lunedì 29 dicembre 2014

Bilancio dei libri 2014: il meglio e il peggio!



Come ogni fine anno, eccomi a fare il bilancio delle letture: ho varato in lungo e in largo la mia libreria Anobii, che questa volta conta venti libri terminati in più dello scorso. Il numero esatto è 80 e il caos degli ultimi tre mesi mi ha impedito di arrivare a 100. Il numero di pagine totali è 19.887, cioè una media di 250 pagine a libro. La qualità delle letture sembra migliorata rispetto allo scorso anno: cinque libri da cinque stelle, solo tre libri da una stella ma dieci da due stelle, mentre i libri valutati tre stelle sono stati trentatré e quelli a cui ho assegnato quattro stelle sono stati ventinove. Devo precisare che il confine tra tre e quattro stelle può essere stato talvolta labile e che in media le letture sono state buone, anche se non necessariamente eccellenti. I più curiosi potranno vedere, sotto, la foto con la lista degli ottanta libri letti quest'anno.
La parte più difficile del resoconto annuale è, però, quella in cui devo decretare i libri migliori e peggiori. Ho sempre assegnato una categoria a sé agli Young Adult perché, quando il blog è nato, ne recensivo diversi. Ormai però il motivo è andato venendo meno e, non a caso, le uniche tre stelle sono state assegnate a libri per giovani adulti. D'altro canto, sono stata costretta, per esclusione, a incoronare come Miglior Young Adult un libro a cui ho dato solo tre stelle e credo quindi che dal prossimo bilancio questa categoria sparirà, magari facendo posto a un'altra.
Da questa classifica che vede due estremi mancano, naturalmente, libri bellissimi che meriterebbero altrettanti elogi . Li cito qui per dare loro giustizia: Lolita, Le relazioni pericolose, La ragazza con l'orecchino di perla, Il dio del massacro, L'amante (Duras), Cecità, Non lasciarmi e i vari episodi di Una serie di sfortunati eventi. Ho letto più classici ma sono ulteriormente intenzionata, per il 2015, a eliminare libri con alta possibilità di prendere una e due stelle (e mi farebbe piacere togliere anche quelli da tre, che mi lasciano un senso fastidiosissimo di insoddisfazione, ma questo non è facilmente prevedibile). Vorrei fosse presente ancora più letteratura contemporanea, e per questo ho stilato la TBR 2015, che trovate in un'altra foto in basso. Come scrivevo su Instagram e sulla pagina facebook,
è, come mio solito, una tbr utopica: anche se quest'anno sono riuscita a leggere libri di 900 pagine, mettere nella stessa lista Il secondo sesso, Infinite Jest e L'Ulisse (io che da due anni ho in lettura I miserabili) è un suicidio. C'è da dire, comunque, che il 2015 sarà l'anno della mia laurea, quindi forse avrò qualche mese di stop per leggere, scrivere, curare il blog (anche in questo, forse qualcuno avrà notato che il mio impegno negli ultimi 12 mesi è stato più carente. Vorrei tanto avere un clone. Vi prego, regalatemi un clone). Sui 48 libri della TBR 2014, sono riuscita a leggerne ben 8. Nella TBR 2015 sono invece presenti 41 libri: 21 romanzi (colonna a sx) e 20 saggi (dx). Li ho scelti in base a due criteri: imprescindibilità e volumi che ho già in casa. Sono infatti quasi tutti libri che ritengo importante leggere e sono per intero libri che già posseggo e che non posso continuare a tenere lì - e poi la consapevolezza di aver oltrepassato i 100 libri ancora non letti mi sta facendo passare la voglia di comprarne di nuovi. Alcuni però sono eBook; insomma, ho bisogno di colmare lacune di capretta. Potrei anche stilare un'altra TBR parallela visto che, tra l'altro, questa è assolutamente insufficiente, ma già riuscire a leggere questi 41 sarebbe un miracolo.
Vi lascio quindi alla mia classifica e attendo di leggere la vostra :) 



MIGLIOR LIBRO LETTO:

Sul miglior libro 2015 ci sono stati pochissimi dubbi. L'urlo e il furore, di cui trovate un breve commento QUA, è stato una lettura immensa. Malgrado la complessità dello stile, quasi interamente basato sul flusso di coscienza, è riuscito a farsi divorare e a farmi venire voglia di leggere altro dell'autore.



PEGGIOR LIBRO LETTO:

Come già detto, i tre peggiori libri sono stati tutti Young Adult. Dovendo variare la categoria ho quindi inserito questo libro da due stelle, anche se mi stanno venendo i dubbi sul perché sia stata tanto generosa. Le tematiche, sì, sono importanti e vorrebbero essere affrontate con leggerezza. Ma in realtà L'incredibile viaggio del fachiro che restò chiuso in un armadio Ikea è un coacervo snervante di luoghi comuni e banalità senza fine, che non è riuscito nemmeno una volta a strapparmi un sorriso e piuttosto è stato bravissimo a irritarmi e annoiarmi.



MIGLIOR CLASSICO:

Il premio come miglior classico va quest'anno a un libro che ho esitato troppo a leggere: La signora Dalloway. Un'altra esperienza con il flusso di coscienza, devo dire meno cervellotica e più rilassante, anche per le ambientazioni urbane e la personalità di Virginia Woolf che sento più affine di quella di Faulkner. Ho comprato l'edizione Feltrinelli tradotta e curata di Nadia Fusini, massima esperta dell'autrice inglese, e mi sono goduta un viaggio entusiasmante nei meandri psicologici della Woolf, rappresentati dagli alter-ego Mrs Dalloway e Septimus.


MIGLIOR YOUNG ADULT:

Come ho accennato, questa è una categoria che verrà depennata: è un po' inutile definire miglior Young Adult un libro che ho apprezzato molto relativamente. Di Raven Boys, che ha fatto scintille nel web, trovate la recensione QUI. Io l'ho trovato manchevole, seppur abbia apprezzato il tentativo di non rifilare ai lettori l'ennesima storia d'amore stucchevole.



