lunedì 14 febbraio 2011

Primo capitolo La ragazza che giocava coi fuochi in anteprima

Il terzo romanzo, La ragazza del libro dei fuochi di Jane Borodale, è invece in uscita dal 24 febbraio per Leggereditore al prezzo di 12 euro (400 pagine).


Londra 1752. Fra i vicoli umidi di pioggia si aggira la giovane Agnes Trussell, in tasca una manciata di monete rubate, nel grembo un bambino che non vuole. Ma una porta si apre nel buio e Agnes si ritrova ad accettare un impiego come apprendista in un laboratorio di fuochi d’artificio. Mentre impara a muoversi in un mondo fatto di polveri esplosive, tentativi e gesti prudenti, la ragazza conquista lentamente la fiducia dell’enigmatico e scorbutico John Blacklock e si unisce alla sua missione: quella di creare i fuochi più spettacolari che occhio umano abbia mai visto. I mesi scorrono e per Agnes diverrà sempre più difficile custodire il suo segreto. Possibile che nessuno abbia intuito qualcosa? E cosa si nasconde dietro gli sguardi ambigui di Mrs Blight, la governante che segue ogni sua mossa? Il tempo scorre, e i segreti di Agnes non rimarranno tali per sempre... la rovina sembra inevitabile... Jane Borodale ha la capacità di far emergere la complessità dei rapporti umani come solo le sorelle Brontë sono riuscite a fare. Il suo ritratto della Londra dell’epoca è indimenticabile, dalle strade sudicie dei bassifondi, agli interni polverosi di una casa dove nulla è ciò che sembra. Un romanzo dalle atmosfere suggestive che affascinerà coloro che hanno amato i romanzi di Tracy Chevalier, Geraldine Brooks e Michel Faber.

“Un debutto eccezionale.”
Kirkus Reviews

“Jane Borodale è una scrittrice di grande talento che ha dato vita ad una storia indimenticabile.”
Telegraph



1

Si ode lo stridio continuo della lama sulla pietra mentre affila i coltelli. La lama produce un rumore acuto che dà i brividi e che sento fra i denti. È novembre, e oggi è il giorno in cui uccideremo il maiale.
Sono in casa, china sul pavimento. Sto mettendo sulla brace dei pezzi secchi di corteccia d’olmo che s’incendiano attizzando il fuoco. Un odore caldo di funghi si alza e sui ciocchi si formano delle bolle di resina e umidità. Le fiamme alimentate scoppiettano e crepitano, facendo uscire dei getti colorati che sfrigolano. Una colonna di fumo denso si riversa rapidamente su per il camino e fuoriesce nel cielo come un liquido grigio nel latte. Appendo il mantice dalla cinghia e mi alzo in piedi. Il fuoco mi fa sentire bene. Brucia le cose e le trasforma in cenere; e nulla rende il mio scopo più chiaro.
Quando mi allontano, mi accorgo che la cucina è piena di fumo. Mia madre è indaffarata e senza fiato, si agita tra i cavalletti e il caminetto, e due chiazze di colore le spuntano sugli zigomi.
Il fuoco dev’essere una fiamma rovente, uno dei più caldi dell’anno. Deve servire a scaldare pentole grandissime e ricolme di acqua bollente, sterilizzare la pelle del maiale, e poi cuocere l’orzo e i pudding, il grasso animale e il grano pressati nelle budella lavate, che si mescolano con facilità nel calderone d’acqua. Mi dirigo verso la porta ed esco nel cortile per andare a prendere altra legna. Il clima non è ancora gelido da togliere il fiato, ma il freddo è alle porte. Non manca molto a San Martino, anche se le gelate non sono ancora iniziate come nella maggior parte degli anni passati, e il mio respiro forma una nuvola bianca davanti a me. Un timido sole si è alzato sulla valle, creando delle ombre sottili nel viottolo. L’aria umida odora di foglie marce, di letame e del fumo che esce dal camino. Sento i versi gutturali e sguaiati delle cornacchie appollaiate sui faggi in cima alla collina. Mio fratello affila le lame vicino alla porta di servizio, raschiando il metallo sulla pietra
lontano da lui. Mentre attraverso il cortile in direzione della catasta di legno, vedo il coltello che mio fratello sta affilando catturare il luccichio del sole arancione in un lampo improvviso di luce accecante.
