Bentornati, lettori, al nuovo appuntamento con By the keyhole... la rubrica mensile di Dusty pages in Wonderland dedicata ai classici! La puntata di questo mese mi sta particolarmente al cuore - e capirete presto perché. E' il primo classico del XX secolo di cui vi parlo, ma è ambientato nel 1860, in Sicilia. Qui un nobiluomo, padre di due figlie e particolarmente affezionato al nipote, assiste alle vicende amorose e politiche di costui e, insieme, dell' Italia intera. E' tempo di cambiamenti per il nostro paese, ma il Prinipe di Salina non vi crede neanche un po'... e così passano gli anni, passano gli amori, le illusioni, la giovinezza. Ricco di scene memorabili (grazie anche alla trasposizione cinematografica del 1963 a cura di Luchino Visconti con Burt Lancaster, Claudia Cardinale e Alain Delon), meravigliosamente scritto, commovente, amaro, profondo... può trattarsi solo de...
Il Gattopardo
Siamo in Sicilia, all'epoca del tramonto borbonico, è di scena una famiglia della più alta aristocrazia isolana, colta nel momento rivelatore del trapasso del regime, mentre già incalzano i tempi nuovi. Accentrato quasi interamente intorno a un solo personaggio, il principe Fabrizio Salina, lirico e critico insieme, il romanzo nulla concede all'intreccio e al romanzesco tanto cari a tutta la narrativa europea dell'ottocento. L'immagine della Sicilia che invece ci offre è un'immagine viva, animata da uno spirito alacre e modernissimo, ampiamente consapevole della problematica storica, politica e letteraria contemporanea.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, figlio di una famiglia aristocratica di origine feudale, nasce a Palermo nel 1896. Dei primi anni e della formazione si sa poco. Al ritorno dalla prima guerra mondiale, a cui partecipa come tenente di artiglieria, collabora con una rivista letteraria genovese, Le opere e i giorni, per cui scrive alcuni saggi critici. Nel 1925 compie il suo primo viaggio a Londra, dove conosce la sua futura moglie Alessandra Wollf Stormesee, psicoanalista, italiana daparte di madre. Nel 1954, a 58 anni, accompagna il cugino poeta, il barone Lucio Piccolo, a un convegno di letteratura, a San Pellegrino. Lì conosce Eugenio Montale. Si tratta di un incontro fondamentale, che segna la sua carriera di scrittore. Si dedica così alla stesura del suo unico romanzo, Il Gattopardo, pubblicato postumo nel 1958. Tomasi muore a Roma, nel 1957, dopo aver appreso il rifiuto della Mondadori di pubblicare il suo romanzo (il direttore editoriale era allora Elio Vittorini). Il libro, che viene concepito e scritto in soli due anni, è il risultato di un’intensa attività letteraria, di esperienze di viaggi, di letture e di studio. Il Gattopardo viene pubblicato subito dopo da Feltrinelli, grazie all’interessamento di Giorgio Bassani.
[Fonte: griseldaonline]
[Fonte: griseldaonline]
Parlare de Il Gattopardo per me, che sono siciliana, è quasi un affare
personale. Forse chi non è nato in questa terra non riesce a cogliere pienamente
quanto ci si possa riconoscere nelle parole di questo romanzo, nonostante, all’alba del terzo
millennio, non sia affatto nulla di positivo. Anzi, il messaggio di Giuseppe Tomasi
di Lampedusa è il massimo della negatività, ed è l’amarezza –ma c’è davvero
amarezza? O si tratta semplicemente di una constatazione dei fatti?- di un uomo
che non solo ha imparato a conoscere i suoi compaesani, ma ha inciso, analizzato,
scavato in profondità una mentalità che, intagliata da un paesaggio aspro e
selvaggio –i campi riarsi, le montagne spigolose, il sole cocente- sembra
essere fissa e immobile come l’aria afosa durante la canicola. Ma in Sicilia
convive anche un’altra faccia, quella dei giardini odorosi di aranci e limoni,
delle fanciulle floride e procaci, della società ipocrita e pettegola,
ridicola, grottesca, cinica. Non so bene cosa sia, precisamente, che seduce del
Gattopardo. Non è solo l’insieme dei profumi, l’ambiente, i personaggi –il burbero
Principe, il donnaiolo Tancredi, la riservata Concetta, la maliziosa Angelica
ecc-, ma anche lo stile, così affascinante, ironico, sontuoso. Leggere Il Gattopardo vuol dire immergersi in un
mondo antico eppure, per me, così
familiare. Cambieranno gli scenari ma… è sempre la stessa storia di Sicilia.
