«Mamma,» sussurrò la bambina «papà tornerà?»
«No.»
Era la ventesima volta che le faceva la stessa domanda,come se sperasse di poter cambiare la risposta. Al buioValentina sentì il piccolo corpo tremare.Prese tra le mani il viso freddo della bambina e le disse forte: «Ma noi sopravvivremo, tu e io. La sopravvivenza è tutto.»


W... w... w... Wednesdays (20)


www...wednesdays è stato creato da MizB di ShouldBeReading


Anche questa settimana è giunto il mercoledì, portando con sè il nuovo appuntamento di W...W...W... Wednesday, rubrica ideata dal blog ShouldBeReading. Partecipare è semplice, basta rispondere a queste 3 domande:

* What are you currently reading? (Cosa stai leggendo?)
* What did you recently finish reading? (Quale libro hai finito di recente?)
* What do you think you’ll read next?(Quale libro pensi sarà la tua prossima lettura?)



Sì lo so. E' la terza volta che, alla domanda su quale sia il prossimo libro che leggerò, rispondo Shadowhunters. Non perché non voglia leggerlo, ma perché c'è sempre qualcosa che vuole la precedenza. Finito Appuntamento a Glenmara, comunque, sarà il prossimo. Giuro. Che poi il prologo è veramente intrigante! Mi aspetto un gran bel libro, e poi magari acquisterò la prima trilogia. La lettura appena terminata è invece, come sapete, Black Friars, di cui potete trovare recensione e giveaway sul blog. 

What are you currently reading?


What did you recently finish reading?


What do you think you’ll read next?

Teaser Tuesdays (32)

"Teaser Tuesdays" 

  • Grab your current read
  • Open to a random page
  • Share two (2) “teaser” sentences from somewhere on that page
  • BE CAREFUL NOT TO INCLUDE SPOILERS! (make sure that what you share doesn’t give too much away! You don’t want to ruin the book for others!)
  • Share the title & author, too, so that other TT participants can add the book to their TBR Lists if they like your teasers!
Ovvero,  per i non-angloleggenti:
  • Prendi il libro che stai leggendo
  • Apri una pagina a caso
  • Copia due pezzi "teaser" da una parte di questa pagina
  • STAI ATTENTO A NON SCRIVERE SPOILERS! (assicurati di non condividere troppe cose! Non si deve rovinare il libro agli altri!)
  • Indica il titolo e l'autore, in modo che gli altri Teaser Tuesday partecipanti possano aggiungerlo alla loro lista dei desideri se il libro è piaciuto



Buonasera! Arrivo tardi perché metà giornata (per la preparazione) e la serata sono stata dedicata al caffé letterario (ringrazio chi è intervenuto) quindi mi prendo le prime ore del nuovo mercoledì per postare la nostra puntata di Teaser tuesday :) Oggi non ho avuto molto tempo per leggere (o magari lo farò appena spento il pc) ma sono sicura che in due giorni finirò Appuntamento a Glenmara, che per il momento sembra molto carino, quasi favolistico. Vi lascio con i teaser, buona lettura ^^.
P.S.: non dimenticate di lasciarmi i vostri Teaser!


Due sere dopo, il pub era affollato di gente: i bambini piangevano, i ragazzi ridevano e protestavano sollevando i boccali in onore di San Brendano, le guance arrossate, le parole sempre più ingarbugliate man mano che la serata proseguiva.

Questo è per San Blenna
Questo è per San Blender
Questo è per San Brenda
Cosa, ha cambiato sesso?
Prima non aveva quelle.
Se Dio può moltiplicare i pani e i pesci, può di certo...