Arrivata alla catasta di legno, sussurro delle cose mentre estraggo rami e ciocchi e li ammucchio sul davanti del mio vestito.

Mi chiamo Agnes.
Vivo in un cottage ai confini del villaggio di Washington, ai piedi delle Downs dove la sabbia si trasforma in argilla. Il viottolo che conduce al cottage è stretto e fangoso, e s’inonda di un candore latteo quando la pioggia si riversa giù dalla collina. Sopra di noi la scarpata è ricoperta di boschi, fino alle cime calcaree dove pascolano le pecore. Da anni, la famiglia di mio padre vive nel Sussex. Ho diciassette anni, spesso siamo affamati. Trascorro metà della mia giornata a tessere la stoffa per venderla. E per il resto del giorno, faccio quello che fanno le ragazze: mescolo il cibo nelle pentole, do il mangime
alle galline, faccio fare il ruttino ai bambini, faccio il sapone, e cerco
di guadagnare qualche soldo...

* * *
Il suo coltello si ferma. C’è una sensazione d’instabilità nell’aria, qualcosa che non torna in quello che dico. Smetto di parlare e metto in equilibrio i ciocchi sulla spalla per portarli dentro. 
Sul pavimento della cucina c’è una pila di vasi presi in prestito. Li abbiamo avuti dalla signora Mellin giorni fa e li stiamo sterilizzando, lavandoli con acqua bollente. Mia madre sta contando uno a uno le cipolle e lo scalogno, pronta per tritarli. Allunga la mano verso il contenitore del sale sopra la mensola del camino.
«Madre! Hester sta piagnucolando» le dico ad alta voce sopra la confusione dei bambini, come se fosse sorda; e lei si allontana dal camino e scompare nella stanza sul retro, piegando il corpo lungo e scomodo sul letto a scomparsa per prendere in braccio Hester. Mentre culla la bimba su e giù lungo il fianco per farla stare tranquilla, la sua schiena si curva dentro i vestiti. A ogni nuovo bambino la sua pazienza si riduce.
Abbiamo debiti al villaggio. Il lavoro di mio padre rende meno da quando si è incominciato a recintare, lui è alla ricerca di un’occupazione qualsiasi, ma non ci sono più lavori di recinzione da fare nel circondario. La scorsa settimana è tornato a casa con sei piccioni blu che abbiamo nascosto in una catasta di legna nel birrificio e poi li ha portati alla fiera di Pulborough. Mia madre è rimasta arrabbiata tutto il giorno e quando la sera lui è tornato, hanno litigato per ore, fino a che la candela non si è consumata del tutto. Quando la mattina
dopo siamo scesi giù dalla camera da letto, mi sono accorta che una delle brocche era incrinata, ma era stata riposta ordinatamente sulla parte posteriore del ripiano. Questo è il terzo anno che non abbiamo una pezzo di terra da coltivare, e l’anno prossimo anche il terreno comune potrebbe non esserci più, quindi questo è l’ultimo maiale.
I piedi di mio padre sotto la coperta sono appena visibili dalla porta della camera sul retro. Si alzerà presto, prima che arrivi lo zio. 
«Abbiamo dei debiti, ma quest’anno faremo il maiale prima e questo sistemerà le cose» fu tutto quello che disse quando stabilì il giorno della macellazione. Il volto era avvilito e c’era una brutta calma a tavola. Mescolai la mia zuppa con il cucchiaio. «Ne avanzerà abbastanza» disse mia madre mentre si alzava e tornava alla tessitura, ma sembrava più una domanda, come se stesse chiedendo qualcosa. Si strofinò le mani su e giù sulla sopragonna prima di prendere la spoletta. Ho paura che uno di questi giorni scenderemo giù e troveremo
degli uomini grandi e grossi vestiti in abiti scuri che impediscono alla luce di entrare dalla porta aperta; uno prende appunti con un lungo pennino e l’altro dà indicazioni mentre le stanze vengono svuotate e i nostri averi accatastati fuori nel viottolo.