PEGGIOR YOUNG ADULT:

Holly Black doveva essere la meraviglia delle meraviglie. La geniale, fantasiosa, originale autrice Young Adult. Anche no. Fate delle tenebre - e a me le fate neanche dispiacciono - è scritto così male ed è talmente pieno di buchi narrativi e cose totalmente prive di senso logico che, da un certo punto in poi, ho cominciato a soffrire durante la lettura. E si tratta di ben 665 pagine, che mi sono sembrate lunghe almeno il doppio. Nota per me stessa: se proprio devi leggere Young Adult, fallo a piccole dosi. Spararsi un mattone di questa roba non è stata decisamente una buona idea.



MIGLIOR ESORDIENTE:

Il miglior esordiente quest'anno è davvero, davvero, meritevole. L'autrice afropolitan Taye Selasi, come ho detto fino alla nausea anche QUI, è un mostro di scrittura. E' brava come una Holly Black non si sognerà mai di essere. Mi aspetto grandissime cose da lei, e il suo La bellezza delle cose fragili è decisamente sul podio dei migliori libri letti nel 2014.


LIBRO PIU' DELUDENTE:

Solo una domanda: perché? Di Paul Auster avevo letto L'invenzione della solitudine. Bello, elegante, profondo. Poi mi trovo davanti questi tre racconti gialli che formano Trilogia di New York: tematiche ancestrali, collegamenti internarrativi, misteri e indagini. Sembrava interessante.
E invece no.
Questo libro è stato, semplicemente, la noia. Roba che fa un baffo a Moravia e Brancati - maestri, loro - sul tema del nulla cosmico. Darò un'altra possibilità a Auster, ma questa cocente delusione non sarà presto dimenticata.



MIGLIOR SAGGIO:

Di saggi, quest'anno, ne ho letti pochini. Ma uno mi è proprio rimasto nel cuore: Perché scrivere di Zadie Smith. Sì, forse ha qualche difetto. Sì, certe volte l'autrice sembra un po' vaga. Ma è scritto meravigliosamente. E io, alle cose scritte così bene, non riesco proprio a dire di no.

 



I libri che vorrei leggere nel 2015... clicca sull'immagine per ingrandirla!

Libri letti nel 2014. Clicca sull'immagine per ingrandirla




giovedì 25 dicembre 2014

Calendario dell'avvento: 25 dicembre




Buongiorno lettori,

mentre immagino che starete ultimando il pranzo di Natale - forse - vi dedico l'ultima puntata di questo Calendario dell'avvento, che spero vi abbia dato idee pre e post natalizie. Vi faccio anche tanti auguri di un sereno Natale ricco di libri ;)

E' passato diverso tempo da quando ho letto Il giovane Holden. Quattro anni, per la precisione, anche se a me sembrano molto di più. Mi era piaciuto, ma sul momento non avevo realizzato la grandezza di Salinger - su Anobii è da me valutato solo quattro stelle. In realtà i veri capolavori si riconoscono quando, a distanza di anni, ti sorprendi a pensare proprio a quel libro là. Il giovane Holden mi è tornato in mente diverse volte, perché è l'espressione più bella dell'ingenuità fanciullesca, non condizionata e non opportunistica, che vive di sogni, di idee e di ideali. Holden Caufield rappresenta la parte più nascosta di noi, quella che abbiamo seppellito e dimenticato: e non parlo della parte anticonformista che fa difficoltà a crescere e ad adattarsi al cinico e razionale mondo degli adulti, ma di quella che sa trovare la bellezza nella realtà che ci circonda e riesce a vivere con stupore anche gli eventi più comuni. Così Holden dona i soldi alle suore per la questua  nonostante sia ateo, e preferisce chiacchierare e conoscere una prostituta anziché farle fare quello per cui è stata pagata. Holden è un impacciato ragazzo che vuole scappare. Dalle restrizioni, dalle convenzioni, dalle gabbie sociali che non ti lasciano alternativa: o ti adegui, o vieni lasciato ai margini. Holden preferisce l'ultima opzione. Chissà se poi, questa malattia della fanciullezza, gli sia mai passata.

Non facevamo che tenerci per mano, ad esempio. Vi sembrerà una cosa da niente, lo capisco, ma era fantastica quando la tenevate per la mano. La maggior parte delle ragazze, provate a tenerle per la mano, e quella maledetta mano o muore nella vostra, o loro credono di dover continuare a dimenarla tutto il tempo, come se avessero paura di annoiarvi o che so io. Jane era un'altra cosa. Andavamo in un dannato cinema o in un posto così, e subito cominciavamo a tenerci per mano, e non ci lasciavamo sino alla fine del film. E senza cambiare posizione né farne un affare di stato. Con Jane non stavi nemmeno a pensare se avevi la mano sudata o no. Sapevi soltanto che eri felice. E lo eri davvero.

martedì 23 dicembre 2014

Calendario dell'avvento: 23 dicembre


Cosa vuol dire essere una donna?
No, non è una domanda stupida. Non è una di quelle domande che rientrano nell'ordinario, forse persino nel comprensibile, ed è una domanda che pochi si pongono. Cosa significa nascere donna?
Eppure ci sono cose che non puoi proprio capire se non sei marchiato da questa condanna - è troppo estremo definirla così? Non puoi capire il groviglio allo stomaco che ti toglie il respiro quando senti notizie di stupri o violenze al telegiornale. Non puoi capire l'attesa straziante, una volta al mese, nella speranza di avere/non avere in grembo il frutto dell'amore più grande della tua vita o forse solo della spensieratezza di una notte. E non puoi capire la desolazione e la rabbia di essere considerata una merce di scambio in un branco di lupi che in te vedono spesso solo le gambe e mai qualcosa di più. Una donna è la storia di tutte le donne: violentate, sottomesse, picchiate, calpestate, ignorate, uccise. Uccise come esseri umani, legate indissolubilmente ad un uomo, subordinate al ruolo di vittime e di oggetti. Sibilla Aleramo - al secolo Rina Faccio - ci racconta la sua vita, o una parte di essa. Con commozione, ma allo stesso tempo con fermezza, in maniera elegante, rivelando senza vergogna segreti inconfessabili e denudandosi per quello che è, solo per il suo essere maledettamente donna.

Amare e sacrificarsi e soccombere! Questo il destino suo e forse di tutte le donne?

