Sono trascorsi sette lunghi anni e Beth non ha mai dimenticato. E ora una telefonata nel cuore della notte, le fa capire che il peggio deve ancora arrivare. Quel respiro lo riconoscerebbe fra mille, è il più terribile dei suoi demoni, e lei farà di tutto per tenerlo lontano dalla piccola Abby. Sarà Neil Sheridan, ex agente FBI, a occuparsi del caso e ad avvicinarsi a Beth prima che sia troppo tardi. Sarà lui, che non ha niente da perdere e tutto da recuperare, a decifrare un segreto che se reso pubblico farebbe affiorare verità atroci, in grado di rovinarla per sempre. Per riuscirci dovrà immergersi nelle ombre di una notte di sette anni prima e a sua volta ripercorrere il proprio passato, aprendosi a qualcosa di ancora più pericoloso di un serial killer: il cuore di una donna terrorizzata che per la prima volta si abbandona all’amore. Vincitore del prestigioso Rita Award 2010
1
Bighorn Butte, Washington
A 4.473 chilometri di distanza
Una notte fredda con appena una falce di luna, la foschia che fermenta sull’acqua e si rapprende nei canali di scolo.
Duemila metri più in basso Seattle scintillava avvolta nella nebbia, ma su quella collina isolata l’aria era sottile e limpida, impregnata di un’immobilità lugubre. Non c’erano luci, a parte il fascio bluastro di una torcia alogena. Nulla si muoveva, tranne le rassicuranti bobine di un vecchio registratore a cassette. Nessun suono, solo i singhiozzi soffocati di una donna che stava per morire.
Chevy Bankes abbassò gli occhi su di lei. Lila Beckenridge, così diceva la sua patente, con una foto che ritraeva i suoi zigomi affilati e i capelli raccolti in uno chignon. Doveva essere una ballerina, aveva stabilito Chevy mentre le legava le caviglie: piedi callosi, corpo longilineo, un leggero odore di sudore coperto dal profumo.
E aveva dei bei polmoni, urlava molto bene. Davvero all’altezza del suo ruolo nello spettacolo che aveva inizio lì quella sera.
Chevy si fermò, le ginocchia deboli sotto l’enormità di quel momento. Era già stato con altre donne prima, aveva già ucciso, ma mai con un simile scopo. Non aveva mai ammazzato una donna per perseguitarne un’altra, o reciso una vita per un intento che andasse oltre il suo bisogno immediato. Da quel punto di vista, la ballerina era unica. La prima.
Colto da una sorta di gratitudine perversa, s’inginocchiò per accarezzarle la guancia. Lei gli sputò.
«Troia!» Si pulì il viso con il risvolto della camicia, ringhiando, e fu sopraffatto dalla rabbia. Come osava? Non era nei piani...
Chi ha ucciso il pettirosso? Io, disse il passero, con la freccia e con l’arco, io ho ucciso il pettirosso.
Chevy si coprì le orecchie con le mani. «No» disse, ma quella canzone si faceva strada, una malinconica canzoncina popolare che gli ronzava nell’orecchio come una mosca. Diede manate all’aria intorno alla sua testa, cercando di scacciarla, poi prese lo slancio con il piede e diede un calcio a quella donna a terra. La mascella si spezzò col rumore del legno che scoppietta nel camino, un gemito di dolore le straziò il petto.
La canzone si dissolse.
Chevy aspettò un attimo, sforzandosi di respirare. Controllo. Silenzio. Non poteva esserci nessuna canzone quella sera, non quando finalmente si stava attuando un piano programmato da sette anni. Tremando si scoprì le orecchie, con gli occhi spalancati, come se potesse essere in grado di scorgere
quella voce e di tenerla lontano se fosse tornata. Lanciò un’occhiata alla cassetta, c’erano dieci o forse altri quindici minuti di nastro, poi guardò l’ora. Era tardi e lui doveva ancora fare una telefonata. Inoltre la sua sorellina stava aspettando e non le piaceva starsene da sola. La povera Jenny aveva già trascorso gran parte della sua giovane vita senza nessuno, aspettando Chevy.