Ma non sono in me. La malattia e il cattivo umore, che mi hanno causato problemi nelle ultime settimane, stanno crescendo come di consueto e dureranno per ore. Mi rannicchio accanto al camino, poggiando dei ciocchi sopra la legna calda e scoppiettante facendo attenzione a non bruciarmi le dita.
Hester si sta agitando. Le fa male la bocca per via dei denti che spingono nelle gengive, e ancora le manca sua sorella. Ann ha cominciato a lavorare presso la Wiston House due mesi fa e non l’abbiamo perdonata per averci lasciato qui, ma solo a Hester è consentito dare voce ai suoi sentimenti. La mia rabbia è assorbita dalla casa in altri modi.
So che mia madre non ce la fa più con i bambini. Il suo corpo sta cedendo. Lo scorso anno ne sono nati due troppo presto e non completamente formati e li abbiamo seppelliti sul retro della casa avvolti in un panno, ma continuano a venirne altri, e ora il suo vecchio corpo di donna si è ingrossato di nuovo. Il fuoco sta prendendo.
Le lunghe fiamme gialle aumentano il calore, per una dura giornata di lavoro. Mando William a prendere dell’altra acqua dalla pompa in fondo al viottolo, mentre io mi occupo di lavare le pentole. 
Lo sto nascondendo bene. Non posso permettere nemmeno a lei di accorgersi che mi sento male, o penserà che abbia la febbre malarica e mi farà inghiottire una poltiglia di erbe o un ragno vivo passato nel burro. Non posso dire a nessuno quello che mi sta succedendo, nemmeno a Ann, e ora che lei non c’è più, nessuno se ne accorge. Non ho il ciclo da soli due mesi e già la piccola tempesta interna mi sta cambiando. I miei capezzoli di ragazza mi fanno male per via del loro nuovo peso e i miei capelli sembrano diversi, come se fossero cresciuti sulla testa di un’altra ragazza. A volte, tenere per me questa sciagura mi fa sentire come se dovessi esplodere, e vorrei dirlo a qualcuno. E poi, dopo quegli attimi di debolezza, mi costringo a immaginare il giorno in cui mia madre se ne accorgerà, il suo scoppio di rabbia che la irrigidisce di vergogna, mentre mi volta le spalle. Mio padre si infurierà molto e lo rimarrà a lungo dopo essersi allontanato barcollando per tre
chilometri dalla birreria. Non oso immaginare che cosa accadrà dopo. Il solo pensiero mi provoca una sensazione di panico che mi rende fragile, facendomi battere forte il cuore in una stretta al petto. La mia testa è leggera per la complessità della situazione. Rimango sveglia al buio per ore, sdraiata sul letto
rigido mentre cerco di cambiare le cose con la forza del pensiero che viene di notte. È stato un errore. Non è colpa mia. È tutta colpa mia, e il mio errore si è fatto carne, e si gonfierà dentro di me. Forse morirò di parto e dovranno perdonarmi, in piedi intorno alla bara che non potranno mai permettersi
mentre mi caleranno nella terra al cimitero di Saint Mary. Com’è buio quando cerco di dormire. È come se stessi respirando nella notte stessa, non solo l’aria ma il senso e l’odore delle tenebre. Ogni notte ascolto il respiro delle mie sorelle salire e scendere senza fatica accanto a me, finché non sono troppo
stanca per non continuare a dormire. Il giorno dell’uccisione del maiale, dovremo alzarci prima che spunti il sole, perché la mattina arriva molto in ritardo in questo periodo dell’anno.
Faremo bollire le pentole della signora Mellin una a una e mio padre e mio zio s’inginocchieranno di peso sul maiale in modo da riuscire a conficcargli il coltello nella gola. È difficile non scappare. Mi ricordo di come sono scappata un anno fa, fuori nel viottolo per sfuggire al rumore. Il maiale continuava a urlare, un’agonia assordante data dal terrore trattenuto, le zampe posteriori che scalpitavano e gridavano le ultime gocce di panico, anche mentre il coltello entrava dentro.
