Quando Luce e Pietro si recano in ambulatorio per fare una delle ultime ecografie prima del parto, sono al settimo cielo. Pietro indossa persino il maglione portafortuna, quello tutto sfilacciato a scacchi verdi e blu delle grandi occasioni. Ci sono voluti anni per arrivare fin qui, anni di calcoli esasperanti con calendario alla mano, di "sesso a comando", di attese col cuore in gola smentite in un minuto. Non appena sul monitor appare il piccolo Lorenzo, però, il sorriso della ginecologa si spegne di colpo. Lorenzo è troppo "corto". Ha qualcosa che non va. "Nessuno sa di noi" è la storia di un mondo che si lacera come carta velina. E di una donna di fronte alla responsabilità di una scelta enorme. Qual è la cosa giusta quando tutte le strade portano a un vicolo cieco? Che cosa può l'amore? E quante sono le storie di luce e buio vissute dalle persone che ci passano accanto? Come le ricorderanno le lettrici della sua rubrica e le numerose donne che incontra sul web, Luce non è sola.
Editore: Giunti
Pagine: 262
Prezzo: € 12,00
Voto:
Premetto e sottolineo che questa mia recensione, che giunge dopo aver letto il romanzo di Paolo Di Paolo, Mandami tanta vita (anch’ esso nella cinquina finalista dello Strega), non è in alcun modo comparativa. Mi limiterò, dunque, ad esporre le mie opinioni su Nessuno sa di noi, puntualizzando che si tratta di un parere personale – condivisibile o meno.
Nessuno sa di noi ci racconta dei vari tentativi di Luce di mettere al mondo una creatura, tra controlli della fertilità e sesso scandito dai test di ovulazione. A starle dietro c’è Pietro, un uomo buono che la ama così tanto da non essere turbato dal fatto che, dopo una relazione di tanti anni, Luce non sia pronta al matrimonio. Quando finalmente la ragazza scopre di essere incinta, la loro vita cambia colori, per ricadere nuovamente nel grigio quando più pareri medici confermano una displasia scheletrica e ipoplasia toracica del bambino che potrebbe non sopravvivere alla nascita o presentare incurabili e imprevedibili danni di natura cerebrale e motoria. Non c’è nulla che si possa fare se non optare per un aborto terapeutico, non più possibile in Italia poiché Luce è ormai al settimo mese di gestazione. La coppia dunque parte per Londra, dove la gravidanza viene interrotta. Luce vivrà con il peso di aver deciso la morte del suo bambino, rendendosi conto che troppo spesso ha letto con troppo distacco le lettere inviatele dalle sue lettrici, sentendo i loro problemi lontani da lei e rapportandovisi spesso con estrema indifferenza.
Questo romanzo parla del dramma umano dell’aborto terapeutico, ossia del dovere interrompere una gravidanza allo stadio avanzato per gravi malformazioni del feto, cosa che per la legge italiana non è possibile oltre la dodicesima settimana di gestazione. Un libro di denuncia? Un romanzo altamente medico? Un romanzo sentimentale? Affatto.
Nessuno sa di noi è una storia difficilmente classificabile e – suo malgrado – credo che questa sia la più grande pecca, ma non l’unica, facilmente individuabile. Sostanzialmente, in esso si vuole fare del dolore un motivo trascinante che riesca a travolgere e sconvolgere il lettore tanto da assuefarlo. Purtroppo, il gioco di colpire nell’emotività di chi lo legge non riesce ad essere efficace. Siamo così assuefatti dal dolore che non riusciamo più a stupircene? Forse è vero, ma mi verrebbe anche ad aggiungere che, se volessimo davvero leggere del dolore, potremmo affidarci ad un saggio di Susan Sontag piuttosto che ad un romanzo che un romanzo non è. Forse sarebbe meglio definirlo un racconto allungato, viste le oltre duecento pagine, ma anche lì saremmo fuori strada: è una storia raccontata in prima persona e in forma diaristica, nulla più, una sorta di teorizzazione ridondante del dolore che, di questo, vorrebbe mostrarci in maniera pedante e ostentata tutte le sfaccettature. I periodi sono spesso lunghi e ripetitivi, non dicono nulla più della frase precedente e tendono ad “arzigogolarsi” in prossimità del punto. I protagonisti, poi, sono inconsistenti: Luce sembra non avere una personalità, vive in funzione del suo ciclo mestruale, ha un rapporto conflittuale con la madre, ma per il resto non è minimamente caratterizzata. Stessa cosa per Pietro, che appare come una nebulosa, di cui si dice solo che è credente e benestante, vorrebbe sposare Luce, continua a mettere il maglione portafortuna ed è utile in una clinica dove tutti parlano inglese. Mi sarei aspettata, in un romanzo di questo tipo, un maggiore interesse per la psicologia dei personaggi, eclissata in favore di un ben più funzionale accento su quello che stava accadendo loro in termini fisici – non saprei spiegarlo altrimenti. Inoltre in alcune parti ho avuto come un déjà-vu: nei momenti in cui la protagonista si rivolgeva a Dio, mi ricordava incredibilmente Elizabeth di Mangia, prega, ama e la sua disperazione. In comune tra i due romanzi c’è il tema del viaggio (fisico e metaforico) per ritrovare se stessi, cosa che rende ancor più pieno di cliché la storia della Sparaco.