«Non ci vuole ancora molto, Jen» sussurrò, come se lei potesse sentirlo. Spense il registratore e prese la scatola che aveva portato con sé sulla collina. Era lunga sessanta centimetri e profonda trenta, non molto pesante ma scomoda. La posò per terra accanto alla ballerina e l’aprì. Le palline di polistirolo scivolarono ai suoi piedi mentre tirava fuori il contenuto fragile e, strato dopo strato, giro dopo giro, rimosse la carta velina fino a quando...
«Santo cielo.» A Chevy si bloccò il respiro, anche se aveva già visto prima quel viso: occhi scuri e profondi, un sorriso vacuo, folti riccioli di capelli veri. Deglutì e passò al setaccio i documenti dell’assicurazione contenuti nella scatola, accertandosi che quella fosse la bambola più antica della collezione: Benoit del 1862. Testa e busto in porcellana biscuit, corpo in legno. Palpebre che si aprono e si chiudono, meccanismo raro. Stima: $ 40.000-50.000. Chevy inclinò la bambola verso l’alto poi verso il basso, su e giù, su e giù, osservandole gli occhi. Nonostante ciò che c’era scritto nel documento dell’assicurazione, gli occhi di quella bambola non si erano mai chiusi. Erano rimasti aperti e vigili, avevano osservato qualsiasi cosa.
Chi l’ha visto morire? Io, disse la mosca, con i miei piccoli occhi.
«Smettila» scattò Chevy, digrignando i denti. Rimase ad ascoltare per cinque secondi, poi fece un sospiro. Doveva andare avanti: c’era del lavoro da fare su quella donna. Posò la bambola per terra, a un paio di metri di distanza per evitare gli schizzi, poi estrasse un taglierino dalla tasca e tornò dalla ballerina.
Lei gridò e Chevy si fermò. Merda, se n’era quasi dimenticato.
Pigiò Play e Record contemporaneamente poi appoggiò un ginocchio accanto alla spalla della donna. I gemiti si propagarono fino al nastro, alterati dalla mascella fratturata ma comunque magnifici, col terrore che raggiungeva il suo picco mentre lui si chinava sulla vittima. Adesso solo a un grido da lei.
Col cuore che galoppava, Chevy iniziò la sua opera, lanciando spesso occhiate alla bambola e lottando per mantenere la mano salda. Quando terminò, si mise in ginocchio e si lasciò pervadere dalle grida. Qualche minuto, non di più, poi click.
Il nastro era finito.
Aprì gli occhi e guardò la sua opera. Un po’ pasticciata, ma nel complesso ben riuscita. Prese la sua Ruger .38 da un borsone e pulì la tempia della donna. Lei non se ne accorse
neppure, le grida non erano che un intralcio al suo respiro, come se sapesse che ormai era finita. Chevy calcolò due centimetri e mezzo verso l’alto, fece un segno con una matita per gli occhi e piazzò la canna della pistola precisamente in quel punto. Premette. Un silenzio beato seguì quel colpo. Chevy
trattenne il respiro, ma sapeva che quella canzone adesso non sarebbe ricominciata. Non ricominciava mai quando le grida erano buone.
Slegò la ballerina e le sistemò gli arti a suo piacimento, poi passò dieci minuti a raccogliere le cose che la Scientifica avrebbe impiegato ore a cercare: taglierino, pistola e proiettili, registratore, corda e picchetti. Infilò tutto nel suo borsone da palestra. Ogni pezzo di polistirolo, fino all’ultimo. Poi, dopo averne infilato uno in tasca, tirò fuori la mano e l’involucro di un cioccolatino cadde per terra. Se ne accorse e lo raccolse, mentre il suo petto pulsava di sollievo. L’intelligenza era la chiave, essere attento era cruciale. Un po’di fortuna non
guastava.
