sabato 9 novembre 2013

Poems (60) : il poeta “voce” della nazione nel manifesto romantico di Giovanni Berchet


Quando si pensa al Romanticismo, nella nostra mente fanno capolino i grandi scrittori tedeschi o inglesi. Al liceo raramente si accenna al fatto che anche l’Italia ha avuto i suoi “manifesti”, sulla scia di quelli Friedrich Schlegel e Madame de Staël (tradotta dal francese da Piero Giordani nel 1816), e la figura di Giovanni Berchet, rivoluzionario tra i fondatori de “Il Conciliatore”, spesso non viene nemmeno menzionata. Oggi parliamo di un testo che venne pubblica a Milano nel dicembre 1816, ossia Sul “Cacciatore feroce” e sulla “Eleonora” di Goffredo Augusto Bürger. Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo. In questo testo altamente ironico, che si muove dalla traduzione di due ballate del poeta tedesco Bürger, l’autore si mette nei panni del pedagogo erudito e classicista che vuole esporre le teorie romantiche per sconfessarle e allontanare da esse il figlio. Facendo da eco a Madame de Staël - che sosteneva, ne Sulla maniera e la utilità delle traduzioni, che «dovrebbero a mio avviso gli italiani tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità a’ loro cittadini, i quali stanno contenti all’antica mitologia: né pensano che quelle favole sono da un pezzo anticate, anzi il resto d’Europa le ha già abbandonate e dimentiche» -, Berchet si interroga sul carattere popolare della vera poesia, capace di dare voce ai sentimenti più reconditi dell’animo umano, aggiungendo inoltre la necessità della poesia di essere comprensibile a chiunque, e non più una forma testuale destinata ai soli intellettuali (da qui l’importanza della traduzione dei testi stranieri). Dal testo si evince un’interessante accezione di «nazione», che non rappresenta solo un aggregato di individui che condividono la stessa lingua e gli stessi costumi, piuttosto si tratta di una comunità più vasta caratterizzata da un modo comune di sentire, tipico di quanti «pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono e sentono le passioni tutte». Il poeta è dunque colui che concretizza il pensiero di un intero popolo, i suoi sentimenti e le sue passioni. Si nota poi una forte indole rivoluzionaria nel testo che rimanda ad un patriottismo che vede non nella lingua ma nell’attività letteraria una possibile conciliazione e fondazione di un nuovo stato, quello italiano, che avverrà solamente dieci anni dopo la scomparsa di Berchet.