Poi il verso stridulo gorgogliò e cessò. La quiete fu un colpo. Fuori nel viottolo tenni stretti i gomiti nel vuoto che seguì, poi sul lato opposto del bosco un picchio cominciò a fare dei buchi nel silenzio. I miei piedi colpivano forte il sentiero fangoso mentre correvo in fretta prima che si accorgessero che me ne ero andata. Quest’anno il maiale è più piccolo, una scrofa sterilizzata con una macchia nera sulla parte posteriore della
testa. I suoi occhi sono molto piccoli, come se fosse disposta a lasciare entrare abbastanza luce ma senza lasciarsi sfuggire nulla dalle ciglia rigide e pallide.
Devo tenere la pentola per raccogliere il flusso di sangue vivido che fuoriesce rosso dallo squarcio. Si formerà del vapore quando il sangue caldo versato entrerà in contatto con la fredda terracotta. Sarà un lento processo di condensamento, raffreddamento e scurimento mentre continuerò a mescolare, togliendo i filamenti e i grumi, a versare dentro l’orzo cotto per preparare il pudding. Poi verseremo dell’acqua bollente sulle
setole del maiale e, a turno, passeremo il candeliere con forza contropelo per toglierle senza rompere la pelle.
C’è sempre uno strano odore, e le cornacchie e i volatili che si cibano di carcasse volteggiano intorno al frutteto.
William li scaccia, correndo sulle sue gambe corte e brandendo sopra la testa una scopa che è grande quasi quanto lui, ma questi continuano a volteggiare sulla casa, circondando la canna fumaria con le loro ali nere spiegate come guanti di pelle. Lil dice che sono quel genere di uccelli che fanno fare brutti sogni.
Lei non sa nulla della sensazione che ho nella pancia, nessuno di loro lo sa. 
È una leggera calura che ha cominciato ad aumentare due mesi fa, dopo che gli ultimi fagioli erano stati colti. L’ultimo raccolto era stato buono, tutti quelli precedenti erano stati rovinati dalla muffa, giugno e luglio erano stati mesi umidi e piovosi. I nostri capelli odoravano di buono sotto il sole tardivo mentre aprivamo i baccelli freschi con le unghie fino a farci diventare le mani verdi, sparpagliando i teneri fagioli sulle
stuoie ad asciugare. Le nostre mani odoravano di foglie spezzate. Faceva caldo per essere settembre, quasi come l’estate di San Giovanni. Ci riposammo al bordo del campo sulla riva.
Ricordo che Ann si alzò in piedi e, mentre prendeva i secchi vuoti per riportarli nel capanno, spostò la sua ombra facendola cadere sul mio viso. Le ultime gocce della birra di mezzogiorno erano finite e mia madre era da tempo ritornata a casa per riprendere la tessitura arretrata della settimana, matasse
ingombranti di filato non tessuto si stavano accumulando vicino al telaio. C’era tanto lavoro da fare, davvero non so perché fossi così pigra quel pomeriggio. Non c’erano nuvole nel cielo polveroso, solo uno spazio latteo e blu che si estendeva verso l’alto. Sopra gli alberi di faggio, come dei puntini neri, rondoni e balestrucci volteggiavano, quasi invisibili. Era sereno. Ricordo l’aspetto mutevole dei semi sopra le erbe, e la piccola veccia viola che si agitava nella siepe accanto a me. Il sole picchiava. Sentii lo scricchiolio della cannicciata quando Ann chiuse il cancello, e mi addormentai.
Non mi piace ricordare la maggior parte di ciò che è avvenuto dopo. Stava sopra di me con la faccia vicina alla mia e m’impediva di vedere il cielo, il suo collo puzzava come una pietra calda. Ricordo la sensazione di quando sfregò le sue mani sul mio corpo come a volte faceva quando riusciva a prendermi. Le sue dita dentro di me assomigliavano alle zampe di una capra che scalcia. In un primo momento era quasi
piacevole. Mi aprii di più e chiusi le palpebre, rosse contro la
luce del sole. Il peso del sole su di me era come una benedizione. Poi mi aprì le ginocchia sotto le gonne e si distese su di me.
