A cura di Surymae Rossweisse
Salve a tutti, e benvenuti ad
un'altra puntata de “Il tempio degli Otaku”. Per il solito ciclo di manga che
ormai conosciamo solo io ed i loro autori – che ormai supererà di numero gli
altri articoli... - un caso piuttosto interessante. In genere parliamo di
mangaka noti in Italia, ma di cui nessuno prende in esame l'opera in questione,
o al contrario di nomi totalmente sconosciuti.
Il fumettista autore del manga di
oggi, Nobuyuki Fukumoto, è un po' a metà tra queste categorie. Autore noto in
patria, dove le sue serie hanno anche ricevuto un adattamento filmico (il
cosiddetto live action); al contrario, sebbene il suo nome abbia una voce nella
Wikipedia italiana, le nostre fumetterie non hanno nessuno dei suoi titoli. Men
che meno quello di cui parliamo nello specifico, forse una delle sue opere
minori; e forse proprio per questo l'ideale per conoscere questo mangaka
sconosciuto ai più ed i suoi stilemi più celebri. Diamo un caloroso benvenuto,
perciò, a “Buraiden Gai” di Nobuyuki Fukumoto. Buona lettura!
Gai è un ragazzo di tredici anni
che non ha nessuno al mondo, e non per modo di dire. Cresciuto in orfanotrofio
– da cui poi è scappato – vive di espedienti; va a scuola, ma la sua vita
sociale è nulla.
Ad aggiungere sale sulle ferite,
viene accusato dell'omicidio del benestante Hirata, il cui figlio il nostro
conosce di vista. Inutilmente Gai sostiene di essere stato incastrato, cosa che
in effetti è avvenuta: chi mai darebbe ascolto ad un tredicenne che conduce
quel genere di vita ed ha un tale aspetto da delinquente?
Il ragazzo viene così portato in
una prigione molto speciale: l'Istituto Umanitario. A dispetto del nome
rassicurante, e dei toccanti discorsi del sadico direttore Sawai, i prigionieri
vengono trattati alla stregua di bestie, allo scopo di ritrovare la loro
umanità, appunto. Gai cerca di ribellarsi a tutto questo, e di scappare. Ci
riuscirà? E anche se lo facesse, potrebbe ribaltare la sentenza di
colpevolezza?
La trama di “Buraiden Gai” ha
forse una pecca: il target. Viene infatti definita shonen, ma come
impostazione, svolgimento e messaggi proposti forse sarebbe stato più adatta
l'etichetta di seinen. Forse per rendere il titolo più adatto al pubblico, o
semplicemente più colorito, la trama è poco realistica. Naturalmente l'esempio
principe è l'Istituto Umanitario, che per fortuna soltanto in poche zone del
mondo – e probabilmente non in Giappone – ha suoi eguali.
Anche la storia personale di Gai
pecca di alcune ingenuità e forzature, soprattutto la parte riguardante
l'omicidio del signor Hirata. Se da un lato viene spiegato chiaramente perché è
stato scelto proprio il nostro, le circostanze che hanno messo in atto questa
decisione sono eccessivamente arzigogolate, e Gai ha poco da ribattere che è
fatto apposta per non rendere credibile la sua testimonianza.
In parte collegato a questo
aspetto, il fatto che l'opera conti solo cinque volumi gioca non poco
sull'economia della storia. A parte però poche sbavature – come il poco spazio
dedicato a chi ha veramente ucciso Hirata – non si ha mai l'impressione che
duri meno del necessario. Anzi: tutto ciò consente alla storia di raggiungere
con sicurezza e senza troppi fronzoli i temi che più le stanno a cuore.
Non fatevi ingannare
dall'escalation di violenze più o meno insensate, dallo stereotipo del
condannato ingiustamente, ecc. “Buraiden Gai”, tra un pugno e una macchinazione
di prove, nasconde temi piuttosto profondi. E' particolarmente presente un
attacco al sistema giudiziario giapponese in materia di minori.
