mercoledì 31 agosto 2011

W... w... w... Wednesdays (23)



www...wednesdays è stato creato da MizB di ShouldBeReading


Anche questa settimana è giunto il mercoledì, portando con sè il nuovo appuntamento di W...W...W... Wednesday, rubrica ideata dal blog ShouldBeReading. Partecipare è semplice, basta rispondere a queste 3 domande:

* What are you currently reading? (Cosa stai leggendo?)
* What did you recently finish reading? (Quale libro hai finito di recente?)
* What do you think you’ll read next?(Quale libro pensi sarà la tua prossima lettura?)


Devo ammettere che, dopo Starcrossed, non ho più toccato libro. Un po' ho persino paura di riprendere Rebel, l'ennesimo young adult/urban fantasy, ed inoltre ho ricominciato a studiare quindi il tempo è sempre meno (che poi una giornata scivola via velocissima... preferirei avere 5 o 6 ore in più come su Marte). Ieri mi sono accorta, con grande gaudio e stupore, che mancano solo due o tre libri di questo genere (escluso Blue che deve ancora arrivare e su cui ci sarà un giveaway... ma almeno questo non vedo l'ora di leggerlo) e tutto il resto è invece compreso nella letteratura italiana e straniera. Parlo, per esempio, di Avevano spento anche la luna (il prossimo da leggere, a meno che non arrivi prima Blue), La duchessa nera, Il kimono rosso, La ragazza che giocava coi fuochi, Angelology, L'inverno si era sbagliato, Il vangelo secondo Gesù Cristo... non vedo l'ora! *_* 

What are you currently reading?


What did you recently finish reading?


What do you think you’ll read next?


By the Keyhole (8) Il Gattopardo


Bentornati, lettori, al nuovo appuntamento con By the keyhole... la rubrica mensile di Dusty pages in Wonderland dedicata ai classici! La puntata di questo mese mi sta particolarmente al cuore - e capirete presto perché. E' il primo classico del XX secolo di cui vi parlo, ma è ambientato nel 1860, in Sicilia. Qui un nobiluomo, padre di due figlie e particolarmente affezionato al nipote, assiste alle vicende amorose e politiche di costui e, insieme, dell' Italia intera. E' tempo di cambiamenti per il nostro paese, ma il Prinipe di Salina non vi crede neanche un po'... e così passano gli anni, passano gli amori, le illusioni, la giovinezza. Ricco di scene memorabili (grazie anche alla trasposizione cinematografica del 1963 a cura di Luchino Visconti con Burt Lancaster, Claudia Cardinale e Alain Delon), meravigliosamente scritto, commovente, amaro, profondo... può trattarsi solo de...

Il Gattopardo

Qual è la trama?
Siamo in Sicilia, all'epoca del tramonto borbonico, è di scena una famiglia della più alta aristocrazia isolana, colta nel momento rivelatore del trapasso del regime, mentre già incalzano i tempi nuovi. Accentrato quasi interamente intorno a un solo personaggio, il principe Fabrizio Salina, lirico e critico insieme, il romanzo nulla concede all'intreccio e al romanzesco tanto cari a tutta la narrativa europea dell'ottocento. L'immagine della Sicilia che invece ci offre è un'immagine viva, animata da uno spirito alacre e modernissimo, ampiamente consapevole della problematica storica, politica e letteraria contemporanea. 