E' un destino a cui Sibilla-Rina decide di non sottomettersi, anche a costo di rinunciare all'unica persona che la ami e che lei ama veramente. E' la sua una scelta deplorabile? E' una donna meschina, egoista, vigliacca?
No, è una donna e basta, una donna segnata dall'ignoranza di un marito violento e rozzo, una donna che ha tutto il diritto di vivere cercando di fuggire da una realtà che vuole soltanto avvelenarla lentamente.
Così come sua madre, in cui Sibilla rivede tutta se stessa, arrendersi al ruolo di moglie significherebbe morte o pazzia. E così come la sorella, che rappresenta il suo passato da giovinetta, ella crede ancora fondamentalmente nell'amore o nella forma che più gli si avvicina.
Una donna è un romanzo che va letto poco a poco, nonostante la sua scarsa mole, ed inghiottito pezzo per pezzo, assaporandolo a bocconi amari. E poi , alla fine, chiudere il libro e chiederselo veramente... Cosa vuol dire essere donna?


Perché nella maternità adoriamo il sacrifizio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell'immolazione materna? Di madre in figlia, da secoli, si tramanda il servaggio. E' una mostruosa catena. Tutte abbiamo, a un certo punto della vita, la coscienza di quel che fece pel nostro bene chi ci generò; e con la coscienza il rimorso di non aver compensato adeguatamente l'olocausto della persona diletta. Allora riversiamo sui nostri figli quanto non demmo alle madri, rinnegando noi stesse e offrendo un nuovo esempio di mortificazione, di annientamento. Se una buona volta la fatale catena si spezzasse, e una madre non sopprimesse in sé la donna, e un figlio apprendesse dalla vita di lei un esempio di dignità?

N.B.: ripropongo questo consiglio, già pubblicato sul blog in data 19/12/10 

"La forza della poesia": Laura Tedesco interpreta Emily Dickinson



Letteratura e vita, arte e poesia. La natura umana trova forma nelle espressioni più arcaiche e intrinseche di istintualità: la danza ha, in questo senso, un posto privilegiato, ma la gestualità del teatro ha un'importanza altrettanto decisiva nella manifestazione di un sentire che è insieme corale e individuale. 
Lo storytelling che ci affascina da tempi primordiali (trovate QUI un approfondimento su questo argomento) parla di noi: "ogni lettore, quando legge, legge se stesso". E la poesia, che comunque ha avuto anche un ruolo sociale, politico, critico, è lo specchio più limpido delle emozioni, delle gioie e delle paure - di nuovo - universali e personali. Facciamo parte della stessa razza umana e quindi proviamo le stesse cose da migliaia di anni, esprimendole con gli stessi mezzi, alcuni dei quali considerati ormai desueti. C'è bisogno di ritrovare contatto ed empatia con l' "altro"; di ritornare a vivere di quegli strumenti catartici che una volta coinvolgevano la comunità e che rendevano la letteratura un modo di conoscere, prima che se stessi, l'alterità. Ora, come si è accennato in passato, si fanno strada altre forme. Ma c'è chi insiste, a ragione, sulla sopravvivenza della poesia, data per lo più per morta anche da un sistema editoriale che non le concede spazio. Per questo motivo, a Frascati nel mese di maggio si organizza ormai da quattro anni "La forza della poesia", una serie di convegni che celebrano ogni volta un autore diverso. Dopo Leopardi, Dante e Omero, l'edizione 2014 si è concentrata su Emily Dickinson: numerosi e diversissimi gli interventi avvicendatisi nelle piazze di Frascati, che hanno coinvolto adulti e bambini e hanno fatto risuonare le vie dei versi di questa magistrale poetessa.
Un esperimento interessante è poi stato condotto da Laura Tedesco, che, sotto la regia di Tommaso Capodanno, ha dato vita a monologhi teatrali di forte impatto ricavati da testi appositamente selezionati e tradotti di Emily Dickinson. Interpretazioni lontane dal teatro di prosa a cui i tempi moderni ci hanno abituato, e dove viene ridata voce a un'autrice che faceva del suo universo intimo un'esplosione di delicatezza e sensibilità. 
Abbiamo avuto il piacere di intervistare Laura, che si è prestata con grande competenza e professionalità alle nostre domande.



Laura Tedesco in "Il ritmo del desiderio"


Interview with...

Laura Tedesco

Laura, la forma teatrale da lei scelta è abbastanza originale, perché coniuga l'arte della recitazione alla poesia. L'idea è nata in funzione della manifestazione “La forza della poesia” o la sua genesi è precedente?

Innanzitutto voglio premettere che considerare la recitazione e la poesia due arti separate e distinte è un’idea piuttosto moderna: se si da un’occhiata alla storia del teatro ci si rende immediatamente conto che la maggior parte dei drammaturghi ha scritto delle opere in versi. Shakespeare scriveva in versi e, per andare addirittura alle origini, Euripide, Sofocle ed Eschilo utilizzavano il trimetro giambico. Questo per dire che, almeno da questo punto di vista, non mi sono inventata nulla di nuovo, anzi forse sono semplicemente tornata alle origini. Detto ciò, sono anni (quindi da molto prima de “La forza della Poesia”) che mi interrogo su i modi per realizzare una comunicazione artistica a tutto tondo dove parola, corpo, voce ed emozioni si uniscano in modo da dialogare efficacemente con lo spettatore. Probabilmente, dunque, è per questo che sono spesso “incappata” nella poesia (e nelle poetesse): tra tutte le forme d’arte, infatti, essa è quella che parla più direttamente al cuore della gente e avendo io stessa il medesimo scopo non potevo non utilizzarla.


La Dickinson è un'autrice molto intimistica, che parla al cuore. Quali sono state le difficoltà nel dare voce ai suoi sentimenti, dovendosi basare esclusivamente sull'uso di monologhi e cambiando il modus operandi in base al componimento?

Credo che proprio il fatto che Emily Dickinson sia un’autrice che parla direttamente al cuore di chi la legge, abbia facilitato il mio lavoro attoriale: le sue poesie sono così intense, dirette e, allo stesso tempo, universali che spesso erano loro stesse a guidare la mia interpretazione. Credo che non averla pensata semplicemente come autrice ma, soprattutto, come personaggio di cui vale la pena parlare perché spesso frainteso e maltrattato da innumerevoli pregiudizi mi abbia aiutato a individuare la strada corretta da seguire per riuscire a comunicare la sua storia.


Con quale criterio sono state scelte le poesie da tradurre e interpretare?