Il pub, che una volta si chiama Lion's Head, apparteneva alla famiglia Greene da generazioni. Decenni prima, il pittore incaricato di sistemare la nuova insegna aveva combinato un pasticcio. Aveva bevuto troppa birra prima di prendere in mano il pennello e il risultato era stato un leone molto più simile a un cane rabbioso che non al regale sovrano del regno animale. Nonostante lo sgomento iniziale la famiglia Greene aveva accetato l'errore e ribattezzato il pub Mad Dog, e così si chiamava da allora. (Appuntamento a Glenmara, di Heather Barbieri, pag.163)

Dopo che le donne furono partite, mentre camminava allontanandosi dalla chiesa, giunsero le lacrime. Erano lacrime di umiliazione e di rabbia per quello che aveva fatto il prete. Quella condanna pubblica era più di quanto potesse sopportare. Non le piaceva sentirsi così impotente: avrebbe voluto alzarsi in piedi in mezzo alla chiesa e rinfacciargli la sua ipocrisia. Ma era troppo facile pensare alle parole a effetto e ai comportamenti giusti a cose fatte. Le aveva colte di sorpresa -lei compresa- sferrando un subdolo attacco nel loro luogo di culto, con quell' espressione di trionfo sul viso, lì, sull'altare, mettendo  se stesso e i suoi giudizi al di sopra di chiunque.
Come osava?
Ma l'aveva fatto.
La domanda era: cosa sarebbe successo ora? Alle ricamatrici? A lei? Al pizzo? (Appuntamento a Glenmara, di Heather Barbieri, pag.202)

martedì 26 luglio 2011

Recensione Black Friars.L' Ordine della Chiave



(Per conoscere trama e info clicca qui)

Voto


Benvenuti nella Vecchia Capitale, dove le favole diventano incubi e gli scholares devono proteggersi dalle lusinghe di avvenenti quanto pericolose cortigiane. Axel Vandemberg, erede al trono di Aldenor, non fa eccezione. Tormentato dalla nostalgia per Eloise Weiss, di cui è da sempre innamorato, Axel viene spinto nel baratro delle spire di Belladore de Lanchale, vampira centenaria e signora di Palazzo Belmont, che sembra volerlo a tutti i costi per sé. L’omicidio di Emelyn Kristian, fidanzata del Duca della Chiave, Rafael Valance, inaugura una serie di delitti ispirati alle più celebri fiabe rivisitate in chiave gotica: uno sfondo inquietante e insinuante, l’ideale per immergersi con l’umore giusto nelle stradine spettrali della Capitale.
Stile seducente, personaggi forti, atmosfere vivide e al contempo impalpabili fanno di Black Friars uno dei migliori libri letti negli ultimi mesi, paragonabile per maestria solo al Sopdet di Lara Manni.
Il telaio intessuto dalla De Winter è ricco di perle e gemme preziose, maschere di pizzo e specchi antichi. Ma la medaglia ha anche un’altra faccia, quella delle locande sporche in cui si gioca d’azzardo, quella delle case di piacere e delle cortigiane voluttuose, spesso giovanissime e non sempre avviate volontariamente alla professione. Giocattolai, chiese gotiche, gonne struscianti e corpetti soffocanti completano un quadro dai toni cupi, in cui spicca il rosso brillante del sangue e il nero delle ombre che si nascondono nei sobborghi più malfamati.  
Axel Vandemberg, giovane innamorato dai modi un po’ burberi e austeri, si muove in questo dedalo di luccicante ambiguità e, nello stesso tempo, nei meandri più oscuri della sua anima. L’abilità della De Winter nel descrivere la psicologia di Axel lascia senza fiato: l’introspezione psicologica è sorprendentemente approfondita, intagliata, incisa, fino a svelare gli incubi e le tenebrose passione del nostro Axel con mano esperta, mai pesante, e con un’atmosfera dark maledettamente intrigante. La passione del protagonista per la sua Eloise viene sventrata in modo quasi analitico, con una lucida follia inizialmente quasi tenera e poi sempre più oscura e profonda. La realtà comincia a fondersi con il sogno, l’illusione, le lame di luce di un tramonto che sta per lasciare spazio alle tenebre. L’elemento romantico –si capirà quasi a fine libro- non è però indirizzato a soddisfare le voglie di un pubblico giovane e facilmente impressionabile: mai banale e volgare, ma leggero ed elegantemente provocante, è funzionale alla finalità della storia, sottilmente erotico come una sottoveste di pizzo. Molto più spazio è però lasciato al mistero degli assassini e alle trame di Belladore, ai vuoti di memoria di Axel, alle avventure per la Capitale, in cui, altrettanto vivacemente, vengono descritti i compagni del protagonista: primo tra tutti Bryce Vandemberg, vanesio quanto ironico e premuroso fratello di Axel; Rafael Valance, elegante e sincero amico; Gilbert Morgan, con cui Axel suole azzuffarsi; l’indimenticabile Stephen Eldrige, quattordicenne scaltro e pieno di risorse, e molti altri personaggi ricchi di humor (mi viene in mente, per esempio, Morton), fascino (Alise Duplessis o Christabel Von Sayn), umanità (il giovane Magistrato Inquisitore Westbrook), misticismo (Padre Ignatius). La gamma dei personaggi è ricca e completa e, soprattutto, lascia intuire dietro di essi un forte lavoro di approfondimento. Nessuno di loro –e sottolineo nessuno- è introdotto nella narrazione per sbaglio, ma ognuno ha il suo posto, la sua personalità, la sua storia alle spalle. Virginia De Winter muove le pedine nella scacchiera della trama con mosse calcolate, una grande perizia e la lungimiranza - sbalorditiva per quella che, ricordiamo, è pur sempre un’esordiente- di una narratrice forte, consapevole, matura. Non ci sono sbavature, niente è lasciato al caso, non esistono momenti di debolezza per l’autrice: freddezza e precisione, ma al contempo partecipazione  e una passione coinvolgente muovono la sua penna, dipingendo un affresco ricco di particolari. I colpi di scena sono un tocco da maestra, il finale lascia l’amaro in bocca ma anche un senso di completezza, e paradossalmente di ansiosa aspettativa. Lo stile è quello di una scrittrice esperta, ancora una volta ricco, limato, affinato e affilato. L’arguzia dei dialoghi rende il soffio vitale ai personaggi, la poesia delle fiabe e dei tormenti di Axel addolcisce il ritmo talvolta frenetico talvolta più lento della narrazione, le riflessioni ironiche strappano un sorriso al lettore.
Chi mi segue sa quanto contesti i prezzi proibitivi imposti dalle case editrici ma, per correttezza, devo ammettere che Black Friars.L’Ordine della Chiave vale tutti i centesimi dei suoi 18.00 euro. Essendo ridotto il numero delle pagine, con un’onestà che, di questi tempi, non è nemmeno poi così dovuta, la Fazi pubblica inoltre questo secondo volume della trilogia ad un prezzo minore rispetto al primo. I margini non sono eccessivamente larghi, la grandezza dei caratteri è ottimale –né eccessivamente grande né eccessivamente piccola- e il prodotto finale, compresa la bellissima copertina, risulta ordinato, compatto, ed esteticamente bello.
Un libro che, insomma, mantiene tutte le promesse: una storia coi fiocchi, uno stile inebriante e la scoperta di un innegabile geniale talento tutto italiano.