La seconda parte del romanzo è dedicata al dolore della perdita, divenendo ancor più lento, se possibile, perché sostanzialmente privo di azione. I periodi si fanno più lunghi, snervanti e divaganti. Paradossalmente, laddove ci si ricorda che nel romanzo ha spazio anche la poesia, non si riesce a fare altro che limitare l’immaginazione del lettore con una serie di ripetizioni:
«Quando Pietro mi guarda è questo che vede: una casa abbandonata. Un luogo disabitato. (..) Quello è il mio corpo, penso davanti allo specchio. È stato aperto e poi richiuso. Bombardato di ormoni, allargato di medicinali, puntellato dalla ritenzione idrica. Ora si è gonfiato come l’intonaco di una parete quando si rompe un tubo e c’è una perdita. (…) Sono una stanza inespugnabile in una casa vuota. Una casa violata, saccheggiata. È inutile insistere, quella porta non si apre».
Non occorrono tante parole per spiegare il dolore: in questo caso l’eccedenza non fa altro che ingigantire la finzione letteraria e palesarla. Devo dirlo con vero rammarico: non è una stata una lettura piacevole, né edificante. La tematica avrebbe potuto essere scottante, ma il modo in cui viene affrontata la banalizza e lo rende nient’altro che un nuovo libro letto quest’anno.
Scrittrice e sceneggiatrice, è nata a Roma. Dopo aver preso una laurea inglese in Scienze della Comunicazione, spinta dalla passione per la letteratura, è tornata in Italia e si è iscritta alla facoltà di Lettere, indirizzo Spettacolo. Ha poi frequentato diversi corsi di scrittura creativa, tra cui il master della scuola Holden di Torino. Per Newton Compton ha pubblicato i romanzi Lovebook e Bastardi senza amore, tradotto anche in lingua inglese. Vive tra Roma e Singapore.
Una delle cose che più mi sono chiesta è perché mai questo libro sia stato candidato al Premio Strega: non è letteratura, non ha nemmeno un respiro da romanzo.
RispondiEliminaCome ho scritto nella recensione, questo è un dubbio che mi ha assillato durante tutta la lettura. Per questo parlavo di difficoltà nel classificare questo libro - le definizioni "romanzo" e "racconto", d'altronde, sono ambigue, plurime, ma nello stesso tempo tautologiche. Sono più propensa a pensare che la storia della Sparaco tenda maggiormente al racconto lungo proprio perché narra un'unica vicenda non sviluppando nessun intreccio con eventi collaterali (se non di poca entità e di scarso legame con l'evento portante). L’unica rottura degli schemi può essere apportata dalle lettere spedite a Luce e dai risultati dei suoi esami medici, ma il tutto, condito con l’emotività della protagonista e la volontà di toccare le corde giuste nel lettore, non riesce a trasformarsi in un romanzo, ma in una forma narrativa non ben definita. Le potenzialità sicuramente c’erano,forse si sarebbero dovute sviluppare in modo meno confuso.
EliminaNon sarà sicuramente alta letteratura, lo credo anch'io, ma anche affibbiarli una misera stella mi sembra eccesso di pignoleria e voglia di esser davvero tanto stronzi.
RispondiEliminaQua nessuno fa lo stronzo, non vedo per quale motivo dovremmo. Ma non facciamo nemmeno sconti, se è stato dato questo voto evidentemente il libro se lo merita.
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RispondiElimina"Sostanzialmente, in esso si vuole fare del dolore un motivo trascinante che riesca a travolgere e sconvolgere il lettore tanto da assuefarlo. Purtroppo, il gioco di colpire nell’emotività di chi lo legge non riesce ad essere efficace. Siamo così assuefatti dal dolore che non riusciamo più a stupircene? ", quasi invidio chi ha scritto dall'alto della sua ignoranza questa constatazione...chissà che costui un giorno possa realmente trattare il dolore con umiltà prima di sentirsene già assuefatto!
RispondiEliminaSembrava superfluo - ma evidentemente non lo è... - precisare che il dolore di cui si parla non è quello provato in prima persona, ma quello a cui assistiamo, indifferenti, davanti alla tv o alle notizie dei quotidiani. Per assuefazione al dolore si intende proprio il bombardamento di notizie tragiche a cui ormai siamo abituati, che ascoltiamo senza battere ciglio. L'ignoranza, caro ciuciu, è la tua. Perché non sai assolutamente niente del dolore - non quello falso, costruito e stucchevole di questo libro, ma quello vero - che ha provato, nella sua vita, chi ha scritto questa recensione. Buona giornata.
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