Chevy diede un’ultima occhiata intorno e s’incamminò giù per la collina, portando con sé il borsone e la scatola, fermandosi a controllare il cellulare della ballerina ogni venti metri. Era a metà strada quando l’apparecchio emise un eccezionale, piccolo suono: c’era rete.
Il suo battito accelerò. In Virginia era mezzanotte, ma non aveva importanza. Quello era il momento che aveva tanto aspettato.
Che il gioco abbia inizio.
Arlington, Virginia
Mezzanotte, la casa era avvolta dal silenzio e la bambina dormiva già da un pezzo. Una lampadina da cento watt illuminava un materassino giallo nel seminterrato, l’aria densa dell’odore di sudore e di cuoio, il solito silenzio segnato dai suoni illogici della violenza. Grugniti, colpi, respiri ansimanti per riprendere fiato. Di tanto in tanto lo stridere delle suole di gomma.
Il telefono.
Beth Denison aggrottò le sopracciglia. Fece un respiro profondo, l’aria si depositò sui suoi polmoni come sabbia bagnata, poi si ricompose. Inspira, concentrati, trova l’equilibrio. Colpisci. Il pugno colpì un sacco da boxe di settanta chili. Seguì un forte gancio sinistro, un calcio rotante che la fece girare fino a
generare un impatto che avrebbe schiacciato la trachea di un aggressore. Schivò il contraccolpo, ruotò su sé stessa e piantò il tallone all’altezza media in cui sarebbero stati i testicoli di
un uomo.
Il telefono smise di squillare.
Puntò le mani sulle ginocchia, ansimando. Nessun messaggio inquietante questa volta, niente gemiti o respiri affannati.
Forse quel tipo che le telefonava si stava stufando. Raddrizzò la schiena e distese le mani, sussultando mentre allungava ogni nocca indolenzita. L’indomani avrebbe scontato il fatto di non aver indossato le protezioni. Quella sera aveva bisogno di puro esaurimento fisico per soffocare i pensieri, sul futuro
della casa d’aste, Evan e le telefonate che riceveva da un cretino che a quanto pareva aveva un elenco telefonico, qualche minuto libero la sera e un’attitudine alla perver...
Uno squillo.
Si voltò di colpo e trasformò quel dondolante sacco da boxe rosso in una macchia confusa, con il tonfo del colpo che le pulsava nelle orecchie. Però non era abbastanza forte, riusciva ancora a sentire il telefono. Quattro squilli, cinque. Quella volta non aveva intenzione di riattaccare.
«Maledizione.» Spalancò le braccia e salì le scale a due a due, con l’intenzione di... di fare cosa?
Alzare la cornetta e raccontare al tizio che cosa aveva addosso? Dirgli di andare al diavolo? Lanciò un’occhiata al telefono della cucina, guardando perplessa il numero che compariva sul display. Prefisso 206. Seattle, di nuovo, ma non riconosceva quel numero.
Sei squilli, sette. Scattò la segreteria telefonica, con la voce allegra di Beth. ‘Salve. Qui casa Denison, o meglio, la nostra segreteria. Sapete cosa fare.’Beeep.
«Ciao, bambola.»
La voce era bassa e chiara. Sentì un fremito di paura.
«Beth, so che sei lì. Rispondi al telefono.»
Beth? Il fremito si trasformò in un pugno. Lanciò un’occhiata preoccupata verso la camera da letto di Abby. Nessun suono, le coperte erano immobili. Fortunatamente Abby era sprofondata nel tipo di sonno che la natura riserva ai più piccoli.
«Be-eeth. Sono passati sette anni. Non vuoi parlare con me?»
Le si bloccò il respiro. No. Per favore, no. Non poteva essere.
«Sì, Beth.» E quella voce si fece più bassa. «Sorpresa.»
Il passato che tornava a farsi vivo, fredde gocce di memoria che le colavano lungo la schiena.