La selezione delle poesie adatte a costruire la drammaturgia dello spettacolo è stato un lavoro lungo e articolato che io e Tommaso Capodanno, il meraviglioso regista de “Il Ritmo del desiderio”, abbiamo affrontato con estrema scientificità: abbiamo letto, diviso per temi, stagioni e momenti del giorno, ogni singola poesia o lettera che la Dickinson ha scritto fino al 1866, quando all’età di 36 anni decise di rinchiudersi in casa. Fin dall’inizio ci era ben chiaro che la domanda a cui avremmo tentato di rispondere era perché Emily, così piena di passione e di vitalità, avesse preso una tale decisione, dopo di che sono state le sue stesse parole e la sua stessa storia a guidarci verso una selezione che potesse costituire una drammaturgia forte e rispondere alla nostra domanda.
Dopo la selezione c’è stato il mio lavoro di traduzione che, devo ammettere, è stato un bellissimo e inconsueto modo di entrare nel personaggio e viverlo attraverso la comprensione del suo modo di articolare il pensiero.


Nel 1975 Montale, durante un discorso tenuto all'Accademia di Svezia in occasione dell'assegnazione del Premio Nobel, si chiedeva un po' retoricamente quale sarebbe stato il posto della “più discreta delle arti” nel paesaggio di esibizionismo isterico creato dai mass media. A distanza di quarant'anni le prospettive della poesia sembrano essersi notevolmente ridotte, tornando in auge solo grazie ad eventi occasionali come la premiazione di un'altra autrice, Wisława Szymborska, nel 1996. Tirando le somme, quale possiamo dire che sia il futuro della poesia in una società ormai sempre più veloce e restia alla riflessione? Si sente pessimista come Montale?

Io credo, e Montale probabilmente sarebbe d’accordo, che la poesia intesa come “ buona poesia”, cioè come arte che parla al cuore, non sia destinata a morire. La nostra società si è trasformata e, per quanto in molte cose il cambiamento sia scioccante e in peggio, trovo sia anche giusto prenderne atto e andare incontro alle sue nuove necessità. Da sempre la poesia è lo spazio che accoglie “lampi” di pensiero e riflessione sul mondo che ci circonda, proprio per questo la sua morte in un epoca così sfaccettata e in continuo sommovimento è da considerarsi impossibile: anche se la gente spesso ne è totalmente ignara, c’è sempre bisogno di uno spazio per pensare e dare respiro alle emozioni che la vita quotidiana sembra voler annientare. Non a caso, il nostro tempo è quello della psicanalisi, dello yoga e del buddismo in pillole: tutte attività che, nella loro banalizzazione mediatica, testimoniano un bisogno di interpretare e spiegare il proprio stare nel mondo. Da questo può nascere una certa speranza per le sorti della “vera” poesia, nel momento stesso in cui si posiziona con onestà come specchio del mondo e delle sue contraddizioni e non come semplice artificio letterario.


Abbiamo parlato poco tempo fa del destino della letteratura, e quindi non solo della poesia. In particolare, del ritorno a una cultura orale che vede nelle serie tv la più potente delle sue espressioni – persino più del cinema, a mio avviso, perché maggiormente capace di fidelizzare il lettore – e che forse soppianterà definitivamente quella scritta. Serie tv e opere teatrali hanno in comune l'uso recitato della parola, seppur con metodi molto diversi. Se le serie tv saranno il nuovo veicolo della letteratura, crede che anche la poesia, attraverso il teatro, riuscirà a sopravvivere?

Non credo che il paragone possa reggere: le serie tv sono un mezzo di comunicazione estremamente contemporaneo, mentre il teatro è una delle forme artistiche più antiche, coetanea della stessa poesia che dovrebbe salvare. Detto ciò, se il teatro e la poesia imparassero a misurarsi con quei cambiamenti sociali di cui abbiamo parlato pocanzi, sicuramente avrebbero la forza e la capacità non solo di sopravvivere ma di dare il proprio apporto alla crescita e allo sviluppo dell’uomo contemporaneo. Proprio il fatto che adesso le serie tv sono così famose dovrebbe farci rendere conto che gli uomini e le donne, seppur avviluppati in un tran tran quotidiano svilente e omologante, hanno ancora bisogno di sentirsi raccontare. Questo può portarci a fare delle riflessioni: sebbene bisogna ammettere che il teatro e la poesia, ma anche tutte le arti più antiche, sono in un momento di grave difficoltà, è evidente che l’uomo sente ancora la necessità di avere uno specchio artistico che lo rappresenti e si lascia ancora attrarre da quelle storie che gli permettono di affrontare catarticamente il proprio presente. Ecco che allora, forse, bisognerebbe che le arti si interrogassero, mantenendo le proprio peculiarità e i propri valori, su come poter fare fronte a queste esigenze, che a ben vedere, si ripetono ciclicamente per tutta la storia dell’umanità.


Cosa pensa che sia, oggi, la letteratura? Cosa è sempre stata per lei e cosa invece sarà un giorno?

Le sembrerà una risposta sciocca, ma non mi sono mai interrogata su cosa sia stata ieri e neanche su cosa sia oggi la letteratura. Probabilmente perché per me la letteratura è vita e, dunque, ho sempre affrontato la pagina scritta con la curiosità e l’istintualità con cui affronto tutti gli aspetti della realtà che mi circonda. Detto ciò, secondo il vocabolario Treccani la definizione di Letteratura sarebbe “in origine, l’arte di leggere e scrivere; poi, la conoscenza di ciò che è stato affidato alla scrittura, quindi in genere cultura, dottrina”. Ma questa definizione non credo contraddica il mio pensiero perché se per letteratura si intende la capacità di scrivere e di conoscere cosa si è scritto in passato, la deduzione semplificata ma alquanto logica è che l’argomento di cui si scrive resta, in qualunque sua sfaccettatura e declinazione, la vita. Dunque la letteratura è il modo in cui l’uomo ‘ferma’ e lascia in eredità le sue riflessioni sul mondo, ecco perché, andando oltre le svilenti definizioni scolastiche e pseudo didattiche, è di vitale importanza per noi conoscere sia quella passata che quella contemporanea: bisogna essere consapevoli di cosa c’è stato e di cosa c’è intorno a noi. Non credo di poterle dire cosa sarà in futuro, perché penso che nessuna arte, come la letteratura, è più strettamente interconnessa con le contingenze spazio-temporali in cui si trova a esistere. Posso dirle che spero che il nostro futuro non insegni l’oblio alle nuove generazioni e che mai si smetta di riflettere sull’esistenza. Ma questa appunto è solo una speranza; dal canto mio, mi impegno ogni giorno affinché, attraverso la mia ricerca artistica, non si perda memoria della naturalezza con cui da sempre si è svolta questa strana attività umana che è il pensiero. L’arte, il teatro, la poesia etc. sono il mio modo di affrontare la realtà e condividerla con chi mi circonda: al di là delle difficoltà contingenti, credo sia mio dovere trovare sempre il modo di esprimermi e arrivare al cuore dell’attenzione dello spettatore.