Dovetti mordergli la mano che mi teneva premuta la bocca.
La sua mano era salata e piena di muscoli. Ero accecata dal sole, con la testa schiacciata sulla riva morbida. Fu insopportabile. Il disagio mi lasciò senza fiato. Poi tutto finì e lui mi si tolse di dosso e si sedette lì, stringendo gli occhi al sole come un uomo appoggiato al palo segnavia in cima alla collina, che osserva il panorama.
E poi aveva detto solo: «Allora ci vediamo martedì.» Richiamò con un fischio il suo lurido cane perché lasciasse stare le tane dei conigli e lo seguisse, e si incamminò senza fretta su per il viottolo. Era come se io non fossi del tutto lì. Quando mi alzai in piedi, le gambe tremavano sotto il peso del corpo.
Sbattei le mani sulla siepe come per allontanarlo da me.
È stata colpa mia se è accaduto? Di sicuro è stato qualcosa che ho fatto. Avevo creduto di piacergli.
Aspettai per un’ora o più, fino a quando non avevo più i segni delle lacrime sul viso, e poi mi allontanai dal campo per tornare a casa, chiudendo il cancello dietro di me.
Ero sicura che si sarebbero accorti del mio senso di colpa e della mia vergogna, in qualche modo avrebbero capito che ero cambiata o che c’era qualcosa di diverso in me. Avevo troppa paura di entrare. Mi sedetti sul trogolo di pietra, battendo i talloni su di esso fino a che l’ultimo spicchio di sole non scivolò giù in tutto il suo splendore dietro i rovi nel campo sotto casa. Dei pipistrelli volarono in cielo.
All’interno del casolare, tra l’ingresso e il salotto, Lil e Ab bisticciavano. Vidi Ann entrare nella stanza sul retro e accendere le candele, un bagliore tremolante le illuminò il viso da sotto, mentre si avvicinava alla finestra. Ebbi un brivido che s’impossessò di me mentre il buio filtrava nella valle, e attesi,
tremante, che mio padre tornasse a casa. Poi vidi, nel viottolo in penombra, la sua mole avvicinarsi. Sembrava più alto per via dei ramoscelli che teneva legati sulla schiena con delle cinghie. I legni erano la parte più chiara della sua sagoma contro le pareti bianche mentre svoltava l’angolo dirigendosi verso di me. Trattenni il respiro sperando che fosse sobrio. 
«Ag, tua madre è tornata?» fu tutto ciò che disse quando mi vide lì, scuotendo via il fango dai suoi grandi stivali contro il gradino e posando a terra la fascina. Poi si chinò sotto l’architrave prima che riuscissi a rispondere, e lo seguii all’interno.
Quando entrò, mia madre mise giù il bambino e si alzò per servire la cena. Era stanca di rammendare e fece una smorfia quando vide che la mia gonna era strappata da un lato. Era settembre, il periodo più faticoso dell’anno.
«Agnes» grida. Io perdo la calma, quasi rovescio il sangue sulle pietre nel cortile. Rimetto in equilibrio la pentola. C’è così tanto sangue di maiale, forse quattro litri pieni. Ci sono macchie rosse su tutto il pavimento, e i piedi mi fanno male dal freddo.
«Cosa c’è che non va? Come mai sei così sbadata?» mi sgrida mia madre. Il suo respiro forma nell’aria fredda nuvole bianche tutto intorno a lei e riesco a malapena a vedere la sua bocca.
Mio zio squarta il maiale e lo svuota dalle viscere scure, poi
lo pulisce. Stiamo tutti lì a guardare, quando tira fuori il cuore. Ha delle striature gialle di grasso come il marmo, come le
venature di una foglia.
Poi appende il grosso maiale per le zampe posteriori nel capanno, devono passare due giorni perché la carne s’indurisca.
