giovedì 27 settembre 2012

Poems (47) Casa sul mare



A cura di OracoloDiDelfi


Capita alle volte di trovarsi senza respiro di fronte a un testo poetico.

Non è facile capire il perché: forse per il desiderio di possedere, inalandolo, lo spirito e il senso della poesia che si ha innanzi, ci si dimentica, per alcuni attimi, di respirare; forse perché sono proprio i versi a toglierci il fiato, quasi come se fosse proprio quello il prezzo del testo, il tributo che le parole pretendono da noi per il loro offrirsi all’uomo; o forse perché il silenzio, libero persino dal suono del respiro, può essere l’unica reazione dignitosa alla profondità della lirica.

“Casa sul mare” di Eugenio Montale è una litania da recitare nell’anima quando si perde una persona amata; è il canto d’addio per rendere onore a chi ha camminato al nostro fianco, e per qualche motivo ha deciso di separarsi dal nostro percorso; è l’ultima disperata preghiera a una donna che non si fida più di noi, o a un uomo che non sta al passo di un sentimento d’amore.


ll viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora I minuti sono eguali e fissi
come I giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.

Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
I soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l’isole dell’aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.
Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l’avara mia speranza.
A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno.






Brilla un barlume di speranza nell’oscura fissità del tempo: un lento, inesorabile e sempre identico ritorno dell’uguale, che non lascia spazio al ricordo, all’amore, all’affetto.
 Questo è il tema che percorre la lirica, ricca di rimandi di significato preziosi come il correlativo oggettivo del “giro di pompa”  (“Un giro: un salir d’acqua che rimbomba. Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.”) , efficace metafora della fissità del tempo (“Ora i minuti sono uguali e fissi come i giri di ruota della pompa”) che non concede salvezza all’animo umano.
Ricompare la celebre analogia che mette in relazione il viaggio al vivere, ma con un’ambientazione particolare: il percorso esistenziale si conclude presso una spiaggia deserta, cupa,  dove la brezza marina interviene, misteriosa, per confondere tra le sue nebbie le isole vicine.
La nebbia, appunto: tale è il ricordo umano, una commistione incomprensibile di momenti persi nella tragica fissità del tempo, e nel ritorno identico del destino.

Un’interlocutrice femminile indefinita si rivolge al poeta, chiedendo conferma dell’atroce scenario: “Tu chiedi se così tutto svanisce in questa poca nebbia di memorie”, e la risposta sembra concedere una flebile speranza, che non vale tuttavia per entrambi i protagonisti della lirica.

“Forse solo chi vuole s’infinita, e questo tu potrai, chissà, non io.”

Ricompare il tema del varco, già menzionato nella “Casa dei doganieri”, e nonostante la perdizione costituisca il comune destino dell’uomo, alle volte ad uno solo è concesso di salvarsi, di sfidare un tragico fato di sconfitta, e magari anche di risultarne superiore.

Penso che per i piu’ non sia salvezza, ma taluno sovverta ogni disegno, passi il varco, qual volle si ritrovi.

Come a garanzia di questa possibilità di salvezza, il poeta dona la speranza rimastagli alla donna a cui augura di ribaltare il destino (“Ti dono anche l’avara mia speranza, a’ nuovi giorni stanco, non so crescerla; l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi”) possa questa speranza essere motivo di gioia e compagnia, durante quel lungo viaggio che conduce dritto all’infinito...
(“Il tuo cuore vicino che non m’ode, salpa già forse per l’eterno…”)

Chi è l’autore
Eugenio Montale nasce a Genova nel  1896.
Fin da bambino trascorre le vacanze a Monterosso, nelle Cinque Terre: è proprio qui che il poeta resta folgorato dal paesaggio selvaggio, scarno e decadente del posto, che diverrà più tardi lo sfondo ideale per i versi degli “Ossi di Seppia”; questa raccolta di liriche, edita nel 1925, inaugura l’utilizzo del correlativo oggettivo, ispirato dai lavori del poeta angloamericano T.S. Eliot, e si configura come un’attenta e mai banale analisi della realtà congiunta alla centralità del tema della disarmonia nei confronti del mondo, da sempre percepita e sofferta dal giovane Montale.
“Ossi di Seppia”, originariamente intitolata “Rottami”, conquista successo sia nel pubblico dei lettori sia nei giudizi della critica; altre saranno le raccolte poetiche pubblicate da Montale(“Le Occasioni”, “La Bufera e Altro”, “Satura”, “Xenia”)  che non cambia mai radicalmente le proprie tematiche poetiche, tanto da meritarsi per questo motivo il nobel nel 1975 (“Per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni”), ma che procede tuttavia verso una semplificazione formale (si vedano a tal proposito le liriche appartenenti agli “Xenia” e a “Satura”), mantenendo sempre e comunque una propria originale coerenza stilistica.

Celebre è la chiusura della lirica “Non chiederci la parola”, divenuta un motto di fondamentale importanza nella storia della letteratura novecentesca grazie alla sua sintetica  capacità di definire la condizione di poeta.

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

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