lunedì 22 dicembre 2014

Calendario dell'avvento: 22 dicembre




Chiedendo umile perdono per l'assenza di questi giorni - sono stata fagocitata da tesi, studio e regali natalizi da comprare per mezzo mondo - sottraggo tempo ai libri di linguistica e vi parlo di un romanzo che esprime poesia già dal titolo: Chocolat.
Joanne Harris è una delle mie penne preferite. Di suo ho letto Il fante di cuori e la dama di picche - che, nonostante le recensioni negativissime, è riuscito anni fa a piaciucchiarmi - e Le scarpe rosse, seguito del libro di cui vi parlo oggi.
L'incipit di Chocolat si aggiunge a quelli di cui vi ho parlato in termini entusiastici. Poche autrici sono capaci di ricreare con tanta nitidezza le atmosfere autunnali, i colori e gli odori per le strade, riempiendo non di descrizioni ma di sensazioni pagine e pagine ricche di incanto. La trama, forse la conoscete, parla principalmente di donne - o, meglio, del loro fascino: donne vere e reali che devono reagire a unioni coniugali disastrose, donne piene di segreti, donne, come la protagonista, irriverenti, seducenti e un po' magiche. La magia in Chocolat, contrariamente che ne Le scarpe rosse, non è esplicita. Si tratta solo di un sottofondo lasciato all'aleatorietà - credo sia corretto parlare di realismo magico - e unito a un elemento fortemente erotico: il cioccolato. E Vianne è una donna sola con una bambina figlia di chissà chi, elemento che, nel bigotto paesino dove arriva e decide di aprire la sua cioccolateria, non può passare inosservato. Anche perché è il periodo di Quaresima, e la tentazione del cioccolato e della serafica donna che lo cucina sembra voler catturare i cittadini per spedirli dritto all'Inferno - almeno secondo le parole dell'antagonista, il Curé Reynaud. I temi affrontati sono tanti: la xenofobia, i piaceri della vita, la libertà in tutte le sue declinazioni e la liberazione dalle schiavitù del perbenismo e del moralismo. A coronare personaggi magnifici, profondi e accattivanti c'è, come già accennato, lo stile puro e fatato di Joanne Harris, una scrittura intensa ed elegante che, esattamente come Vianne, non mancherà di ammaliarvi. 

mercoledì 17 dicembre 2014

Calendario dell'avvento: 17 dicembre



Il profumo è uno di quei libri che non esito a definire capolavoro. Ha uno stile particolarissimo: nonostante le pochissime descrizioni,  l'autore riesce a farci immaginare i paesaggi attraverso gli odori. Il protagonista è un uomo brutto e scialbo, un genio o un folle a seconda dei punti di vista, nato in un modo che non è degno di un essere umano, e subito abbandonato. E infatti Grenouille non ha nulla di umano: non ha morale, non ha coscienza, non prova sentimenti, non ha nemmeno un odore che lo rassomigli agli altri uomini. Ma ha una grande capacità: sa fiutare gli odori meglio di qualunque altro, a miglia di distanza, e non vive che per quelli. Non prova amore se non quando, una volta, viene attratto dal profumo squisito di una fanciulla e se ne innamora. Non della ragazza, sia chiaro, ma del profumo. E' un libro perverso, che tocca le corde della natura umana e contemporaneamente se ne dissocia. Suskind crea nel lettore un tale senso di disagio che agli animi più sensibili condizionerà irrimediabilmente la lettura. Il disgusto verso il protagonista, la sua vita, il suo modo di agire e quello in cui diventerà un assassino solleticano le pieghe più profonde della nostra coscienza: perché, come detto, sappiamo che Grenouille dovrebbe essere umano, ma nulla in lui dimostra che lo è. Non parlo della sua stranezza, forse nemmeno della sua tendenza ad uccidere, che per lui rappresenta solo il raggiungimento di uno scopo. Grenouille è animalesco, una bestia fuori dalla nostra comprensione. In lui c'è il male puro e semplice, e l'esistenza del male non psicologicamente motivato è una delle cose che non riusciamo ad accettare.


Aveva un odore semplice, il mare, ma nello stesso tempo così vasto e unico nel suo genere, che Grenouille esitava a suddividerlo in odore di pesce, di sale, di acqua, di alga, di fresco e così via. Preferiva lasciare intatto l'odore del mare, lo custodiva intero nella memoria e lo godeva indiviso. L'odore del mare gli piaceva tanto che avrebbe desiderato una volta averlo puro, non mescolato e in quantità tale da potersene ubriacare. E in seguito, quando apprese dai racconti com'era grande il mare e come si poteva percorrerlo con navi per giorni interi senza vedere terra, nulla gli fu più gradito che immaginare di trovarsi su una di quelle navi, molto in alto nella coffa dell'albero più a prua, e di volare attraverso l'odore senza fine del mare, che in realtà non era più un odore, ma un respiro, un espirare, la fine di tutti gli odori, e gli pareva di dissolversi, in questo respiro, dal piacere.