La sua presenza è ovunque, un peso di cento chili che tira i
ganci tra il tendine e la caviglia. La testa penzola proprio sotto
la colonna vertebrale, anche se la gola è tagliata e il fluido rosso scorre giù lungo il muso e gocciola in una pentola sul pavimento.
Quando vado nel capanno a prendere del sapone per il bucato, William è lì che scaccia via i gatti dal secchio con le parti molli che non abbiamo ancora mangiato. Tiene in mano un
ramoscello e lo agita nell’umidità.
«Che cos’è?» chiede. Lo guardo e gli dico che è lo stomaco.
«Lo stomaco viscido, lo stomaco viscido, dovremmo punzecchiarlo, non credi?» dice lui, poi grida inorridito dalla sua stessa battuta e scappa via. 
È il mio turno al telaio. 
È un oggetto piuttosto complicato che mi fa scorrere nella
testa un rivolo uniforme di pensieri mentre le mani continuano il loro lavoro alla spoletta e ai fili, come un cavallo che percorre una strada familiare senza fare attenzione o essere guidato. Quando le mie mani sono impegnate al telaio, i pensieri
e i guai che mi feriscono dentro non mi sovrastano. È quando il rumore del telaio cessa bruscamente che la sensazione di panico serpeggiante ritorna e la mia mente affonda in una sorta di oscurità, come se un vento tagliente fosse entrato in una casa e avesse spento le candele lasciando spazio alla paura. Quel momento arriva presto, un’ora dopo essermi alzata dal telaio.
«Agnes!» grida mia madre all’improvviso dalla camera sul retro, facendomi saltare. «Siamo a corto di casseruole!»
Quindi esco di casa per andare a prendere la pentola, nelle mie orecchie ronza il silenzio del lavoro che ho interrotto ed esco fuori nel viottolo come mi è stato ordinato. La voce di mia madre, che mormora a Lil come preparare lo stufato, si affievolisce e svanisce mentre cammino. C’è il sole, e dei passeri svolazzano e frullano tra le siepi.
La signora Mellin è la nostra vicina più prossima e la sua casa si trova nella direzione opposta al villaggio, lungo la strada bianca e fangosa che porta alla cava di gesso. Vive invecchiando sola; suo figlio fu obbligato ad arruolarsi in un porto sulla costa tre anni fa, e si dice che sia morto di alcolismo o maltrattamenti. Suo marito è morto da molto più tempo di quanto ognuno di noi possa ricordare. È morto una domenica, la madre disse che era un uomo sconsiderato che aveva lasciato poco a sua moglie se non le sue cattive abitudini.
È una bella giornata, e per tutti i nostri problemi, forse l’inverno potrebbe non essere così male. C’è un cielo azzurro in cima alla cresta delle Downs, e il sole rifrange delle macchie
luminose tra gli alberi sul ciglio della strada mentre cammino. Ma per quest’anno ormai, il sole sta diventando più stanco. Ogni giorno cala prima, a malapena riscalda la terra, e i miei piedi camminano lungo il viottolo in ombra. 
Il suo cottage è adiacente alla base della scarpata, con il bosco scosceso che minaccia di inghiottirlo. Mentre mi avvicino grido, e sento i polli fare baccano e starnazzare di fianco alla casa. La porta anteriore è chiusa, quindi sollevo il chiavistello e la spingo per aprirla, infilandomi dritta nel salotto gelato. Un gatto dal pelo marrone si precipita fuori.
«Ciao!» grido. «Buongiorno, signora Mellin!»
La signora Mellin è sorda, e non risponde al mio saluto mentre cammino rumorosamente per la casa, scegliendo una casseruola. Le pentole fanno un rumore sordo e forte sul pavimento in cotto rovinato mentre le impilo al loro solito posto dietro la tendina di tela sotto la mensola. Vado in cucina, dove lei sta sempre. È seduta di spalle di fronte a un focolare freddo come il marmo.
«Oh!» esclamo preoccupata. «Perché il fuoco è spento, signora Mellin?»
E rimango sconvolta. La signora Mellin è morta, seduta sulla sedia. Ha la lingua rossa penzoloni e gli occhi girati all’indietro. Le sue braccia abbandonate giù oltre il bordo della sedia.