«Scommetto che pensavi che non ti avrei mai trovata» disse lui. «Ma sono un uomo pieno di risorse. A dire il vero, lo sono a tal punto da aver preparato dei regali molto speciali per te. Non vedo l’ora di farteli vedere.» Fece una pausa, come se sapesse che a quel punto Beth avrebbe dovuto reggersi allo schienale della sedia per non cadere, e che il suo mondo all’improvviso stava precipitando.
Idiota, disse Beth a sé stessa. Era naturale che lui lo sapesse.
Quindi non rispondere. Limitati a ignorarlo e non alzare la...
«A ogni modo, Beth, come sta tua figlia?»
Beth afferrò il telefono. «Bastardo.»
«Ah, eccoti qui. Per un attimo stavo iniziando a preoccuparmi.»
Delle scintille rosse esplosero dietro ai suoi occhi. «Co... come?»
«Come, cosa? Uhm, immagino che tu non sappia nulla. Be’, non mi meraviglia, naturalmente. Perché a qualcuno sarebbe dovuto venire in mente di contattarti per riferirti la notizia?»
«Di che cosa stai parlando?»
«Libertà. Ricompensa. Prendermi ciò che mi è stato negato per tutti questi anni.»
Sembrò che la stanza si muovesse. Beth non era neppure più in grado di dire se i suoi piedi fossero piantati per terra o no. Chiuse gli occhi. Pensa, pensa. Perché, anzi no, come la stava chiamando? «Non capisco» disse.
«Sono sicuro che troverai tutta la storia su internet in un batter d’occhio. Per il momento, basta dire che sono libero. Lo sono da un po’ormai, a dire il vero, e ho utilizzato questo tempo per definire i dettagli del nostro ricongiungimento.»
Beth sentì la nausea risalire fino in gola, ferma lì come un ronzio. Libero? Aspetta. Mantieni il controllo. Se era uscito di prigione, c’era solo una ragione per cui la stava chiamando.
Ed era impossibile che lui avesse intenzione di rinvangare il passato per ottenere ciò che voleva. «Chiamo la polizia. Racconterò tutto...»
Lui ridacchiò. «No, non lo farai. Credi di aver ingannato tutti, con la tua bella vita e la tua bella figlioletta, ma te ne sei dimenticata: io conosco i tuoi segreti.»
Beth afferrò la cornetta così forte che i tendini del suo braccio furono scossi dai crampi. «Tu non sai niente.»
«Davvero?» chiese lui. Beth sentì un click e per un attimo pensò che avesse riattaccato. Poi lui ricominciò a respirarle nell’orecchio, si sentiva un lieve ronzio sulla linea. «Facciamo un riepilogo: so che cos’è successo a Anne Chaney. So perché hai lasciato Seattle per trasferirti dall’altra parte del Paese, a Arlington, in Virginia.» Fece una pausa. «So della tua figliolet...»
Beth ebbe un sussulto, poi cercò di trattenerlo. Troppo tardi.
«Ehi, era molto bello, Beth. Fallo di nuovo.»
«Smetti...» sputò fuori quella parola ma si trattenne. Zitta, adesso. Non fare alcun suono. Si ricordò quanto lui amasse i suoni. Urla, puttana. Grida per me.
«Fammi sentire di nuovo la tua voce, Beth» disse lui.
«Non devi fare poi molto, non ancora. Solo qualche piccolo suono per dare inizio all’opera...»
Beth scagliò il telefono dall’altra parte della stanza. Rabbia e paura si contorcevano come serpenti nel suo stomaco e lei si sforzò di respirare, lasciando che la furia si dimenasse. Maledizione, non doveva perdere la testa. Anche a piede libero, lui non costituiva una grande minaccia per lei, Beth aveva il doppio delle carte in tavola. Doveva essere lui ad aver paura. Inoltre non l’aveva chiamata dai dintorni. Prefisso 206... Seattle.
Sentì la realtà che si posava sul fondo del suo stomaco. Quello non era un sogno. Non era un brutto ricordo che proveniva dalle viscere di un’altra vita. Quello non era lo scherzo telefonico di un tizio con davanti un pacco di birre e un elenco telefonico, in testa un numero che gli piaceva e che continuava a chiamare premendo REDIAL. Quello era Chevy Bankes.