martedì 16 dicembre 2014

Calendario dell'avvento: 16 dicembre






E' scontato ma assolutamente indispensabile commemorare oggi, nell'anniversario della sua nascita, i libri di Jane Austen. Non vi indirizzerò, per questo consiglio natalizio, verso Orgoglio e pregiudizio, ma piuttosto verso il suo secondo romanzo che preferisco: Northanger Abbey. Non so spiegare nemmeno io le motivazioni che mi inducono a preferirlo a Emma o a Ragione e Sentimento, credo semplicemente che sia l'espressione più potente dell'ironia di Jane, un'intera parodia del genere gotico che in alcuni punti mi ha fatto spuntare le lacrime delle risate. Anche oggi, a distanza di anni, quando rileggo per l'ennesima volta l'incipit, i miei occhi non possono che illuminarsi - ho un amore così viscerale per la scrittura di Jane che l'adorazione supera anche le barriere del tempo, e ogni volta è come la prima. L'incipit di Northanger Abbey è, appunto, uno di quelli che preferisco: sprigiona tanta di quella intelligenza e senso dell'umorismo che mi sento sempre il cuore scoppiare alla presenza della sua genialità - sì, sono terribilmente malata. Mi sorprendo spesso a pensare cosa avrebbe detto la Austen, oggi, di tanti argomenti: se il gotico - Jane si burlava affettuosamente dei libri di Ann Radcliffe - era il suo oggetto di scherzo, cosa oggi catturerebbe la sua attenzione? Purtroppo credo che la sua sana ironia si trasformerebbe in un sarcasmo spietato, quello che cominciò a comparire negli ultimi anni della sua vita. Ma Northanger Abbey è stato terminato nel 1803: l'autrice aveva 28 anni, la possibilità di un matrimonio d'amore era naufragata, ma la sua scrittura non era ancora pervasa dalla mestizia che io trovo in Persuasione. Northanger Abbey è invece frizzante, costruito sugli equivoci, con una protagonista imbranata che fa castelli in aria e si sente quasi un'  "investigatrice" che risolve fantomatici delitti del passato. Ma Catherine Morland è solo una ragazzina ingenua: e la cosa meravigliosa è che è assolutamente uguale a qualsiasi altra del nostro tempo. 


Nessuno che avesse conosciuto Catherine Morland nella sua infanzia avrebbe mai immaginato che fosse nata per essere un'eroina. La sua condizione sociale, il carattere del padre e della madre, il suo aspetto e la sua indole, era tutto ugualmente contro di lei. Il padre era un ecclesiastico, né reietto né povero, e un uomo molto rispettabile - sebbene si chiamasse Richard - e non era mai stato bello. Aveva una considerevole indipendenza economica, oltre a due buoni benefici ecclesiastici, e non aveva nessuna tendenza a tenere le figlie segregate. La madre era una donna pratica e assennata, con un buon carattere, e, cosa ancora più degna di nota, con una buona costituzione. Aveva avuto tre figli maschi prima che nascesse Catherine, e invece di morire mettendo al mondo quest'ultima, come chiunque si sarebbe aspettato, continuò a vivere; a vivere tanto da avere altri sei figli, vederseli crescere intorno e godere lei stessa di ottima salute.

lunedì 15 dicembre 2014

Christmas Tales 2015: leggi il racconto, scrivi il tuo finale. In palio Quella vita che ci manca




Buongiorno, lettori!
Immersi nel faticosissimo tran tran di questo dicembre, non abbiamo dimenticato la quinta edizione di Christmas Tales, quest'anno - e solo per quest'anno,  dato che la decisione è stata maturata in virtù della sorpresa in arrivo per il quarto compleanno del blog - rinnovata da una formula ridotta e contemporaneamente accresciuta: se da una parte vi offriamo un solo racconto, infatti, dall'altra tre di voi avranno la possibilità di aggiudicarsi la copia di un libro autografata.
La penna che si è prestata per #ChristmasTales15 è quella molto amata di Valentina D'Urbano, attualmente in libreria con il suo terzo romanzo. E mentre Il rumore dei tuoi passi, ripubblicato di recente da Tea a dieci euro, continua a fare faville, Dusty pages in Wonderland  e Valentina D'urbano vi danno la possibilità di ricevere a casa una delle tre edizioni fuori commercio di Quella vita che ci manca, autografato dall'autrice. In che modo?
Potete leggere qui di seguito il racconto inedito scritto per noi da Valentina, a tema natalizio come nella tradizione di Christmas Tales. Ma il testo sembra interrompersi proprio sul più bello: quale finale immaginate possa avere? Commentate questo post in uno spazio di massimo mille battute (o dieci righe) con il vostro finale ideale - anche più di uno. Il giveaway terminerà il 6 gennaio, giorno in cui verranno scelti da Valentina e dalla sottoscritta i tre finali ritenuti più belli o sconvolgenti. Pubblicheremo anche il racconto completo, già in nostro possesso, con l'idea originale di Valentina. Proprio a lei passo la parola, augurando a tutti buon divertimento e buona lettura!



  



Ciao a tutti! Viste le premesse non mi resta che augurarvi buon divertimento e tanta ispirazione. Credo che una storia, un racconto o un romanzo appartenga per metà a chi lo scrive e per metà a chi lo legge, e questa mi sembra una buona occasione per rimarcare il concetto. Ho immaginato e scritto questo racconto in funzione di un finale ben preciso e non ho idea di cosa inventerete voi, perciò non vedo l'ora di leggere i vostri finali alternativi! Buone feste dunque, e buona scrittura!





Il regalo di Natale 

di Valentina D'Urbano 


Scende giù dal paese a folle velocità. Il Cayenne ha lo stesso colore della neve intorno e sbanda e stride sull'asfalto ghiacciato, ma lui quelle strade le conosce da quando è nato, non lo tradiranno proprio adesso.
Corre come un invasato, come se stesse facendo tardi al suo matrimonio.
Corre come avesse il diavolo attaccato al culo.
Eppure non ha fretta.
È solo che la macchina è nuova e profuma ancora di cellophan e plastica pulita, e non ha un graffio, è lucida, veloce.
E adesso, mentre corre a un appuntamento per cui è già in ritardo, sa perfettamente che quell’auto se l’è guadagnata. E vuole godersela.