Chi è l'autore?
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, figlio di una famiglia aristocratica di origine feudale, nasce a Palermo nel 1896. Dei primi anni e della formazione si sa poco. Al ritorno dalla prima guerra mondiale, a cui partecipa come tenente di artiglieria, collabora con una rivista letteraria genovese, Le opere e i giorni, per cui scrive alcuni saggi critici. Nel 1925 compie il suo primo viaggio a Londra, dove conosce la sua futura moglie Alessandra Wollf Stormesee, psicoanalista, italiana daparte di madre. Nel 1954, a 58 anni, accompagna il cugino poeta, il barone Lucio Piccolo, a un convegno di letteratura, a San Pellegrino. Lì conosce Eugenio Montale. Si tratta di un incontro fondamentale, che segna la sua carriera di scrittore. Si dedica così alla stesura del suo unico romanzo, Il Gattopardo, pubblicato postumo nel 1958. Tomasi muore a Roma, nel 1957, dopo aver appreso il rifiuto della Mondadori di pubblicare il suo romanzo (il direttore editoriale era allora Elio Vittorini). Il libro, che viene concepito e scritto in soli due anni, è il risultato di un’intensa attività letteraria, di esperienze di viaggi, di letture e di studio. Il Gattopardo viene pubblicato subito dopo da Feltrinelli, grazie all’interessamento di Giorgio Bassani.
[Fonte: griseldaonline]


Parlare de Il Gattopardo per me, che sono siciliana, è quasi un affare personale. Forse chi non è nato in questa terra non riesce a cogliere pienamente quanto ci si possa riconoscere nelle parole di questo romanzo, nonostante, all’alba del terzo millennio, non sia affatto nulla di positivo. Anzi, il messaggio di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è il massimo della negatività, ed è l’amarezza –ma c’è davvero amarezza? O si tratta semplicemente di una constatazione dei fatti?- di un uomo che non solo ha imparato a conoscere i suoi compaesani, ma ha inciso, analizzato, scavato in profondità una mentalità che, intagliata da un paesaggio aspro e selvaggio –i campi riarsi, le montagne spigolose, il sole cocente- sembra essere fissa e immobile come l’aria afosa durante la canicola. Ma in Sicilia convive anche un’altra faccia, quella dei giardini odorosi di aranci e limoni, delle fanciulle floride e procaci, della società ipocrita e pettegola, ridicola, grottesca, cinica. Non so bene cosa sia, precisamente, che seduce del Gattopardo. Non è solo l’insieme dei profumi, l’ambiente, i personaggi –il burbero Principe, il donnaiolo Tancredi, la riservata Concetta, la maliziosa Angelica ecc-, ma anche lo stile, così affascinante, ironico, sontuoso. Leggere Il Gattopardo vuol dire immergersi in un mondo antico eppure, per me, così familiare. Cambieranno gli scenari ma… è sempre la stessa storia di Sicilia.
“Se vogliamo che tutto resti com’è, bisogna che tutto cambi” dice d’altronde Tancredi al Principe Fabrizio. Perché non è soltanto di Sicilia, che parla Tomasi di Lampedusa. Parla di nobiltà, di caste, di popolini che fanno la rivoluzione, ma che spesso la rivoluzione non sanno nemmeno cosa sia. Parla di cambiamenti apparenti, di vite che si intrecciano tra i fili della Storia, di casati lussuosi, fieri, orgogliosi. Tutto incarnato nella figura del Principe, il patriarca, il siciliano consapevole, realista, concreto, imponente. Giuseppe Tomasi di Lampedusa lo dipinge troppo magistralmente per non essere vero. Lo sappiamo che deve esserci stato davvero un Principe, in quel di Sicilia del 1860, perché la storia dei Gattopardo non può essere stata semplicemente pescata dal nulla. E’ troppo vera e troppo intensa. E ci sarà sicuramente stato un Tancredi, tra quei garibaldini, che con lungimiranza deve essersi accorto che era necessario mutare, cambiare pelle, per mantenere la propria posizione. In queste pagine, ricche di verità, c’è il cuore più nascosto di una terra, di un’epoca, della stessa natura umana. Siamo pieni di vizi, di difetti, siamo mortali, infinitamente piccoli e passiamo, uno dopo l’altro, senza lasciare traccia di noi stessi. Facciamo la storia senza capire che la storia è qualcosa di persino troppo grande perché possiamo prendere un po’ di posto al suo interno. Tutto scorre, diceva il filosofo. Un cane tanto amato può diventare nulla ed essere gettato, come un pezzo di mobilio qualsiasi, dalla finestra. E noi, con la stessa noncuranza, siamo destinati a fare la stessa fine. Parola di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

