A cura di OracoloDiDelfi
Nell’amore il tempo e lo spazio diventano dimensioni universali, e la poesia lirica è un territorio in cui qualsiasi affermazione diventa verità.
Catullo è vissuto nella Roma repubblicana del primo secolo avanti Cristo, ma la forza dei suoi sentimenti tiene testa a qualsiasi innamorato della storia; nei suoi versi ama e odia Lesbia passando da un estremo all’altro così come il giorno trapassa docilmente nella notte, eppure non ha mai mentito riguardo le proprie emozioni: ha amato e odiato questa donna fatale sempre con un’intensità tale da scuotere e commuovere l’anima del poeta elegiaco e dei suoi futuri lettori.
Non è un caso che il giovane lirico originario di Verona, nonostante il peso dei secoli che grava sulla sua poesia, riesca ancora a parlare a tutti i giovani liceali che ogni anno affrontano i suoi brani sui banchi di scuola: i temi catulliani sono tragicamente umani, e trovano terreno fertile nel cuore di qualsiasi uomo che sia stato, almeno una volta, oppresso dalla forza di un sentimento così forte come quello dell’amore.
L’amore, appunto.
Un amore cieco, totalizzante, corrosivo e velenoso: Catullo piange, si dispera, cerca un’ancora di salvezza per non sprofondare in un tragico abisso di delusione, in cui viene ripetutamente sospinto da un rifiuto inaspettato o dall’inevitabile infedeltà di Lesbia, la donna aristocratica maliziosa, affascinante, e irrimediabilmente inebriata dal piacere sensuale di un’infinita voluttà.
La perfezione formale e stilistica dei carmina catulliani emerge meglio là dove il poeta esprime stati d’animi di speranza, o sensazioni positive che sembrano, almeno per qualche verso, trionfare sul cupo pessimismo che Lesbia continua ad alimentare: la spinta poetica delle liriche appare chiaramente bipartita, presentando una forza di sentimento sempre e comunque sconvolgente che alle volte si declina in una profonda disperazione, ma che in altre momenti diventa portatrice di luminosa e intensa speranza.
L’anima del poeta non smette mai di impegnarsi in una sfrenata effusione di sentimenti, positivi o negativi che siano: il carme V oggetto della rubrica di oggi diventa sintesi di una felicità amorosa che fugge, ma che per un solo prezioso momento sembra essere stata conquistata; è un congiuntivo esortativo ( “Vivamus mea Lesbia, atque amemus”) che suona come una delicata autoconvinzione, un invito a godere della vita e di un amore condensato in un solo debole attimo, non in un eterno presente; il climax numerico che coinvolge la dimensione affettiva dei due amanti, così chiaramente esplicitata nell’atto del bacio, reso linguisticamente con un vocabolo colloquiale e intimo, “basium”, e non con l’espressione più formale “Osculum ferre”, si configura sia come il ricordo di esperienze felici, sia come augurio e auspicio, in quanto il poeta immagina il proprio futuro come un cielo infinito e costellato da migliaia e migliaia di baci di Lesbia.
La conclusione del carme sembra proseguire nella dimensione intima e privata dei due innamorati, gelosi a tal punto del proprio legame, così raro, prezioso ed esclusivo, da volerlo tenere segreto ai piu’, per evitare invidie e cattiverie da parte degli “altri”, dove il pronome indefinito sta ad indicare la totalità della massa non coinvolta nel turbinar delle passioni di Lesbia e Catullo.
Il destino che interviene nella storia ha mescolato nuovamente le sue carte in un modo imprevedibile: se la poesia del giovane Catullo era, ai tempi, destinata a un circolo di pochi eletti, i “neoteroi”, i “Poetae Novi”, come li definisce Cicerone in una Epistola non senza una punta di disprezzo, giovani scapestrati disinteressati alla vita politica cittadini e pronti a impegnarsi in un rinnovamento della poesia latina, guardando, per ispirarsi, alla poesia ellenistica, essa è diventata nel giro di secoli patrimonio di qualsiasi innamorato del pianeta, pronto a rifugiarsi in questi carmi per trovare pace e ristoro dai colpi imprevisti dell’amore.
Catullo, Carme V
Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit breuis lux,
nox est perpetua una dormienda.
da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus inuidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.
Vita e amore a noi due, Lesbia mia,
e ogni acida censura di vecchi gettiamo via
il sole che muore rinascerà
ma dopo che questa nostra luce fuggitiva,
sarà abbattuta,
dormiremo una totale notte senza fine.
Dammi mille baci, ancora cento,
mille altri ancora, e poi di nuovo cento,
e continuamente altri mille, e ancora cento.
Poi, quando ne avremo sommati molte migliaia,
ne faremo un mucchio confuso,
per non sapere,
affinché nessun invidioso ci possa fare il malocchio
se viene a sapere un così gran numero di baci.
Chi è l’autore ?
Gaio Valerio Catullo nacque a Verona all’inizio del primo secolo avanti Cristo, da una famiglia aristocratica di alto lignaggio, con una ricchezza tale da ospitare Giulio Cesare in persona, quando il generale romano ricopriva la funzione di pro console in Gallia (o almeno così racconta il celebre biografo Svetonio) ; i territori dell’infanzia non bastano a soddisfare la curiosità intellettuale del giovane poeta, che si trasferisce, pieno di belle speranze, a Roma, dove frequenta gli ambienti culturali più importanti del tempo e stringe amicizie con figure come Gaio Memmio, Asinio Pollione e Licinio Calvo.
L’esistenza del giovane e affascinante letterato trascorre senza particolari avvenimenti: dato il suo ostinato disinteresse alla vita politica, perfettamente coerente ai canoni della poetica neoterica, le fonti storiche non menzionano il suo coinvolgimento negli “episodi di cronaca” più famosi dell’epoca.
E’ proprio in questi anni che s’innamora perdutamente di Clodia, poeticamente trasfigurata nella figura di Lesbia (chiaro è l’erudito rimando alla poetessa Saffo, originaria appunto dell’isola di Lesbo); sorella di Clodio, tribuno della plebe al centro di molte polemiche e scontri con la classe senatoria dell’epoca, la donna è intelligente, colta, ma anche cinica e spregiudicata: la loro relazione alterna litigi a riappacificazioni, e alimenta l’ispirazione poetica del giovane, innamorato e agonizzante mentre insegue i vacui desideri della donna che ama più della sua stessa vita.
Nel 57 a.C accompagna Gaio Memmio in un viaggio diplomatico in Bitinia, nella Troade: rende omaggio al fratello qui sepolto con una poesia dolce, delicata e straziante, il famosissimo carme 101, capace di ispirare, molti secoli più tardi, il giovane Ugo Foscolo, anch’egli colpito duramente negli affetti dalla scomparsa del fratello.
Ma questa, si sa, è un’altra storia, anche se la poesia, quella no, invece resta sempre la stessa.
“Multas per gentes et multa per aequora vectus
Adevnio has miseras, frater, ad inferias…”
“Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de' tuoi gentil anni caduto…”
Il più bel carme di Catullo è il 64... E' uno dei carmina docta, parla delle nozze di Peleo e Teti e del mito di Teseo e Arianna: c'è un racconto nel racconto! Bellissimo :) Ma anche l'ultimo distico dedicato a Lesbia è davvero bello :)
RispondiEliminaHo un premio per te sul mio blog: http://librisucculenti.blogspot.it/2012/09/premio-cutie-pie.html
RispondiEliminaUna tua fedelissima lettrice ;-)