Quella mattina quando il telefono ha suonato e sul display è apparso il numero di lei, quasi non voleva crederci.
Con che faccia tosta richiamarlo, invece di sparire e di trovarsene un altro.
Ma lei piangendo aveva detto che era di lui che aveva bisogno, che un altro così non lo trovava, che nessuno si fidava di lei per quell'aria che aveva, e invece lui lo sapeva che lei non era una bugiarda, certo, qualche difetto ce l'aveva, però non era una bugiarda.
Stava male senza di lui, c'era un freddo immenso senza di lui, un freddo che nessuna coperta poteva scacciare.
Vediamoci al solito posto, aveva implorato lei piangendo e singhiozzando.
Le aveva fatto pena, era sempre stato un tipo dal cuore tenero.
Va bene, aveva risposto. Ma è l'ultima possibilità che ti do.
In fondo è quasi Natale, anche se lei un’altra possibilità non se la merita affatto.
Ma a Natale sono tutti più buoni, anche lui che è buonissimo tutti i giorni dell’anno, a Natale lo diventa ancora di più.
Parcheggia l’auto su uno spiazzo deserto di fronte a un parrucchiere e a un negozio di cartoleria, chiusi.
Si incammina a piedi giù per la strada tortuosa, nel silenzio.
Pini innevati a destra, campi innevati a sinistra, lui al centro della strada ghiacciata, sopra il cielo grigio che promette altra neve, appena poco più giù una villetta solitaria, di quelle costruite fuori dal paese, con un giardino anch'esso ricoperto di neve, uno striminzito albero di natale che lampeggia di luci colorate e il triciclo abbandonato sul vialetto, come nei film.
Guarda in alto verso le persiane chiuse.
Nessuno. Forse stanno dentro davanti alla tv, forse partiti per le feste.
Prosegue ancora finché le case non scompaiono, lasciando il posto alla strada provinciale.
Adesso c'è solo neve immobile e frusciare di foglie bagnate.
Pensa che vorrebbe fosse estate, e camminare su quella provinciale tra gli alberi verdi, e il verso degli uccelli, e le cicale.
E poi pensa che quando d'estate percorre quella strada vorrebbe fosse pieno inverno, con gli alberi innevati, quella luce boreale e l'odore, l'odore della neve, che non tutti lo sentono, ma lui sì, ti ghiaccia i polmoni, ti fa sentire solo, ma di una solitudine trionfante, la solitudine degli eletti, di quelli che stanno in alto, quelli che hanno conquistato la vetta graffiando la roccia con le unghie e scalciando nel vuoto.
È partito dal basso lui, venuto su dal niente, come quelle piantine timide che tra qualche mese germoglieranno nel ghiaccio.
Adesso, quella piantina nata nella neve, cammina veloce e si stringe il Moncler color panna addosso, nell’eco irreale di quel freddo.
E pensa a lei, a quella che sta andando a incontrare.
Lei che lo prendeva in giro alle scuole medie (sì, le avevano fatte insieme, poi però lei era andata al liceo classico in città, e lui era andato a lavorare giù alla carrozzeria di suo zio, che con la scusa della parentela spesso e volentieri si dimenticava di pagarlo), lei che commentava con sorrisetti odiosi quel suo essere un tredicenne goffo e bruttarello, lei che era bella, bellissima che a quattordici anni già si girava tutto il paese a guardarla, lei che una volta, quando di anni ne avevano diciassette, gli aveva chiesto di uscire insieme e lui ci aveva pure creduto e l’aveva aspettata per tutto il pomeriggio davanti al cancello del cimitero, con le amiche di lei che passavano e ridacchiavano e solo dopo l’aveva capito il perché delle loro risate.
Adesso non funziona più così, adesso l’ordine si è invertito.
Ora è lei che chiama lui, e ha una voce, una voce terribile, una voce piena di male che solo a sentirla ti sale un rigurgito amaro dallo stomaco, sarà che quella ragazza bionda e bellissima adesso gli fa pena, sarà che ormai l’amore che prova per lei è un sentimento acido e stantio. Sarà che non lo sa, sarà che forse non ha il coraggio di chiederselo.
Sa solo che è una vita che Erika si comporta male con lui. Una vita che promette e non mantiene, che pretende e prende restituendo poco e male.
È sempre stata così Erika. Avida, meschina, opportunista.
Non gliene frega niente degli altri, è avida e vuole tutto per sé.
Ma questa è l’ultima volta.

Scavalca il guardrail in un punto in cui il pendio non è troppo ripido e la neve sembra compatta, scende piano con le braccia aperte a cercare di mantenere un equilibrio precario, ma presto è giù, di nuovo in un territorio sicuro, pianeggiante.
Ci sono quegli abeti enormi , quel silenzio carico che gli piace da morire, il rumore dei suoi passi sulla neve fresca.
Dopo pochi metri Erika è lì, appoggiata contro un tronco. La neve le cade in testa e le bagna i capelli ma lei non ci fa caso. Ha occhiaie che sembrano ustioni e la faccia lucida e le labbra secche e screpolate, ma lui quelle labbra le bacerebbe lo stesso, che Erika è bella anche così disperata e sfatta.
«Alessio, ti prego…» mormora, tendendo le braccia verso di lui che fa un passo indietro e nasconde le mani dietro la schiena.
«Ale non mi fare così…» Adesso Erika piagnucola e balbetta e a lui piace sentirla implorare, gli ricorda di tutte le volte che l’ha implorata lui.
Alessio si sfila un guanto, si china a raccogliere un po’ di neve, se la fa sciogliere in mano. Guarda quella e non il viso della ragazza.
«Erika…che devo fare io con te? »
«Non lo so. Non lo so che devi fare. Ale ti prego, io sto male.»
Erika sta per mettersi a piangere come al solito, come ogni volta che discutono, ma qualcosa la blocca.
Spalanca gli occhi, allarmata.
Ci sono delle voci che provengono dal bosco, a pochi metri da loro.
Due voci, forse tre, e si avvicinano.
Probabilmente è qualcuno del paese, qualcuno che conoscono entrambi e Alessio non
ci fa bella figura a farsi vedere insieme a Erika che piange, perché le chiacchiere corrono e poi dicono in giro che hanno visto Alessio Troili maltrattare la Erika Perron, ché poveraccia, già non sta bene di suo e per colpa di lui.
Tutti in paese dicono che Erika si è rovinata a stare appresso a lui, ma non è vero.
Lui a Erika le vuole bene, anche se è una stronza, anche se sette anni prima lo ha lasciato un intero pomeriggio ad aspettarla.
Lui è buono e la gente la perdona.
Non vuole mica vederla soffrire.
Alessio aspetta che quelli delle voci si avvicinino così che possano vederli, e poi fa due passi e la abbraccia, e la faccia di lei è bollente e bagnata di sudore, e Erika adesso piange davvero, gli si avvinghia addosso e tira su col naso in una maniera che fa proprio pena.
«Alessio, per favore, Alessio, io non so che fare senza di te, non mi mollare così, Ale ti prego non mi mollare così, faccio tutto quanto, tutto quello che vuoi, Alessio, Alessio…»
Non la smette più di ripetere il suo nome.
«Stai zitta, che c’è gente, non piangere Erika, piccola, non piangere. Va tutto bene» dice lui mentre quelli passano, adesso in silenzio perché li hanno visti e devono far finta di non essersene accorti, allora Alessio le prende il viso tra le mani e la bacia e le labbra di Erika graffiano e il suo alito è amarissimo, ma continua a baciarla lo stesso, e mentre la bacia glielo dice che quella è l’ultima volta, che così non si può andare avanti, che lui ha tanta pazienza, ma così proprio non può funzionare, e glielo dice dolce, sussurrandolo, e Erika non piange più, Erika si stacca e annuisce decisa e spaventata e sollevata e un altro milione di cose che si mescolano su quel viso bellissimo e scorticato.