 Il brano.
Ho scelto quello che forse è il brano più significativo dell'intero libro, quello in cui il piemontese cavaliere Chevalley si reca presso il Principe per proporgli di diventare Senatore del Regno, credendo di tributargli un grande onore. Ma, con suo grande stupore, Don Fabrizio rifiuta, dicendo che "da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsale, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere ad un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento [...]. Siamo vecchi [noi Siciliani], Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi. [...] da duemila cinquecento anni siamo colonia". Chevalley ribatte che adesso la Sicilia non è più terra di conquista, ma "libera parte di un libero stato". E questa è la risposta del nostro Principe...


 Il sonno, il clima, l'orgoglio*


"L'intenzione è buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima parte è colpa nostra; Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio mi sembra piuttosto una centenaria trascinata in carrozzella alla Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla, che s'impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto di ritrovare il proprio dormiveglia fra i suoi cuscini sbavati e il suo orinale sotto il letto." Parlava ancora piano, ma la mano attorno a S. Pietro si stringeva; l'indomani la crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata.
"Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte;desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di   scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l'incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto."
Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura l'ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati e denutriti, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero vecchie tradizioni autentiche. Disse: "Ma non le sembra di esagerare un po', principe? io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno, che mi son sembrati tutt'altro che dei dormiglioni." Il Principe si seccò: "Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semi-desti, del resto, avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D'altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l'ambiente,il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl'incongrui stupri hanno formato l'animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l'asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l'inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c'infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti:
Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l'inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco,come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio  spenderebbe l'energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l'acqua che non c'è o chebisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le pioggie, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d'arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d'imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno ormato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo.”
L'inferno ideologico evocato in quello studiolo sgomentò Chevalley più della rassegna sanguinosa della mattina. Volle dire qualche cosa, ma Don Fabrizio era troppo eccitato adesso per ascoltarlo."Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall'isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent'anni è già tardi; la crosta è già fatta,dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori. Ma mi scusi, Chevalley, mi son lasciato trascinare e la ho probabilmente infastidito. Lei non è venuto sin qui per udire Ezechiele deprecare le sventure d'Israele. Ritorniamo al nostro vero argomento. Sono molto riconoscente al governo di aver pensato a me per il Senato e la prego di esprimere a chi di dovere questa mia sincera gratitudine; ma non posso accettare. Sono una rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, e ad esso legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell'affetto. Appartengo ad una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d'illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà d'ingannare sé stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri? Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a quest'ornatissimo catafalco. Voi adesso avete bisogno di giovani, di giovani svelti,con la mente aperta al 'come' più che al 'perché' e che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità politiche."
[...]
[Chevalley] Volle fare un ultimo sforzo; si alzò e l'emozione conferiva Pathos alla sua voce: "Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare;[...]"
"I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una diecina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionali riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?

*: Il titolo del brano è ovviamente arbitrario


(La scena interpretata da Burt Lancaster e Leslie French ne Il Gattoaprdo di Luchino Visconti)


martedì 30 agosto 2011

Poems (21) A Neèra


Come potevo non concedere un po' di spazio anche ad un poeta latino? Vi sareste aspettati Catullo, immagino, e invece io sono una fan di Ovidio (senza nulla togliere al primo!). E così sono andata a spulciare tra i suoi epodi, -uno più bello dell'altro- e alla fine ho scelto questo di argomento amoroso, pieno zeppo delle immagini bellissime e dei sentimenti tipici dei poeti elegiaci. Buona lettura!