“Se vogliamo che tutto resti com’è,
bisogna che tutto cambi” dice d’altronde Tancredi al Principe Fabrizio. Perché
non è soltanto di Sicilia, che parla Tomasi di Lampedusa. Parla di nobiltà, di
caste, di popolini che fanno la rivoluzione, ma che spesso la rivoluzione non
sanno nemmeno cosa sia. Parla di cambiamenti apparenti, di vite che si
intrecciano tra i fili della Storia, di casati lussuosi, fieri, orgogliosi. Tutto
incarnato nella figura del Principe, il patriarca, il siciliano consapevole,
realista, concreto, imponente. Giuseppe Tomasi di Lampedusa lo dipinge troppo
magistralmente per non essere vero. Lo sappiamo che deve esserci stato davvero un Principe, in quel di Sicilia del 1860,
perché la storia dei Gattopardo non può essere stata semplicemente pescata dal
nulla. E’ troppo vera e troppo intensa. E ci sarà sicuramente stato un
Tancredi, tra quei garibaldini, che con lungimiranza deve essersi accorto che era
necessario mutare, cambiare pelle, per mantenere la propria posizione. In
queste pagine, ricche di verità, c’è il cuore più nascosto di una terra, di un’epoca,
della stessa natura umana. Siamo pieni di vizi, di difetti, siamo mortali,
infinitamente piccoli e passiamo, uno dopo l’altro, senza lasciare traccia di
noi stessi. Facciamo la storia senza capire che la storia è qualcosa di persino
troppo grande perché possiamo prendere un po’ di posto al suo interno. Tutto scorre,
diceva il filosofo. Un cane tanto amato può diventare nulla ed essere gettato,
come un pezzo di mobilio qualsiasi, dalla finestra. E noi, con la stessa
noncuranza, siamo destinati a fare la stessa fine. Parola di Giuseppe Tomasi di
Lampedusa.
Ho scelto quello che forse è il brano più significativo dell'intero libro, quello in cui il piemontese cavaliere Chevalley si reca presso il Principe per proporgli di diventare Senatore del Regno, credendo di tributargli un grande onore. Ma, con suo grande stupore, Don Fabrizio rifiuta, dicendo che "da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsale, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere ad un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento [...]. Siamo vecchi [noi Siciliani], Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi. [...] da duemila cinquecento anni siamo colonia". Chevalley ribatte che adesso la Sicilia non è più terra di conquista, ma "libera parte di un libero stato". E questa è la risposta del nostro Principe...
Il sonno, il clima, l'orgoglio*
"L'intenzione è buona,
Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima parte è colpa
nostra; Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle
meraviglie del mondo moderno; per conto mio mi sembra piuttosto una centenaria
trascinata in carrozzella alla Esposizione Universale di Londra, che non
comprende nulla, che s'impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield come
delle filande di Manchester, e che agogna soltanto di ritrovare il proprio dormiveglia
fra i suoi cuscini sbavati e il suo orinale sotto il letto." Parlava
ancora piano, ma la mano attorno a S. Pietro si stringeva; l'indomani la
crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata.
"Il sonno, caro Chevalley,
il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà
svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho
i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio.
Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più
violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le
coltellate nostre, desiderio di morte;desiderio di immobilità voluttuosa, cioè
ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera
o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia
scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe
persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo
delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci
attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a
correnti vitali; da ciò l'incredibile fenomeno della formazione attuale,
contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul
serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato
che ci attrae appunto perché è morto."
Non ogni cosa era compresa dal
buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura l'ultima frase: aveva visto i
carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati e denutriti, aveva
sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero
vecchie tradizioni autentiche. Disse: "Ma non le sembra di esagerare un
po', principe? io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi
per nominarne uno, che mi son sembrati tutt'altro che dei dormiglioni." Il
Principe si seccò: "Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai
nostri semi-desti, del resto, avevo di già accennato. In quanto a questo
giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non
ricadrà nel nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D'altronde vedo che
mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia , l'ambiente,il
clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le
dominazioni estranee e gl'incongrui stupri hanno formato l'animo: questo
paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l'asprezza
dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe
essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a
poche miglia di distanza ha l'inferno attorno a Randazzo e la bellezza della
baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che
c'infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti:
Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l'inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco,come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l'energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l'acqua che non c'è o chebisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le pioggie, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d'arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d'imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno ormato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo.”
Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l'inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco,come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l'energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l'acqua che non c'è o chebisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le pioggie, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d'arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d'imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno ormato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo.”
L'inferno ideologico evocato in
quello studiolo sgomentò Chevalley più della rassegna sanguinosa della mattina.
Volle dire qualche cosa, ma Don Fabrizio era troppo eccitato adesso per
ascoltarlo."Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall'isola
possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto,
molto giovani: a vent'anni è già tardi; la crosta è già fatta,dopo: rimarranno
convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente
calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori. Ma mi
scusi, Chevalley, mi son lasciato trascinare e la ho probabilmente infastidito.
Lei non è venuto sin qui per udire Ezechiele deprecare le sventure d'Israele.
Ritorniamo al nostro vero argomento. Sono molto riconoscente al governo di
aver pensato a me per il Senato e la prego di esprimere a chi di dovere questa
mia sincera gratitudine; ma non posso accettare. Sono una rappresentante della
vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, e ad esso
legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell'affetto. Appartengo
ad una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che
si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a
meno di accorgersi, sono privo d'illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato
di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà d'ingannare sé stesso,
questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri? Noi della nostra generazione
dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le
capriole dei giovani attorno a quest'ornatissimo catafalco. Voi adesso avete
bisogno di giovani, di giovani svelti,con la mente aperta al 'come' più che al
'perché' e che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro
preciso interesse particolare con le vaghe idealità politiche."
[...]
[Chevalley] Volle fare un ultimo sforzo; si alzò e l'emozione conferiva Pathos alla sua voce: "Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare;[...]"
"I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una diecina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionali riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?
[Chevalley] Volle fare un ultimo sforzo; si alzò e l'emozione conferiva Pathos alla sua voce: "Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare;[...]"
"I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una diecina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionali riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?
*: Il titolo del brano è ovviamente arbitrario
(La scena interpretata da Burt Lancaster e Leslie French ne Il Gattoaprdo di Luchino Visconti)
E' uno dei classici che continuo a ripromettermi di leggere :) Il tuo commento è molto appassionato, mette voglia di prendere il libro e cominciare a sfogliarlo!
RispondiEliminaL'intenzione è proprio quella di invogliare qualcuno a leggerlo ^^
RispondiEliminacome ti ho detto ieri non ho avuto il piacere di studiare il gattopardo al liceo, ma in questo post si riesce benissimo a capire le tue motivazioni, cosa ti spinge ad amare quest'opera. ognuno di noi è legato profondamente alla sua terra e tu come ami la sicilia io amo la mia campania :), purtroppo noi del sud siamo fatti così, prendiamo a cuore tutto ciò che ci circonda ma questo in fin dei conti non è ciò che ci contraddistingue, la nostra solarità e vivacità nel bene e nel male?
RispondiEliminanon vedo l'ora di leggere questo libro e vedere al più presto il film di visconti.
Complimenti! Come è profondo questo post!
RispondiEliminaE come sempre resto a bocca aperta per la passione che ci metti! Hai finito tardissimo, ma ne è valsa la pena!
@susina: leggilo, è veramente veramente bello.
RispondiElimina@stefania: grazie, sei sempre molto gentile ^^
Recensione ricca, elegante e molto professionale. Racconti un capolavoro e ne metti in risalto tutti i pregi che porta con sé. Complimenti
RispondiEliminaAnch'io lo amato così tante... forse uno dei pochi libri imposti che ho veramente amato (uno degli altri è "Therese Raquin" di Zola.
RispondiEliminaBellissima recensione!
Questo è un libro che non ho mai finito... Mi fu assegnato insieme ad altri come lettura per le vacanze e non so perché, ma non riuscivo a farmelo piacere... Forse ora lo apprezzerei sicuramente di più
RispondiElimina@Rory: no, leggilo, è bellissimo >.<
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