Proseguendo l'avventura letteraria iniziata con "Candidato al consiglio d'istituto", in questa raccolta l'autore si racconta: ne esce fuori un'opera che passa in rassegna l'Italia di ieri e quella di oggi. Il motivo conduttore è la speranza, che non deve mai mancare, neppure nei momenti più difficili.
Voto:
La riscoperta di un paese che
sentiamo ormai lontano anni luce, l’amor di
patria e i tempi dimenticati della miseria
nera si intrecciano con autobiografia e fantasia in una raccolta di
racconti che fa riflettere e tornare al passato. Specchio non solo dell’Italia
dalle fotografie in bianco e nero ma anche delle sfaccettature più eterogenee
dell’essere umano, Non perdiamoci d’animo,
secondo volume della Triogia della
Speranza scritta da Massimo Cortese, è un’antologia di racconti pescati
dalla memoria dell’autore e da quella della propria madre, figura ancestrale,
popolare, severa ma compassionevole. Ci sono anche, però, brevi momenti in cui
l’autore scrive, anzi immagina, vite, episodi, dialoghi. Il primo e l’ultimo
sono, in particolare, i racconti più lunghi e quelli che forse sono mirati a
colpire maggiormente il lettore. Con un occhio al passato nel primo, ed uno al
presente nell’ultimo, Cortese palesa la condizione dell’Italia, paese dove i maggiorenti spadroneggiano
alle spalle di invisibili minorenti (tanto
invisibili da non avere nemmeno una parola per essere definiti, e così se la
inventa l’autore), dove un terremoto cancella una tradizione decennale come il Carnevale dei Ragazzi e dove la
burocrazia impedisce il coronamento di anni di studio e sacrificio.
Cortese non dimentica i
riferimenti alle proprie esperienze personali, anche quelle apparentemente più
insignificanti (per esempio il decimo racconto, Dal barbiere, che sa ancora di richiamo al passato) e si muove
all’interno del libro, tra un racconto e l’altro, in modo quanto meno
originale.
I dubbi che mi hanno portato ad
assegnare tre stelle riguardano principalmente la forma con cui Cortese scrive
i racconti: non manca certo l’ironia, ma alcuni (Cimabue e Giotto è uno di questi) appaiono così eccessivamente
ingenui da suscitarmi dapprima un sorriso, e poi da farmi riflettere sulle
intenzioni nascoste dell’autore –ho persino supposto un intento parodistico-. I
racconti più riusciti sono infatti quelli che l’autore sente perché vissuti
sulla propria pelle, piuttosto che quelli di fantasia, talvolta buonisti (La figliolanza), talvolta anche
simpatici (Letture proibite) ma che
non rendono allo stesso modo di, per esempio, Prima del debutto.
Lo stile non è per niente
pretenzioso, anzi, estremamente semplice e colloquiale, e qui sta la mancanza o
forse la forza (?) del volume, che risulta perciò scorrevole anche grazie al
numero esiguo di pagine (solo 71). L’impegno letterario si riduce quindi, se
non ad una ricercatezza dello stile, ad una fotografia realistica e cruda, un
po’ come quella che compare in copertina. Ma ancora una volta l’impegno
letterario di Cortese non è altrettanto forte quanto quello sociale, e quanto
il messaggio che l’autore vuole trasmettere. A differenza di Candidato a consiglio d’Istituto, però,
questa è una raccolta di racconti e non adotta (almeno, non ufficialmente) lo
stile diaristico, di conseguenza deve essere valutato come un’opera letteraria.
Per questo motivo, non riuscendo il libro ad equiparare valore artistico ed
intento sociale, mi vedo costretta ad assegnare tre stelle.
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