A Neèra

Era notte e in un cielo limpido velato di stelle
splendeva la luna,
e tu, già offendendo in cuore il nome degli dei,
giuravi sulle mie parole,
e ti stringevi a me con le braccia morbide piú forte
dell'edera intorno a una quercia:
finché i lupi odieranno gli agnelli e Orione i marinai,
quando d'inverno sconvolge il mare,
o una brezza leggera scompiglierà ad Apollo i lunghi capelli,
mio e tuo sarà questo amore.
Come dovrai dolerti, Neèra, del mio orgoglio:
se in questo corpo sopravvive un uomo,
non sopporterà che tu conceda a un altro le tue notti
e nell'ira cercherà chi lo riami.
Rotto l'incanto non mi piegherò piú alla tua bellezza,
se avrò coscienza del dolore.
E tu, chiunque tu sia piú felice di me che superbo
ora cammini sulla mia sventura,
puoi essere ricco quanto vuoi di terre e armenti,
avere oro che scorra come un fiume,
conoscere la dottrina arcana di un nuovo Pitagora
o Níreo vincere in bellezza:
anche tu piangerai l'amore passato a un altro
e riderò io allora.


Chi è l'autore?
Ovidio nacque da antica e agiata famiglia equestre (in un'elegia dei "Tristia", è il poeta stesso a trasmetterci notizie sulla sua vita). A Roma, ove si recò col fratello (31 a.C.), studiò grammatica e retorica presso insigni maestri, come Arellio Fusco e Porcio Latrone. Destinato alla carriera forense e politica, O. avvertì invece subito imperiosa l'inclinazione verso la poesia, al punto che tutto ciò che tentava di dire era già in versi ("et quod temptabam dicere versus erat").
Dopo il rituale viaggio di perfezionamento ad Atene a 18 anni, il nostro rientrò a Roma, ove esercitò solo qualche magistratura minore. Ad alimentare la sua vocazione poetica fu Valerio Messalla Corvino; ma Ovidio fu vicino pure a Mecenate, e conobbe i maggiori poeti dell'epoca, come Orazio, Properzio, Gallo (Virgilio lo intravide appena). Ebbe tre mogli: dopo due matrimoni sfortunati ( da cui ebbe però una figlia), sposò una giovane fanciulla della "gens Fabia", che amò teneramente sino alla fine. Il legame coniugale non gli impedì di essere il poeta galante, cantore di una Roma ormai dimentica delle guerre civili, vogliosa soltanto di vivere e di godere.
Il triste declino: "carmen et error" e "relegatio". Nell'8 d.C., quando ogni cosa sembrava sorridergli, il poeta fu colpito da un ordine di Augusto (revocato neanche dal successore Tiberio), che lo relegava a Tomi, l'attuale Costanza, sulle coste del Ponto (il Mar Nero). Si trattò, è vero, di una "relegatio" che, a differenza dell’ "exilium", non prevedeva la perdita dei diritti di cittadino e la confisca dei beni. E tuttavia, di fatto, O. fu costretto a rimanere isolato in una terra selvaggia e inospitale, nella più cupa tristezza, sino alla morte.
Ignoti restano i motivi del severo provvedimento di Augusto, anche se O. parla, enigmaticamente, di due colpe che l'avrebbero perduto: "carmen et error". Nel "carmen" deve essere allusione all’ "Ars amatoria", il suo trattato sull'amore libertino che, contemporaneamente alla condanna, venne ritirato dalle biblioteche pubbliche: trattato, evidentemente, in contrasto col coevo programma augusteo di restaurazione morale dei costumi (ma evidentemente l'accusa mascherava più vere ragioni personali). Riguardo l’ "error", l'ipotesi più verosimile è che O. sia stato coinvolto - come testimone o addirittura complice - in uno scandalo di corte, che l'imperatore aveva tutto l'interesse a mantenere segreto: fatto è che, nello stesso anno, pure Giulia minore, nipote di Augusto, fu relegata nelle isole Tremiti, accusata di adulterio con un giovane patrizio.


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