Quando
si pensa al Romanticismo, nella nostra mente fanno capolino i grandi scrittori tedeschi o inglesi. Al
liceo raramente si accenna al fatto che anche l’Italia ha avuto i suoi “manifesti”,
sulla scia di quelli Friedrich Schlegel e
Madame de Staël (tradotta dal francese da Piero Giordani nel 1816), e la
figura di Giovanni Berchet, rivoluzionario
tra i fondatori de “Il Conciliatore”, spesso non viene nemmeno menzionata. Oggi
parliamo di un testo che venne pubblica a Milano nel dicembre 1816, ossia Sul “Cacciatore
feroce” e sulla “Eleonora” di Goffredo Augusto Bürger. Lettera semiseria di
Grisostomo al suo figliuolo. In questo testo altamente ironico, che si
muove dalla traduzione di due ballate del poeta tedesco Bürger, l’autore si
mette nei panni del pedagogo erudito e classicista che vuole esporre le teorie
romantiche per sconfessarle e allontanare da esse il figlio. Facendo da eco a Madame
de Staël - che sosteneva, ne Sulla
maniera e la utilità delle traduzioni, che «dovrebbero a mio avviso gli italiani tradurre diligentemente assai
delle recenti poesie inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità a’ loro
cittadini, i quali stanno contenti all’antica mitologia: né pensano che quelle
favole sono da un pezzo anticate, anzi il resto d’Europa le ha già abbandonate
e dimentiche» -, Berchet si interroga sul carattere popolare della vera
poesia, capace di dare voce ai sentimenti più reconditi dell’animo umano,
aggiungendo inoltre la necessità della poesia di essere comprensibile a
chiunque, e non più una forma testuale destinata ai soli intellettuali (da qui
l’importanza della traduzione dei testi stranieri). Dal testo si evince un’interessante
accezione di «nazione», che non
rappresenta solo un aggregato di individui che condividono la stessa lingua e
gli stessi costumi, piuttosto si tratta di una comunità più vasta
caratterizzata da un modo comune di sentire, tipico di quanti «pensano,
leggono, scrivono, piangono, fremono e sentono le passioni tutte». Il poeta è
dunque colui che concretizza il pensiero di un intero popolo, i suoi sentimenti
e le sue passioni. Si nota poi una forte indole rivoluzionaria nel testo che
rimanda ad un patriottismo che vede non nella lingua ma nell’attività
letteraria una possibile conciliazione e fondazione di un nuovo stato, quello
italiano, che avverrà solamente dieci anni dopo la scomparsa di Berchet.
***
Tutti
gli uomini, da Adamo in giù fino al calzolaio che ti fa i begli stivali, hanno
nel fondo dell’anima una tendenza alla poesia. Questa tendenza, che in
pochissimi è attiva, negli altri non è che passiva, non è che una corda che
risponde con simpatiche oscillazioni al tocco della prima.
La
natura, versando a piene mani i suoi doni nell’animo di que’ rari individui ai
quali ella concede la tendenza poetica attiva, pare che si compiaccia di
crearli differenti affatto dagli altri uomini in mezzo a cui li fa nascere. Di
qui le antiche favole sulla quasi divina origine de’ poeti, e gli antichi
pregiudizi sui miracoli loro, e l’«est
deus in nobis». Di qui il più vero dettato di tutti i filosofi: che i poeti
fanno classe a parte, e non sono cittadini di una sola società ma dell’intero
universo. (...) Il poeta dunque sbalza fuori delle mani della natura in ogni
tempo, in ogni luogo. Ma per quanto esimio egli sia, non arriverà mai a
scuotere fortemente l’animo de’ lettori suoi, né mai potrà ritrarre alto e
sentito applauso, se questi non sono ricchi anch’essi della tendenza poetica
passiva. Ora siffatta disposizione degli animi umani, quantunque universale,
non è in tutti gli uomini ugualmente squisita.
Lo
stupido ottentoto, sdraiato sulla soglia della sua capanna, guarda i campi di
sabbia che la circondano, e s’addormenta. Esce de’ suoi sonni, guarda in alto,
vede un cielo uniforme stendersegli sopra del capo, e s’addormenta. Avvolto
perpetuamente tra ’l fumo del suo tugurio e il fetore delle sue capre, egli non
ha altri oggetti dei quali domandare alla propria memoria l’immagine, pe’ quali
il cuore gli batta di desiderio. Però alla inerzia della fantasia e del cuore
in lui tiene dietro di necessità quella della tendenza poetica.
Per
lo contrario un parigino agiato ed ingentilito da tutto il lusso di quella gran
capitale, onde pervenire a tanta civilizzazione, è passato attraverso una folla
immensa di oggetti, attraverso mille e mille combinazioni di accidenti. Quindi
la fantasia di lui è stracca, il cuore allentato per troppo esercizio. Le
apparenze esterne delle cose non lo lusingano (per così dire); gli effetti di
esse non lo commovono più, perché ripetuti le tante volte. E per togliersi di
dosso la noia, bisogna a lui investigare le cagioni, giovandosi della mente.
Questa sua mente inquisitiva cresce di necessità in vigoria, da che l’anima a
pro di lei spende anche gran parte di quelle forze che in altri destina alla
fantasia ed al cuore; cresce in arguzia per gli sforzi frequenti a’ quali la
meditazione la costringe. E il parigino di cui io parlo, anche senza
avvedersene, viene assuefacendosi a perpetui raziocini o, per dirla a modo del
Vico, diventa filosofo.