Sul pavimento, come se fosse rotolato via da lei, c’è un vasetto di porcellana, il vaso che si trova di solito sul lato sinistro del suo caminetto. Il coperchio è ancora più lontano, quasi nascosto, proprio sotto la sedia. Ho la bocca secca.
«Oh, signora Mellin.» Sono spaventata e triste. Il cuore mi batte molto forte. Parlo con lei come se si fosse addormentata mentre le appoggio la testa e le chiudo le palpebre. Mi aspetto che il suo corpo sia rigido, ma è molle e floscio. Non le guardo la lingua e mi sento parlare freneticamente in un modo frivolo
che non riconosco. Non c’è bisogno di fare la sciocca, ma io continuo a parlare. Prendo le sue dita tra le mie e le sistemo in una posizione ragionevole sul suo grembo. Ha un aspetto più normale ora, anche se ancora non riesco a guardarle la lingua. Le sue mani non sono né fredde né calde, hanno la stessa temperatura della sedia di legno su cui è seduta. Le mie sono ancora calde dopo la camminata veloce su per il sentiero soleggiato; mi
accorgo di avere ancora del sangue nero sotto le unghie. Mi siedo sulla panca dall’altra parte del camino per riprendere fiato e mi chiedo da chi dovrei correre a chiedere aiuto. La canonica è lontana. Mi alzo di nuovo in piedi. Mia madre starà lavorando senza di me, fiacca e stanca dopo la lunga giornata trascorsa a bollire il pudding e a prepararsi per salare la nuova carne di maiale nel grande trogolo. Una volta fatto questo, toglieremo il sale in eccesso e appenderemo le parti laterali ai ganci di ferro in fondo al camino per affumicarle. Dovrei tornare a casa. Mi vergogno alla sola idea di mangiare, ma il pensiero improvviso del
sapore della carne mi fa venire l’acquolina in bocca.
Non so quanto tempo sia passato. Mi chino in avanti. Forse mi sono sbagliata, la signora Mellin si è solo addormentata o sta male. Forse ha bisogno di aiuto. Lei non è molto benvoluta. Le rialzo la palpebra, con cautela. Il suo occhio è bianco-giallastro e mi accorgo che intorno a lei c’è un odore strano, come se si stesse già trasformando in un’altra sostanza. No, sono stata vicino a cose morte abbastanza da sapere che la signora Mellin è deceduta da alcuni giorni. Mi faccio indietro, devo mandare un bambino a dire al pastore che è morta. Lui verrà e pronuncerà un discorso e le farà toccare con le dita la copertina della sua Bibbia e poi la seppelliranno, ecco quello che succederà. Mi chino a raccogliere il vaso caduto accanto alla sedia e guardo al suo interno.
E lì ci sono delle monete scintillanti. Con mia sorpresa, queste cadono fuori e rotolano sul pavimento facendo rumore.
Luccicano e brillano in maniera sorprendente mentre mi chino di nuovo per raccoglierle una a una e le rigiro tra le dita.
Conto una ghinea, mezza ghinea, una, due, tre, quattro, cinque corone e una manciata di monete d’oro straniere, forse spagnole. Sono molto lucide, come se lei avesse passato il tempo a lustrarne una alla volta. Sono così brillanti: più luminose delle bacche di rosa canina in una siepe scura, delle foglie di betulla nel mese di ottobre, delle celidonie e delle linaiole, delle pietre ancora bagnate sul letto del fiume, dei funghi gialli nel bosco ceduo, del tuorlo di un uovo di gallina. Sono come... fuoco. Come il sole. E poi le monete cambiano mentre le tengo in mano e cominciano a mostrare il loro valore. Il mio cuore comincia a battere così velocemente che quasi non riesco a sentire il piano prendere forma nella mia testa.



Jane Borodale vive in Inghilterra con il marito e i due figli. Divide le sue giornate fra la creazione di sculture di grande successo e la scrittura. La ragazza del libro dei fuochi è il suo romanzo d’esordio, con il quale si è collocata nella terzina finalista del prestigioso Orange Prize.

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