A cura di OracoloDiDelfi
Capita alle volte di trovarsi senza respiro di fronte a un testo
poetico.
Non è facile capire il perché: forse per il desiderio di possedere,
inalandolo, lo spirito e il senso della poesia che si ha innanzi, ci si
dimentica, per alcuni attimi, di respirare; forse perché sono proprio i versi a
toglierci il fiato, quasi come se fosse proprio quello il prezzo del testo, il
tributo che le parole pretendono da noi per il loro offrirsi all’uomo; o forse
perché il silenzio, libero persino dal suono del respiro, può essere l’unica
reazione dignitosa alla profondità della lirica.
“Casa sul mare” di Eugenio Montale è una litania da recitare nell’anima
quando si perde una persona amata; è il canto d’addio per rendere onore a chi
ha camminato al nostro fianco, e per qualche motivo ha deciso di separarsi dal
nostro percorso; è l’ultima disperata preghiera a una donna che non si fida più
di noi, o a un uomo che non sta al passo di un sentimento d’amore.
ll viaggio finisce
qui:
nelle cure meschine
che dividono
l’anima che non sa
più dare un grido.
Ora I minuti sono
eguali e fissi
come I giri di ruota
della pompa.
Un giro: un salir
d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua,
a tratti un cigolio.
Il viaggio finisce a
questa spiaggia
che tentano gli
assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non
pigri fumi
la marina che tramano
di conche
I soffi leni: ed è
raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l’isole dell’aria
migrabonde
la Corsica dorsuta o
la Capraia.
Tu chiedi se così
tutto vanisce
in questa poca nebbia
di memorie;
se nell’ora che torpe
o nel sospiro
del frangente si
compie ogni destino.
Vorrei dirti che no,
che ti s’appressa
l’ora che passerai di
là dal tempo;
forse solo chi vuole
s’infinita,
e questo tu potrai,
chissà, non io.
Penso che per i più
non sia salvezza,
ma taluno sovverta
ogni disegno,
passi il varco, qual
volle si ritrovi.
Vorrei prima di
cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei
sommossi campi
del mare spuma o
ruga.
Ti dono anche l’avara
mia speranza.
A’ nuovi giorni,
stanco, non so crescerla:
l’offro in pegno al
tuo fato, che ti scampi.
Il cammino finisce a
queste prode
che rode la marea col
moto alterno.
Il tuo cuore vicino
che non m’ode
salpa già forse per
l’eterno.
Brilla un barlume di speranza nell’oscura fissità del tempo: un lento,
inesorabile e sempre identico ritorno dell’uguale, che non lascia spazio al
ricordo, all’amore, all’affetto.
Questo è il tema che percorre la
lirica, ricca di rimandi di significato preziosi come il correlativo oggettivo
del “giro di pompa” (“Un
giro: un salir d’acqua che rimbomba. Un altro, altr’acqua, a tratti un
cigolio.”) , efficace metafora della fissità del tempo (“Ora i minuti sono uguali e fissi come i giri
di ruota della pompa”) che non concede salvezza all’animo umano.
Ricompare la celebre analogia che mette in relazione il viaggio al
vivere, ma con un’ambientazione particolare: il percorso esistenziale si
conclude presso una spiaggia deserta, cupa,
dove la brezza marina interviene, misteriosa, per confondere tra le sue
nebbie le isole vicine.
La nebbia, appunto: tale è il ricordo umano, una commistione
incomprensibile di momenti persi nella tragica fissità del tempo, e nel ritorno
identico del destino.
Un’interlocutrice femminile indefinita si rivolge al poeta, chiedendo
conferma dell’atroce scenario: “Tu chiedi
se così tutto svanisce in questa poca nebbia di memorie”, e la risposta
sembra concedere una flebile speranza, che non vale tuttavia per entrambi i
protagonisti della lirica.
“Forse solo chi vuole s’infinita, e questo tu potrai,
chissà, non io.”
Ricompare il tema del varco, già menzionato nella “Casa dei doganieri”, e nonostante la perdizione costituisca il
comune destino dell’uomo, alle volte ad uno solo è concesso di salvarsi, di
sfidare un tragico fato di sconfitta, e magari anche di risultarne superiore.
“Penso che per i piu’ non sia
salvezza, ma taluno sovverta ogni disegno, passi il varco, qual volle si
ritrovi.”
Come a garanzia di questa possibilità di salvezza, il poeta dona la
speranza rimastagli alla donna a cui augura di ribaltare il destino (“Ti dono anche l’avara mia speranza, a’ nuovi
giorni stanco, non so crescerla; l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi”)
possa questa speranza essere motivo di gioia e compagnia, durante quel lungo viaggio
che conduce dritto all’infinito...
(“Il tuo cuore vicino che non
m’ode, salpa già forse per l’eterno…”)
Chi è l’autore
Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896.
Fin da bambino trascorre le vacanze a Monterosso,
nelle Cinque Terre: è proprio qui che il poeta resta folgorato dal paesaggio
selvaggio, scarno e decadente del posto, che diverrà più tardi lo sfondo ideale
per i versi degli “Ossi di Seppia”; questa raccolta di liriche, edita nel 1925,
inaugura l’utilizzo del correlativo oggettivo, ispirato dai lavori del poeta
angloamericano T.S. Eliot, e si configura come un’attenta e mai banale analisi
della realtà congiunta alla centralità del tema della disarmonia nei confronti
del mondo, da sempre percepita e sofferta dal giovane Montale.
“Ossi di Seppia”, originariamente intitolata
“Rottami”, conquista successo sia nel pubblico dei lettori sia nei giudizi
della critica; altre saranno le raccolte poetiche pubblicate da Montale(“Le
Occasioni”, “La Bufera e Altro”, “Satura”, “Xenia”) che non cambia mai radicalmente le proprie
tematiche poetiche, tanto da meritarsi per questo motivo il nobel nel 1975 (“Per
la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato
i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni”),
ma che procede tuttavia verso una semplificazione formale (si vedano a tal
proposito le liriche appartenenti agli “Xenia” e a “Satura”), mantenendo sempre
e comunque una propria originale coerenza stilistica.
Celebre è la chiusura della lirica “Non chiederci la
parola”, divenuta un motto di fondamentale importanza nella storia della
letteratura novecentesca grazie alla sua sintetica capacità di definire la condizione di poeta.
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
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