***




Tutti gli uomini, da Adamo in giù fino al calzolaio che ti fa i begli stivali, hanno nel fondo dell’anima una tendenza alla poesia. Questa tendenza, che in pochissimi è attiva, negli altri non è che passiva, non è che una corda che risponde con simpatiche oscillazioni al tocco della prima.
La natura, versando a piene mani i suoi doni nell’animo di que’ rari individui ai quali ella concede la tendenza poetica attiva, pare che si compiaccia di crearli differenti affatto dagli altri uomini in mezzo a cui li fa nascere. Di qui le antiche favole sulla quasi divina origine de’ poeti, e gli antichi pregiudizi sui miracoli loro, e l’«est deus in nobis». Di qui il più vero dettato di tutti i filosofi: che i poeti fanno classe a parte, e non sono cittadini di una sola società ma dell’intero universo. (...) Il poeta dunque sbalza fuori delle mani della natura in ogni tempo, in ogni luogo. Ma per quanto esimio egli sia, non arriverà mai a scuotere fortemente l’animo de’ lettori suoi, né mai potrà ritrarre alto e sentito applauso, se questi non sono ricchi anch’essi della tendenza poetica passiva. Ora siffatta disposizione degli animi umani, quantunque universale, non è in tutti gli uomini ugualmente squisita.
Lo stupido ottentoto, sdraiato sulla soglia della sua capanna, guarda i campi di sabbia che la circondano, e s’addormenta. Esce de’ suoi sonni, guarda in alto, vede un cielo uniforme stendersegli sopra del capo, e s’addormenta. Avvolto perpetuamente tra ’l fumo del suo tugurio e il fetore delle sue capre, egli non ha altri oggetti dei quali domandare alla propria memoria l’immagine, pe’ quali il cuore gli batta di desiderio. Però alla inerzia della fantasia e del cuore in lui tiene dietro di necessità quella della tendenza poetica.
Per lo contrario un parigino agiato ed ingentilito da tutto il lusso di quella gran capitale, onde pervenire a tanta civilizzazione, è passato attraverso una folla immensa di oggetti, attraverso mille e mille combinazioni di accidenti. Quindi la fantasia di lui è stracca, il cuore allentato per troppo esercizio. Le apparenze esterne delle cose non lo lusingano (per così dire); gli effetti di esse non lo commovono più, perché ripetuti le tante volte. E per togliersi di dosso la noia, bisogna a lui investigare le cagioni, giovandosi della mente. Questa sua mente inquisitiva cresce di necessità in vigoria, da che l’anima a pro di lei spende anche gran parte di quelle forze che in altri destina alla fantasia ed al cuore; cresce in arguzia per gli sforzi frequenti a’ quali la meditazione la costringe. E il parigino di cui io parlo, anche senza avvedersene, viene assuefacendosi a perpetui raziocini o, per dirla a modo del Vico, diventa filosofo.
Se la stupidità dell’ottentoto è nimica alla poesia, non è certo favorevole molto a lei la somma civilizzazione del parigino. Nel primo la tendenza poetica è sopita; nel secondo è sciupata in gran parte. I canti del poeta non penetrano nell’anima del primo, perché non trovano la via d’entrarvi. Nell’anima del secondo appena appena discendono accompagnati da paragoni e da raziocini: la fantasia ed il cuore non rispondono loro che come a reminiscenze lontane. E siffatti canti, che sono l’espressione arditissima di tutto ciò che v’ha di più fervido nell’umano pensiero, potranno essi trovar fortuna fra tanto gelo? E che maraviglia se, presso del parigino ingentilito, quel poeta sarà più bene accolto che più penderà all’epigrammatico?
Ma la stupidità dell’ottentoto è separata dalla leziosaggine del parigino fin ora descritto per mezzo di gradi moltissimi di civilizzazione, che più o meno dispongono l’uomo alla poesia. E s’io dovessi indicare uomini che più si trovino oggidì in questa disposizione poetica, parmi che andrei a cercarli in una parte della Germania.
A consolazione non pertanto de’ poeti, in ogni terra, ovunque è coltura intellettuale, vi hanno uomini capaci di sentire poesia. Ve n’ha bensì in copia ora maggiore, ora minore; ma tuttavia sufficiente sempre. Ma fa d’uopo conoscerli e ravvisarli ben bene, e tenerne conto. Ma il poeta non si accorgerà mai della loro esistenza, se per rinvenirli visita le ultime casipole della plebe affamata, e di là salta a dirittura nelle botteghe da caffè, ne’ gabinetti delle Aspasie, nelle corti de’ principi, e nulla più. Ad ogni tratto egli rischierà di cogliere in iscambio la sua patria, ora credendola il capo di Buona speranza, ora il cortile del Palais-royal. E dell’indole dei suoi concittadini egli non saprà mai un ette.
Ché s’egli considera che la sua nazione non la compongono que’ dugento che gli stanno intorno nelle veglie e ne’ conviti; se egli ha mente a questo: che mille e mille famiglie pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono e sentono le passioni tutte, senza pure avere un nome ne’ teatri; può essere che a lui si schiarisca innanzi un altro orizzonte, può essere che egli venga accostumandosi ad altri pensieri ed a più vaste intenzioni.
L’annoverare qui gli accidenti fisici propizi o avversi alla tendenza poetica; il dire minutamente come questa, del pari che la virtù morale, possa essere aumentata o ristretta in una nazione dalla natura delle instituzioni civili, delle leggi religiose e di altre circostanze politiche; non fa all’intendimento mio. Te ne discorreranno, o carissimo, a tempo opportuno, i libri ch’io ti presterò. Basti a te per ora il sapere che tutte le presenti nazioni d’Europa – l’italiana anch’essa né più né meno – sono formate da tre classi d’individui: l’una di ottentoti, l’una di parigini e l’una, per ultimo, che comprende tutti gli altri individui leggenti ed ascoltanti, non eccettuati quelli che, avendo anche studiato ed esperimentato quant’altri, pur tuttavia ritengono attitudine alle emozioni. A questi tutti io do nome di «popolo».
Della prima classe, che è quella dei balordi calzati e scalzi, non occorre far parole. La seconda, che racchiude in sé quei pochi i quali escono dalla comune in modo da perdere ogni impronta nazionale, vuole bensì essere rispettata dal poeta, ma non idolatrata, ma non temuta. Il giudizio, che i membri di questa classe fanno delle moderne opere poetiche, non suole derivare dal suffragio immediato delle sensazioni, ma da’ confronti. Negli anni del fervore eglino hanno trovato il bello presso tale e tal altro poeta; e ciò che non somiglia al bello sentito un tempo pare loro di doverlo ora ricusare. Le opinioni scolastiche, i precetti bevuti pigramente un tempo come infallibili, reggono tuttavia il loro intelletto, che non li mise mai ad esame, perché d’altro curante. Però l’orgoglio umano, a cui è duro il dover discendere a discredere ciò che per molti anni s’è creduto, il più delle volte li fa tenaci delle massime inveterate. E il più delle volte eglino combattono per esse come per l’antemurale della loro riputazione. Allora ogni arme, ogni scudo giova. E perché una serie di secoli non si brigò più che tanto di discutere l’importanza di quelle massime, eccoti in campo un bello argomento di difesa nel silenzio delle generazioni. «Chi tace non parla», diciamo noi. Ma «chi tace approva», dicono essi, e il sopore dei secoli lo vanno predicando come consenso assoluto di tuttaquanta la ragione umana alla necessità di certe regole chiamate, Dio sa perché, di «buon gusto»; e però via via d’ugual passo sgozzano ad esse ogni tratto qualche vittima illustre. La lode, che al poeta viene da questa minima parte della sua nazione, non può davvero farlo andare superbo; quindi anche il biasimo ch’ella sentenzia non ha a mettergli grande spavento. La gente ch’egli cerca, i suoi veri lettori stanno a milioni nella terza classe. E questa, cred’io, deve il poeta moderno aver di mira, da questa deve farsi intendere, a questa deve studiar di piacere, s’egli bada al proprio interesse ed all’interesse vero dell’arte. Ed ecco come la sola vera poesia sia la popolare: salve le eccezioni sempre, come ho già detto; e salva sempre la discrezione ragionevole, con cui questa regola vuole essere interpretata.




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