Se
la stupidità dell’ottentoto è nimica alla poesia, non è certo favorevole molto
a lei la somma civilizzazione del parigino. Nel primo la tendenza poetica è
sopita; nel secondo è sciupata in gran parte. I canti del poeta non penetrano
nell’anima del primo, perché non trovano la via d’entrarvi. Nell’anima del
secondo appena appena discendono accompagnati da paragoni e da raziocini: la
fantasia ed il cuore non rispondono loro che come a reminiscenze lontane. E
siffatti canti, che sono l’espressione arditissima di tutto ciò che v’ha di più
fervido nell’umano pensiero, potranno essi trovar fortuna fra tanto gelo? E che
maraviglia se, presso del parigino ingentilito, quel poeta sarà più bene
accolto che più penderà all’epigrammatico?
Ma
la stupidità dell’ottentoto è separata dalla leziosaggine del parigino fin ora
descritto per mezzo di gradi moltissimi di civilizzazione, che più o meno
dispongono l’uomo alla poesia. E s’io dovessi indicare uomini che più si
trovino oggidì in questa disposizione poetica, parmi che andrei a cercarli in
una parte della Germania.
A
consolazione non pertanto de’ poeti, in ogni terra, ovunque è coltura
intellettuale, vi hanno uomini capaci di sentire poesia. Ve n’ha bensì in copia
ora maggiore, ora minore; ma tuttavia sufficiente sempre. Ma fa d’uopo
conoscerli e ravvisarli ben bene, e tenerne conto. Ma il poeta non si accorgerà
mai della loro esistenza, se per rinvenirli visita le ultime casipole della
plebe affamata, e di là salta a dirittura nelle botteghe da caffè, ne’
gabinetti delle Aspasie, nelle corti de’ principi, e nulla più. Ad ogni tratto
egli rischierà di cogliere in iscambio la sua patria, ora credendola il capo di
Buona speranza, ora il cortile del Palais-royal. E dell’indole dei suoi
concittadini egli non saprà mai un ette.
Ché
s’egli considera che la sua nazione non la compongono que’ dugento che gli
stanno intorno nelle veglie e ne’ conviti; se egli ha mente a questo: che mille
e mille famiglie pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono e sentono le
passioni tutte, senza pure avere un nome ne’ teatri; può essere che a lui si
schiarisca innanzi un altro orizzonte, può essere che egli venga accostumandosi
ad altri pensieri ed a più vaste intenzioni.
L’annoverare
qui gli accidenti fisici propizi o avversi alla tendenza poetica; il dire
minutamente come questa, del pari che la virtù morale, possa essere aumentata o
ristretta in una nazione dalla natura delle instituzioni civili, delle leggi
religiose e di altre circostanze politiche; non fa all’intendimento mio. Te ne
discorreranno, o carissimo, a tempo opportuno, i libri ch’io ti presterò. Basti
a te per ora il sapere che tutte le presenti nazioni d’Europa – l’italiana
anch’essa né più né meno – sono formate da tre classi d’individui: l’una di
ottentoti, l’una di parigini e l’una, per ultimo, che comprende tutti gli altri
individui leggenti ed ascoltanti, non eccettuati quelli che, avendo anche
studiato ed esperimentato quant’altri, pur tuttavia ritengono attitudine alle
emozioni. A questi tutti io do nome di «popolo».
Della
prima classe, che è quella dei balordi calzati e scalzi, non occorre far
parole. La seconda, che racchiude in sé quei pochi i quali escono dalla comune
in modo da perdere ogni impronta nazionale, vuole bensì essere rispettata dal
poeta, ma non idolatrata, ma non temuta. Il giudizio, che i membri di questa classe
fanno delle moderne opere poetiche, non suole derivare dal suffragio immediato
delle sensazioni, ma da’ confronti. Negli anni del fervore eglino hanno trovato
il bello presso tale e tal altro poeta; e ciò che non somiglia al bello sentito
un tempo pare loro di doverlo ora ricusare. Le opinioni scolastiche, i precetti
bevuti pigramente un tempo come infallibili, reggono tuttavia il loro
intelletto, che non li mise mai ad esame, perché d’altro curante. Però
l’orgoglio umano, a cui è duro il dover discendere a discredere ciò che per
molti anni s’è creduto, il più delle volte li fa tenaci delle massime
inveterate. E il più delle volte eglino combattono per esse come per
l’antemurale della loro riputazione. Allora ogni arme, ogni scudo giova. E
perché una serie di secoli non si brigò più che tanto di discutere l’importanza
di quelle massime, eccoti in campo un bello argomento di difesa nel silenzio
delle generazioni. «Chi tace non parla», diciamo noi. Ma «chi tace approva»,
dicono essi, e il sopore dei secoli lo vanno predicando come consenso assoluto
di tuttaquanta la ragione umana alla necessità di certe regole chiamate, Dio sa
perché, di «buon gusto»; e però via via d’ugual passo sgozzano ad esse ogni
tratto qualche vittima illustre. La lode, che al poeta
viene da questa minima parte della sua nazione, non può davvero farlo andare
superbo; quindi anche il biasimo ch’ella sentenzia non ha a mettergli grande
spavento. La gente ch’egli cerca, i suoi veri lettori stanno a milioni nella
terza classe. E questa, cred’io, deve il poeta moderno aver di mira, da questa
deve farsi intendere, a questa deve studiar di piacere, s’egli bada al proprio
interesse ed all’interesse vero dell’arte. Ed ecco come la sola vera poesia sia
la popolare: salve le eccezioni sempre, come ho già detto; e salva sempre la
discrezione ragionevole, con cui questa regola vuole essere interpretata.
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