Beth sentì forte nel petto il bisogno di vedere Abby. Fece le scale di corsa e infilò la testa nella sua cameretta. Abby dormiva profondamente nel chiaro di luna, aveva un gattino di peluche stretto contro la pancia e un cane vero disteso sulle caviglie. Il cane mosse la coda e si rotolò felice sulla schiena, ignaro del brivido che percorreva le vene di Beth mentre lei se ne stava lì a guardare lo stomaco di Abby che si alzava e abbassava: un respiro, due respiri, tre. Tre era il numero magico.
Beth contava sempre tre respiri di fila prima di andare a letto la sera.
Quella volta ne contò dieci.
Tornò nel corridoio, ricacciando indietro le lacrime con il palmo della mano. Non piangere. Lo sa dio, le lacrime non hanno mai risolto nulla. Quella cosa non sarebbe dovuta accadere, ma Beth aveva sempre saputo che era possibile. Bankes non era l’unico ad avere un piano. Inspira, concentrati, trova l’equilibrio.
Fece appello ad anni di Thai Boxe per ritrovare la stabilità, poi andò in camera da letto. Trascinò una sedia a dondolo accanto a un’enorme cassettiera Chippendale. Era un pezzo del primo periodo New England con una cornice piena d’intagli, tutti i blasoni originali e una patina ricca e scura. Eppure non
aveva comprato quel cassettone perché fosse antico o bello.
L’aveva comprato per le cornici.
Salì sulla sedia a dondolo e tirò una decorazione che sporgeva sulla cornice in alto a destra. Cigolò e poi si spalancò.
Ne uscì un foglio ripiegato. Beth lo infilò sotto la fascia che aveva al polso e infilò la mano in quello scompartimento segreto. Le sue dita si serrarono intorno al calcio di una Glock 9 mm, fredda e potente, abbandonata lì ma mai dimenticata.
La sollevò, allungò entrambi i polsi e puntò la lucina rossa del telefono dall’altra parte della stanza.
Era in grado di farlo. Se fosse stato necessario, per il bene di Abby, l’avrebbe fatto.
Abbassò la pistola, scese dalla sedia e aprì la lista di nomi
che aveva infilato sotto la fascia. Cheryl Stallings, sua cognata. Due avvocati, dei quali uno aveva redatto il testamento di Beth, mentre l’altro aveva la reputazione di vincere a ogni costo. Tre mercanti di antichi mobili americani, ciascuno dei quali aveva offerto del denaro in contanti per alcuni dei pezzi più raffinati della collezione privata di Beth e li avrebbe acquistati senza fare domande. Scorrere quella lista riuscì a calmarla, era la prova tangibile che lei aveva un piano e le risorse necessarie per attuarlo. Fece un respiro profondo.
Nonostante l’ora, prese in mano il telefono, poi si fermò. I numeri nove e uno sembravano brillare più degli altri. Chiamo la polizia, il 911. Racconto tutto. Ma stava bluffando e Bankes lo sapeva. Non poteva telefonare alla polizia. Non poteva fare quello a Abby.
Si calmò e bisbigliò una preghiera. Chiese perdono, nel caso in cui dopotutto Dio esistesse davvero. Si schiarì la gola e costrinse la sua voce ad assumere il tono calmo e composto che aveva perfezionato anni prima. Compose il primo numero della lista.
La prima bugia sarebbe stata la più difficile.
Kate Brady si divide fra l’insegnamento della musica e la scrittura di thriller. Come lei stessa afferma, la sua carriera letteraria è cominciata come un’attività clandestina, un hobby che l’ha portata passo dopo passo fino al grande pubblico. Il suo esordio Legami pericolosi le è valso il prestigioso RITA Award, ed è in corso di pubblicazione in diversi Paesi, fra i quali Gran Bretagna, Germania, Olanda e Grecia.
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