A differenza delle altre branche
del diritto, infatti, i casi minorili hanno solo un grado di sentenza, senza
possibilità di appello; a quanto sostengono i personaggi principali della
storia, una corte che analizzi e giudichi con cura il caso, valutando
attentamente interrogazioni ed eventuali prove, non esiste: è praticamente
soltanto lavoro d'ufficio, a meno che non ci siano dubbi su come siano andate
effettivamente le cose – e nel caso di Gai, purtroppo, così non è. E' evidente,
neanche troppo tra le righe, che l'autore si auspicherebbe una procedura magari
più lunga, ma sicuramente più equa: senza contare che, come è ovvio, per un
condannato è difficilissimo rientrare in società e condurre una vita normale,
anche dopo aver scontato la sua pena.
Altro tema principale è come
redimere i criminali. Il dilemma è questo: usare un linguaggio “che loro
capiscono”, vale a dire la violenza, oppure fargli capire in altri modi i loro
errori? In questo manga si propende per la prima ipotesi, ma vale lo stesso
discorso per i procedimenti penali: è evidente che Nobuyuki Fukumoto dissente.
Sawai crede nettamente nelle
maniere forti, ma non è questa la cosa che più sconcerta di lui, e lo rende un
personaggio davvero ben caratterizzato. Il problema è che ne è veramente
convinto, e quindi è spietato nei suoi metodi. Più volte lo vedremo passare da
un discorso toccante sulla necessità di rimettere in sesto i reietti della
società e trasformarli in vere persone a picchiare, torturare psicologicamente
e fisicamente, minacciare coloro di cui dovrebbe prendersi cura. I prigionieri
– perché di questo si tratta – vivono nel terrore: sono sotto costante minaccia
di armi; non possono scappare dall'Istituto, ed anche se ci riuscissero sanno
bene che nessuno darebbe loro ascolto; la loro umanità, che pure si dovrebbe incoraggiare,
viene al contrario schiacciata e demolita fino a renderli sempre schiavi e
remissivi, disposti a tutto pur di sopravvivere. Ma Sawai non nota la
contraddizione in ciò, ed anzi la cerca volutamente: sono la feccia della
società, non si rendono conto che ormai sono delle bestie e che sono, almeno a
suo parere, malati mentali. Ben venga quindi la violenza, se è l'unico modo per
aiutarli. Lui crede di fare una missione, appunto, umanitaria.
Di diverso parere è ovviamente
Gai, che però non è il solito protagonista shonen tutto amicizia e giustizia.
Complice la sua esistenza travagliata, infatti, è una persona solitaria, al
limite della misantropia. Diffidente per natura, se proprio deve affidarsi a
qualcuno preferisce una persona meschina, di cui capisca subito il secondo
fine. Coltiva e ricerca la solitudine, anche se a volte invidia i suoi
coetanei, così allegri e spensierati. L'esperienza vissuta all'Istituto
Umanitario lo porterà a vedere più di buon occhio la compagnia di altre
persone...ma soltanto perché l'unione fa la forza. Il fatto che alla fine della
storia rimanga sempre lo stesso è un punto di rottura con altri titoli del
genere: ci si aspetta che maturi, ma questo accade solo in parte. Volente o
nolente, rimane sempre fedele a sé stesso.
La sua principale caratteristica
è l'orgoglio, smodato: lo spinge a cercare sempre di uscire dalla sua
situazione, anche se nel mondo esterno non c'è niente che lo aspetta, e a
cercare la giustizia – ma soltanto per il suo tornaconto personale, non per spirito
di sacrificio. Non mancano i momenti in cui dubita di sé, come tutti gli
adolescenti, o rimpiange quello che al contempo è il suo grande pregio e grande
difetto. Ciò lo rendono un protagonista con un ottima introspezione
psicologica, per cui è facilissimo parteggiare.
Il tratto di Fukumoto non è il
massimo dal punto di vista estetico. Nonostante gli sfondi e i retini siano
usati con efficienza, infatti, le fisionomie dei personaggi si assomigliano
tutte – ad eccezione di un comprimario – e sono tremendamente rozze e
“scatolari”. Non tutto il male viene per nuocere, però: è uno stile che si
adatta alla storia, e soprattutto ai personaggi infidi che la abitano. Un altro
tratto non avrebbe garantito la stessa atmosfera, e quindi avrebbe inficiato su
un titolo che, seppur di nicchia, non manca di potenzialità.
...E per oggi è tutto, cari
amici. Arrivederci alla prossima settimana, con “Il tempio degli Otaku”!
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