mercoledì 9 ottobre 2013

Virginia Woolf: fra depressione ed emancipazione




Il mio primo incontro con Virginia Woolf risale agli anni dei corsi di letteratura inglese seguiti all'università, ma non fu certo amore a prima vista: alle vicende della Sig.ra Dalloway allora preferivo di gran lunga l'acuto spirito di osservazione e l'ironia delle protagoniste di Jane Austen oppure la cupa ineluttabilità della disperata storia di amore fra Cathy e Heathcliff in “Cime Tempestose” di Emily Brontë. Presa come ero negli studi, non avevo colto appieno il grande valore della Woolf, impareggiabile maestra nell'uso del monologo interiore, e soprattutto non ero rimasta catturata dalla complessità della sua figura, non solo artistica ma anche femminile.
Se fosse vissuta oggi, Virginia Stephen (come si chiamava prima del matrimonio con Leonard Woolf), probabilmente sarebbe stata conosciuta con questo nome, visto che ormai anche nel mondo anglosassone le donne famose non usano più prendere quello del marito, e per esercitare la sua arte avrebbe avuto a disposizione ben più di “una stanza tutta per sé”, come il titolo di un suo saggio di denuncia del 1929. Virginia Woolf, accanto a romanzi universalmente noti come “Mrs Dalloway”, “Orlando” e “Gita al Faro”, scrisse infatti anche alcuni saggi e fra gli argomenti trattati spiccava appunto il tema della condizione femminile, inserendosi nel dibattito che imperversava in Inghilterra all’epoca. In “Una stanza tutta per sé”, l'autrice denuncia apertamente la secolare subalternità delle donne, che prima di tutto si esprime nella sua impossibilità di accedere al sapere, diritto di esclusivo appannaggio maschile. Questa impossibilità, che la stessa Woolf ha sperimentato in prima persona non avendo potuto accedere a una regolare istruzione superiore, si traduce in un confino della donna nell'ambito domestico, da cui non si può liberare in quanto priva di reddito e di ogni possibilità di un'indipendenza economica. Il suo spazio di movimento e di affermazione  rimane quindi limitato al solo ruolo tradizionale di figlia, moglie e madre e questa limitazione pare molto avvertita dalla scrittrice che arriva addirittura ad affermare nel suo saggio: “Le donne hanno avuto meno libertà intellettuale di quanta ne avessero o i figli degli schiavi ateniesi”. È stupefacente pensare che Virginia Woolf, appena nei primi decenni del secolo scorso, sia stata in grado di fornire un'analisi lucida e in parte ancora attuale della situazione femminile, intravedendo nell'indipendenza economica un grande pilastro della liberazione delle donne, che attraverso la possibilità di guadagnare del denaro per mantenersi ha la possibilità di oltrepassare le mura domestiche per entrare nella vita degli uomini. Scrive infatti “È davvero straordinario il cambiamento di carattere che il possesso di una rendita fissa è in grado di produrre. Nessuna forza al mondo può portarmi via le mie cinquecento sterline.
Non dobbiamo comunque dimenticare che, nonostante la società inglese dell'epoca la relegasse comunque in un ruolo subalterno, la Woolf fu molto attiva nella scena culturale del suo tempo: oltre che attivista in alcuni movimenti femministi, fu anche membro di supporto fondamentale per il Bloomsbury Group, il gruppo di intellettuali inglesi alla cui fondazione aveva partecipato anche il fratello Toby Stephen. Ancora più straordinaria fu la sua figura se consideriamo che non stiamo parlando di una donna adamantina dalla personalità granitica e dall'animo inscalfibile, bensì di una persona molto fragile, afflitta da un disagio interiore profondo e senza speranza al quale smetterà di opporsi il 28 marzo del 1941, giorno in cui decise di porre fine a tutto lasciandosi annegare in un fiume. Forse per lei scrivere era davvero un modo di ritrovare un po' di quella forza necessaria per affrontare la vita di tutti i giorni, anche se la sua esasperata sensibilità la portava ad affrontare con grande ansia le reazioni del pubblico ai suoi scritti, e prima ancora di affrontare i lettori, affrontava il giudizio del marito che, da scrittore e letterato, sapeva calibrare le parole per non turbare il precario equilibrio della moglie.

A volte penso che Virginia Woolf avesse paura della vita e alla vita non ha saputo tenere testa, eppure mi rendo conto di sbagliare, perché, anche nella sua resa, la sua grandezza non è stata scalfita: nonostante tutto, ha saputo ribellarsi a quanto veniva imposto allora a una donna, a modo suo aveva vinto la battaglia contro la società, con i suoi saggi ha perorato una causa, che non era solo sua, ma anche di tutte le donne, anche quelle ordinarie che non avevano i mezzi di far sentire la propria voce. Chissà... se oggi siamo in tante ad avere fortunatamente “una stanza tutta per sé”, forse è un po' anche merito suo.


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