sabato 6 dicembre 2014

Il tempio degli Otaku #101: "Aquatic Language" di Yasuhiro Yoshiura






Salve a tutti, e benvenuti ad una nuova puntata de "Il Tempio degli Otaku"! La recensione di oggi ha una particolarità, rispetto alle altre: è con tutta probabilità più lunga dell'opera di cui tratta. Oggi, infatti, parliamo di un cortometraggio di soli nove minuti; ma non fate l'errore di darlo per scontato, perché a dispetto della scarsa durata ci troviamo di fronte ad un'opera peculiare e dai contenuti profondi. Ecco a voi Aquatic Language, creatura del regista Yasuhiro Yoshiura. Buona lettura (e visione)!

In un futuro non troppo lontano, alcune persone totalmente diverse fra loro si ritrovano in un bar, proprio come al giorno d'oggi. Ognuno ha la sua storia da raccontare: un ragazzo è stato lasciato dalla fidanzata, e una cameriera cerca di consolarlo come può; una ragazza insiste nel voler raccontare a un'amica una faccenda che, in realtà, non ha sentito di persona. A un altro tavolo due uomini alle prese con problemi diversi: l'uno concentrato sulla "forza del linguaggio", l'altro su un quadro presente nel locale che, giura, ha visto animarsi. Infine una giovane la cui unica compagnia sono dei libri con delle citazioni dalle leggi della robotica di Asimov e da Jules Verne. C'è un trait d'union tra queste persone? E se sì, qual è?

Aquatic Language è un'opera che può facilmente trarre in inganno. A prima vista, infatti, sembra rispettare il classico canovaccio delle storie con questa ambientazione: persone disilluse, cameriere compassionevoli, conversazioni apparentemente prive di senso, e in generale quel crocevia di persone che solo in un bar si può trovare. Il più grande pregio dell'opera sembra essere, a questo stadio, l'ottima sceneggiatura, sempre scattante e attenta alla plausibilità dei dialoghi. Ogni personaggio, infatti, ha la sua voce, che a volte vuole imporsi su quella degli altri - vedi l'uomo che, invece di partecipare ai dilemmi filosofici dell'amico, preferisce pensare al quadro - e che non ha nemmeno bisogno di essere espressa a parole per veicolare la sua potenza.

Tuttavia, durante i primi minuti, può essere difficile entrare nell'atmosfera dell'opera, sia per i bruschi passaggi da un tavolo all'altro sia perché non si riesce ancora a capire il senso generale. Ovviamente, da una durata così esigua, non è nemmeno lecito aspettarsi un'introspezione psicologica pari a quelle presenti in produzioni più articolate, sebbene l'autore faccia il possibile con i mezzi a disposizione. Difatti i personaggi sono più tipi che individui, basati sugli stereotipi che abbiamo già elencato e, ad eccezione di uno, non evolvono con il trascorrere dei minuti. Tuttavia, a ben guardare, è l'essere stereotipati la loro forza. È facile rapportarsi perché tutti noi abbiamo conosciuto persone come loro, e ci siamo posti i loro stessi interrogativi. Si arriva ben presto a rimpiangere di passare in loro compagnia soltanto nove minuti, e ci si chiede quale sia, alla fine, il legame intrinseco che li unisce.

Infine, inaspettato, ecco arrivare il legame, e il senso dell'opera. Quello che realmente li accomuna è la capacità di comunicare, e l'aver scelto lo stesso momento per farlo. Così facendo non si rivolgono soltanto al loro interlocutore, come credono, ma a tutti i presenti, e forse all'umanità intera, come mostrato in una scena di rara poesia che lasciamo al lettore il piacere di scoprire. Le loro parole non terminano nell'atto del parlare ma continuano a lasciare un segno. Un segno inconsapevole che però non mancherà, prima o poi, di manifestarsi anche negli altri presenti. Ogni personaggio, con i suoi discorsi, siano espressi con veemenza, amarezza, o senza l'ausilio del linguaggio verbale - contribuirà a veicolare questa verità. Soltanto ad uno, però, sarà dato di scoprirla: gli altri rimarranno chiusi nel loro mondo, ignari di quello che stanno, di fatto, costruendo. E forse è meglio così, perché è anche la loro spontaneità che la rende unica. L'opera lascia diverse possibilità di interpretazione: quella qui riportata è soltanto una delle alternative possibili. Lo stesso vale anche per altri piccoli misteri disseminati nel corso dell'opera.

Data questa profondità di contenuti - ancora più sorprendente se consideriamo che si tratta di un'opera prima - spiace constatare che il vero anello debole sia il comparto tecnico. Se le musiche e il doppiaggio fanno il loro onesto lavoro senza strafare, la parte grafica è un po' deludente, con un character design blando e alcune scelte di fotografia a parere di chi scrive opinabili. Tuttavia la regia ha un passo deciso, a cui, dopo un momentaneo spaesamento, è facile abituarsi, e la computer graphic è usata con cura, senza sembrare fuori luogo. Bisogna inoltre considerare che il regista non ha avuto alle spalle uno studio che si prendesse cura del lavoro; perciò, date queste premesse, i risultati ottenuti sono tutto sommato soddisfacenti.

Aquatic Language è un'opera interessante, che riesce a veicolare dei messaggi di rilievo nonostante - o forse proprio per - la sua brevità. Se avete a disposizione nove minuti, considerate l'idea di usarli per guardare questo cortometraggio. Potrebbe sorprendervi.

...E per oggi è tutto, cari amici. Arrivederci alla prossima puntata de "Il Tempio degli Otaku"!

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