domenica 24 luglio 2011

Recensione Le cattive ragazze non muoiono mai


Scritto da Elli



Voto: 

La paura, questa sconosciuta…

Prendete alcuni degli elementi tipici di un horror movie (case antiche dal passato tragico, bambole malefiche, ragazzine inquietanti e così via), abbinateli a un’atmosfera alla Glee – con l’immancabile quadretto del terrificante ambiente sociale del liceo – ed ecco che avrete “Le cattive ragazze non muoiono mai”.

In realtà mi sono abbastanza divertita a leggere questo “horror” young adult, ma di certo non sono stata col fiato sospeso né mi sono spaventata (un dato abbastanza significativo, visto che proviene da una che non guarda mai film dell’orrore perché si ritiene troppo impressionabile). Il problema è che qui si gioca sui cliché… un po’ troppo. Mi viene in mente quello spot televisivo il cui slogan è “ti piace vincere facile!” Per terrorizzare il lettore, infatti, l’autrice ricorre a elementi efficaci perché radicati nel nostro inconscio, ma al tempo stesso talmente visti e rivisti che di più non si potrebbe. Le bambole sono in assoluto il giocattolo più inquietante mai concepito da mente umana, su questo non ci piove (ci sarà un motivo per cui, una volta raggiunta l’età della ragione, le ho fatte sparire tutte dalla mia stanza), ma si tratta di qualcosa di cui si è abusato più che ampiamente. Stesso dicasi per il resto: porte che si chiudono da sole, la persona che non vorresti mai incontrare che ti appare davanti a tradimento non appena ti giri, una vocina che ti sussurra “vieni a giocare con me!”, cantine buie e via dicendo. No, non può fare davvero paura. Più che altro ti ci fai una risata sopra pensando a quante volte ti sei imbattuta in questo genere di cose, pur non essendo un’amante del genere. Forse tutto ciò potrebbe spaventare una quattordicenne, ma se penso alle quattordicenni che conosco io non ne sono del tutto sicura… :P  

