LA MUSICA DELLE PAROLE - EMILY ST JOHN MANDEL
Lilia Grace Albert ha viaggiato tutta la vita, cambiando costantemente luoghi e abitudini. È ripartita per nuove destinazioni talmente tante volte che non sa più come fermarsi. Rapita dal padre a sette anni, ha imparato a costruirsi un’identità fatta di tanti frammenti diversi che raccoglie con la sua inseparabile macchina fotografica.
Adora la solitudine, e chi la conosce bene può figurarsela mentre cerca di cogliere l’immagine perfetta nel bel mezzo di un temporale.
Ora sta lasciando New York, e con un bacio sulla fronte saluta il suo attuale compagno, ignaro che fra poco di lei rimarranno solo le impronte umide sul parquet.
Questa è la vita di Lilia, e gli altri possono fare poco per cambiarla: si può forse ingabbiare la libertà? Ma cosa succede quando chi è abituato a fuggire farebbe di tutto per rimanere?
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Voto:
Lilia Grace Albert esce dalla vita delle persone come se non fosse mai esistita. Semplicemente, se ne va. Ce l’ha nel sangue.
Eli lo sa bene, perché lei l’ha abbandonato. La sua vita ormai sembra priva di senso: lavora da anni ad una tesi sulle lingue morte o morenti, cercando di dimostrare che in ogni lingua esiste una parola che descriva un concetto inespresso in tutte le altre; sopporta poco e male il fatto di essere bravo solo a parlare di ciò che vorrebbe fare, senza mai farlo; il fratello maggiore, Zed, aggrava la situazione facendo esattamente quello che vuole, viaggiare.
Eli non riesce ad accettare l’abbandono, e vaga per la città cercando ogni traccia di Lilia finché riceve una lettera che potrebbe cambiare ogni cosa.
Michaela, sconosciuta abitante di Montréal, sa dove sia Lilia. Eli, sconcertato, parte alla volta della città canadese.
La storia di Lilia si dipana lentamente come il filo ingarbugliato di una matassa: il padre che l’ha rapita a sette anni, i viaggi frenetici in fuga da chi vorrebbe trovarla, un investigatore sulle tracce di Lilia e di suo padre che altri non è che il padre di Michaela.
Lo stile di Emily St. John Mandel trova la sua massima espressione sul lungo periodo, ed emerge in tutto il suo splendore nei dettagli. Metafore sorprendenti, dettagli colti con occhio attento, scelte morfologiche che a volte, timidamente, salgono sopra le righe, trasformandosi da comune narrazione a qualcosa che rasenta la poesia.
Il romanzo si muove su più livelli temporali: il presente, dalla partenza dall’appartamento di Eli al finale a Montréal; il passato, dai sette anni della bimba ai suoi sedici anni; una manciata di ricordi sparsi nel passato più recente, ma apparentemente slegati, che si ricongiungono al passato vissuto da Michaela e da suo padre.
L’autrice intreccia i piani temporali come se appartenessero a storie diverse, e lascia che si ricongiungano solo alla fine.
Si serve della reiterazione di alcune scene e di qualche dettaglio (il rapimento, per esempio, oppure le pozze di calore sull’asfalto nel deserto), rielaborandoli per creare un piacevole effetto di immersione nel libro.
I personaggi sono credibili e caratterizzati discretamente.
Ho gradito la figura del padre che, pur essendosi macchiato dell’orribile crimine del rapimento, è parso sin dal primo momento un uomo di grande intelligenza e cultura, affettuoso e amorevole, un padre modello, per quanto insolito.
Il suo affetto per Lilia è sincero, la voglia di trasmetterle le proprie conoscenze premurosa e in parte colpevole – perché Lilia non è mai tornata a scuola.
La madre, invece, rimane nell’ombra. È un personaggio indefinito che, tuttavia, si macchia di sospetto e si annida per tutto il libro come una presenza sgradita fra le pagine.
Simon, il fratellastro di Lilia, è un personaggio indubbiamente interessante. Sin dall’inizio trova un posto nel cuore del lettore, per poi dimostrare alla fine di averlo meritato nonostante il suo restare in secondo piano per quasi tutto il tempo. I suoi slanci di tenerezza nei confronti della sorellina sono toccanti. Simon avrebbe indubbiamente meritato più spazio e attenzione da parte dell’autrice, che però ha preferito focalizzarsi su altro.
Altro personaggio che ha catturato la mia attenzione è stato Christopher, l’investigatore privato che segue il caso di Lilia da undici anni e il padre di Michaela.
In lui si fondono due persone totalmente diverse; il lavoratore indefesso e senza dubbio troppo accanito sul suo lavoro, e il padre di famiglia che perde il controllo sui propri affetti. Sembra tenere a Lilia più di quanto ami la figlia. Come conseguenza trascura la figlia sempre di più, finché lei a sedici anni lascia la scuola per inseguire il suo sogno di funambola.
Ma la vita di Michaela non è destinata al circo, né alla libertà da Montréal, dove la gente parla soprattutto francese e dove lei, che invece conosce solo l’inglese, rimarrà sempre straniera.
Michaela è un personaggio tormentato, forse ancor più di Lilia, che non troverà mai la serenità e vedrà la propria giovane vita, così promettente, schiantarsi sui binari prima che passi il suo treno.
In definitiva l’ho trovato un libro dal tocco delicato e incantevole, ma ancora acerbo come un frutto colto troppo presto; il romanzo d’esordio di Emily Mandel rivela straordinarie potenzialità, che speriamo emergano in tutto il loro rigoglio nelle prossime opere dell’autrice.
L’editing avrebbe potuto essere migliore, e avrebbe dovuto valorizzare meglio questo libro. I refusi sono abbastanza frequenti, siano essi di carattere stilistico (quasi subito ci s’imbatte in una prima persona incongruente con la narrazione esterna tenuta per tutto il resto del tempo) che puramente grammaticale o logico (soggetti non accordati, femminili mancati, plurali sbagliati e, in un caso, un periodo intricato e confuso che lascia poco spazio alla comprensione).
Tutto questo non è riuscito a influenzare il mio voto, che resta comunque alto in virtù del libro e delle speranze che nutro per quelli che lo seguiranno.
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