–, nel giorno del funerale dell’amatissimo nonno, Marco Cinquedraghi riceve la notizia che gli cambierà la vita: deve lasciare Roma e partire per la Svizzera. È infatti giunto il momento di iscriversi all’Albion College, la scuola in cui, da sempre, si diplomano i membri della sua famiglia.
Ma il blasonato collegio riserva molte sorprese. Tra duelli di spade e lezioni di filologia romanza, mistici poteri che riaffiorano e verità sepolte dal tempo che riemergono, Marco scoprirà il valore dell’amicizia e capirà che l’amore, quello vero, non si ottiene senza sacrificio.
Nelle trame ordite dal più grande dei maghi e nell’eco di un amore indimenticabile si ridestano legami immortali, scritti nel sangue. Fino all’epilogo, tra le mura di un’antica abbazia, dove Marco conoscerà la strada che le stelle hanno in serbo per lui.
Il destino di un re il cui nome è leggenda.
Devo ammettere che la trama di questo romanzo mi aveva, al contempo, affascinata e insospettita. In genere diffido quando leggo una sinossi un po’ altisonante come questa, ma mi son detta di provare a leggere prima di giudicare. Siamo all’Albion College, una scuola elitaria dove si entra per diritto di nascita (e può essere ammesso solo il primogenito della famiglia prescelta), ed è netto il divario tra ricchi e poveri. Marco Cinquedraghi, il protagonista, si trova catapultato in questa nuova realtà in seguito alla morte misteriosa del fratello, arrancando a causa delle materie così diverse da quelle che si studiano nelle scuole normali, impegnandosi (specialmente cercando, all’inizio, di servirsi di mezzucci poco leciti) per evitare di esser rispedito a casa e ricevere il biasimo di suo padre, uomo austero che ritiene il figlio un fallito. All’inizio della storia non si può fare a meno di odiare Marco, il suo caratteraccio e la sua faccia tosta, assumendo l’impressione che Helena Gomez, altro personaggio importante nella storia, si è fatta di lui dal loro primo incontro in treno. Helena è molto diversa da Cinquedraghi: è una borsista, lavora al College per poterlo frequentare, spesso è vittima delle angherie dei compagni più facoltosi (contro di lei gioca la sua claustrofobia) ed è segretamente invaghita di Lance Chevalier, il compagno di stanza di Marco. Migliore amico della ragazza è Deacon Emrys, irlandese abile nelle materie scientifiche e dotato di poteri particolari (non innati), ma frana nel combattimento. Lui e Marco hanno quello che si potrebbe dire un inizio burrascoso – Deacon lo detesta e lo schernisce con delle caricature, Marco dal canto suo si vendica picchiandolo – per poi decidere di collaborare aiutandosi in quello in cui sono più carenti: il primo nell’arte del combattimento, il secondo in matematica. I tre ragazzi diventano pian piano amici, non senza remore e fraintendimenti, ed insieme ad altri borsisti decidono di scoprire il segreto dietro l’ereditarietà dell’ammissione al college e la vera storia della fondazione dell’Albion.
Cominciamo col dire qualcosa del titolo del libro: Albion è l’antico nome della Gran Bretagna, il regno che le leggende ci ricordano esser stato dominato dall’indomito Re Artù. Questo riferimento alle storie del ciclo arturiano percorre l’intera storia, a partire dalle attività svolte nel college, fino alle capacità straordinarie di alcuni dei personaggi.
Tempo della storia e tempo del racconto sono fortemente sbilanciati: la lettura procede lentamente e per trecento pagine non si racconta che la vita del college, un arco temporale di circa due mesi, con eventi a volte forse un po’ ridondanti, con qualche forzatura nel marcare il brutto carattere di Marco, spingendo il lettore quasi a odiarlo: per metà del romanzo è lui il cattivo. Certo, ci sono degli eventi particolari che generano il climax ascendente verso il finale “col botto” ma, negli intervalli di tranquillità, il ritmo narrativo decade in un’assoluta staticità. Si nota poi una forte influenza dell’universo di Harry Potter: nei pochi momenti in cui entrava in scena il preside della scuola, Angus, non ho potuto fare a meno di pensare al compianto Silente, alla sua saggezza innata e alla voglia di far sentire a suo agio Marco. Albion dunque, per certi versi, potrebbe definirsi una storia “d’arme e fanciulle”, visto che le parti forse più belle del romanzo sono dedicate ai combattimenti nella giostra: Bianca Marconero ha saputo regalarci bellissime cronache non solo della giostra, raccontandoci colpo per colpo, ma anche i combattimenti di spade, mostrando una padronanza dei termini e delle norme della scherma davvero degne di plauso. Ma, ahimè, dobbiamo parlare delle pecche: ammetto che per chi non ha alcuna conoscenza del ciclo arturiano molte delle cose che succedono nella parte del libro ambientata tra le mura scolastiche passano in sordina, mentre chi è più avvezzo alle storie della Tavola Rotonda facilmente intuisce identità e segreti svelati solo nelle ultime pagine. Non aggiungo altro per non spoilerare, ma chi ha letto il romanzo saprà darmi ragione. Se, come me, avete affrontato la lettura con un background da appassionato dei racconti di Avalon, al finale si arriverà con la consapevolezza di aver intuito come sarebbe andata a finire. Ammetto, comunque, che l’epilogo mi ha stupito – e non in senso positivo – perché c’è un pieno decadimento dallo young adult al romance proprio nelle ultime righe.
Facendo una sommatoria dei pro e contro di questo romanzo, direi che la cosa che davvero ho apprezzato è un buon utilizzo della sintassi italiana – cosa che ultimamente pare passare in secondo piano – e un’ottima gestione del dialogo, che risulta sempre credibile. Divertenti i misunderstanding derivanti dalla difficoltà di esprimersi in inglese: spesso a Marco capita di infilare termini italiani nel discorso, risultando incomprensibile ai suoi amici, creando dei veri e propri momenti di ilarità. Ma la cattiva gestione del ritmo narrativo, troppo dilatato, credo abbia di molto compromesso la velocità di lettura – tra l’altro interrotta più volte proprio per questo motivo.
L’autrice ci ha regalato un universo sicuramente diverso, ma adatto all’adolescenza (sebbene ci siano alcuni riferimenti non specifici al sesso). Forse è per questo che non sono riuscita a godermi appieno la lettura.
In ultimo, vorrei segnalare la breve postfazione di Barabara Baraldi, dal titolo Le leggende non muoiono mai, un brevissimo riassunto delle vicende arturiane che celebra la più alta missione dei libri: quella di creare nuove dimensioni attraverso l’immaginazione.
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