Diciamo che l’idea e la realizzazione sono al livello di un medio prodotto televisivo americano (l’autrice lavora anche in televisione… sarà un caso?). Leggerlo è stato come guardare una puntata di Ghost Whisperer: leggermente intrigante per via dell’elemento sovrannaturale, ma più rilassante che pauroso. 

Per quanto un po’ superficiale e imbevuta di stereotipi, ho trovato la parte “normale” (la descrizione della vita scolastica e dei problemi di comunicazione in famiglia) più interessante rispetto a quella “paranormale”. La protagonista, Alexis, mi è stata abbastanza simpatica fin dall’inizio. Pur conservandone molti tratti, infatti, non è la tipica outsider, probabilmente perché si ritrova a esserlo quasi suo malgrado. Questo suo stato di “asociale per caso”, in effetti, fa quasi tenerezza. Come da copione, odia le cheerleader e i fighetti, ma la verità è che non si trova a suo agio nemmeno fra i disadattati cronici. Ma chissà poi se tutte le cheerleader e i fighetti sono davvero quel che lei immagina... Ecco, l’idea di mescolare un po’ le carte in tavola e di mostrare che non tutto è sempre come sembra mi è piaciuta, così come mi è piaciuta l’ironia della protagonista. Anche se, diciamocelo, scrivere un romanzo basato sulla suspense in prima persona può non essere una grande idea, specie se la protagonista ogni tanto – pur raccontando la storia al passato – si riferisce ai suoi familiari e amici parlandone al presente. In questo modo, vada come vada, sai già chi di sicuro non tirerà le cuoia.  
Ho visto la copertina originale sul sito dell’autrice (a proposito, eccolo: www.katiealender.com ) e devo dire che mi sembra molto più azzeccata e inquietante di quella nostrana, che invece ho trovato scialba e senza un particolare significato. Tanto per cambiare si tratta del primo volume di una trilogia, anche se in effetti la storia è del tutto autoconclusiva (al punto che mi chiedo se nel libro successivo ritroveremo gli stessi personaggi o se il filo conduttore saranno solo gli spiriti delle “cattive ragazze” che non muoiono mai per davvero). 

In definitiva, un libro carino, scorrevole (ovviamente), moderatamente divertente e ancor più moderatamente pauroso, ottimo per passare un pomeriggio piacevole, di sicuro più adatto a far presa sui ragazzi fra i tredici e i sedici anni che non su un pubblico adulto.  

E ora una piccola riflessione finale sulle critiche magniloquenti che strillano dalla quarta di copertina e che a lungo andare, a parer mio almeno, fanno più male che bene a un libro: 

Un romanzo da brivido che non vi permetterà di spegnere la luce”. Uhm… ripeto, io sono una grandissima fifona, talmente fifona che a volte ho paura di attraversare il corridoio a luce spenta, ma credo proprio che stanotte non avrò problemi a dormire. Brividi… no, non penso di averne provati. 

Una nuova straordinaria serie per gli amanti del thriller paranormale”. Beh, se consideriamo l’impressionante quantitativo di cliché presenti e i colpi di scena che non ci sono (si capisce tutto mediamente cinque o sei capitoli prima della protagonista), quantomeno cambierei l’aggettivo da “straordinaria” in “ordinaria”.  

Un romanzo popolato da personaggi di grande fascino, originali e ben descritti”. Onestamente, i personaggi sono tutt’al più simpatici, descritti a volte bene e a volte in modo più superficiale, ma di certo non sono originalissimi e neppure particolarmente affascinanti. Ok, la sorellina non è male, ma anche in quel caso… niente di nuovo sotto il sole! 
  

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