«L’ultima volta, va bene piccola? Facciamo che è il mio regalo di Natale per te. Perché ti voglio bene, lo sai, no? Lo sai che ti voglio benissimo, ma questa è l’ultima volta che 

Continua tu, scrivi il finale e ricevi a casa una delle tre copie fuori commercio di Quella vita che ci manca!
E, se vi va, non dimenticate di condividere su Facebook e Twitter ;)



Gennaio 1991. Valentino osserva le piccole nuvole di fiato che muoiono contro i finestrini appannati della vecchia Tipo. L'auto che ha ereditato dal padre, morto anni prima, non è l'unica cosa che gli rimane di lui: c'è anche quell'idea che una vita diversa sia possibile. Ma forse Valentino è troppo uguale al posto in cui vive, la Fortezza, un quartiere occupato in cui perfino la casa ti può essere tolta se ti distrai un attimo. Perciò, non resta che una cosa a cui aggrapparsi: la famiglia. Valentino è il minore dei quattro fratelli Smeraldo, figli di padri diversi. C'è Anna, che a soli trent'anni non ha ormai più niente da chiedere alla vita. C'è Vadim, con la mente di un dodicenne nel bellissimo corpo di un ventenne. E poi c'è Alan, il maggiore, l'uomo di casa, posseduto da una rabbia tanto feroce quanto lo è l'amore verso la sua famiglia, che deve rimanere unita a ogni costo. Ma il costo potrebbe essere troppo alto per Valentino, perché adesso c'è anche lei, Delia. È più grande di lui, è bellissima - ma te ne accorgi solo al secondo o al terzo sguardo - e, soprattutto, non è della Fortezza. Ed è proprio questo il problema. Perché Valentino nasconde un segreto che non osa confessarle e soprattutto sente che scegliere lei significherebbe tradire la famiglia. Tradire Alan. E Alan non perdona. Questo è un romanzo sull'amore, spietato come solo quello tra fratelli può essere. Ma è anche un romanzo sull'unico altro amore che possa competere quello che irrompe come il buio in una stanza.

domenica 14 dicembre 2014

Calendario dell'avvento: 14 dicembre



La bellezza delle cose fragili è uno dei libri più belli che ho letto nel 2014. Lo dico senza esitazione perché Taiye Selasi, che forse ricorderete come giudice di Masterpiece, è un talento: una scrittura così raffinata e allo stesso tempo scorrevole - anche se l'autrice ha la tendenza al preziosismo e ad alcuni periodi complessi - poche volte si incontra tra gli scrittori contemporanei, specie se così giovani.
Quali che siano gli eventuali difetti dello stile della Selasi - e io davvero ne individuo pochi -, ha tutto il tempo e tutte le capacità per limarli. Ma il cuore sostanziale della sua narrazione, tangibile e concreto, non si può negare: Taiye Selasi è brava. E questo libro è meraviglioso.
La bellezza delle cose fragili è una saga familiare che racconta la storia di una coppia ghanese trapiantata in America. Come avevamo anticipato in tempi non sospetti, l'autrice si fa portavoce di una tendenza letteraria chiamata afropolitan che descrive il disagio degli africani emigrati in Occidente, istruiti e con lavori prestigiosi, in bilico tra due culture diverse: quella delle origini e quella con cui sono cresciuti. La morte del capofamiglia Kweku, divorziato dalla moglie anni prima e colto da infarto quando ormai si è trasferito di nuovo in Africa e ha trovato un'altra donna, risveglierà le ferite profonde dei quattro figli, attivando una macchina di flashback in cui l'uomo appare sotto diversi punti di vista. I rapporti familiari e i personaggi stessi vengono sviscerati senza esitazione: da questa incredibile perizia derivano verità sconvolgenti e caratterizzazioni a tutto tondo, dalle forti impronte psicologiche. Ancora più forte è il legame apparentemente sottile con l'Africa e da non sottovalutare è il licenziamento, per motivi razziali, di Kweku: i protagonisti non si sentono a loro agio nella propria pelle, ed ecco che quella terra d'origine che non hanno mai visto e che visiteranno per la prima volta in occasione del funerale del padre, risanerà, almeno in parte, le ferite.
Le immagini che l'autrice crea sono di strabiliante vividezza e intimità, rese con pennellate forti nonostante la narrazione sia esterna: ecco che la Selasi, dal suo focus, descrive la scena con limpidezza e poeticità, ma senza mai edulcorarla.
Ho amato ogni parola di questo libro, a partire dall'incipit che è uno dei più belli che mi sia capitato di leggere:

Kweku muore scalzo, una domenica all'alba, le pantofole all'uscio della camera, come cani. In questo istante è fermo, tra la veranda e il giardino, indeciso se tornare a prenderle. Non lo farà. In quella camera dorme Ama, la sua seconda moglie: le labbra dischiuse, la fronte leggermente aggrottata, la guancia che cerca calda uno scampolo di fresco sul cuscino, e Kweku non vuole svegliarla. Non potrebbe neanche se volesse.


E' che loro, i Sai, sono senza peso, cinque persone sparse per il mondo, una famiglia senza gravità. Una famiglia che non ha sotto niente di così pesante come i soldi, che servono per tenerli fermi allo stesso pezzo di terra, un asse verticale, sotto di loro niente radici, nessun nonno vivente, senza storia, orizzontali - sono andati alla deriva, si sono dispersi verso l'esterno, o verso l'interno, notando a malapena quando un altro familiare si è allontanato.

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