lunedì 3 ottobre 2011

Caccia al tesoro: acchiappa Shadowhunters! Istruzioni per l'uso e primo capitolo




  

 

In collaborazione con Mondadori e in occasione del compleanno del blog, Dusty pages in Wonderland bandisce una caccia al tesoro... solo i più arguti e veloci riusciranno a conquistarsi una delle tre copie messe a disposizione dell'attesissimo quarto capitolo della saga The mortal Instruments, Shadowhunters-Città degli angeli caduti! La caccia al tesoro sarà articolata da sette indizi, ognuna delle quali comporrà, pagina dopo pagina, il secondo capitolo inedito del libro. I primi tre che invieranno il capitolo intero all'indirizzo dpinwonderland@gmail.com riceveranno Shadowhunters!
Il primo capitolo, che trovate qui di seguito, è già stato messo a disposizione dalla pagina Shout Le tue Storie qualche giorno fa... tocca a voi ora ricomporre il secondo, rispondere ai sette indizi e accaparrarvi la vostra copia! In cosa consistono questi indizi? Saranno man mano diversi, ma vi riporteranno unicamente ad una o due parole... se la indovinerete, basterà inserirle nella barra degli indirizzi seguite da blogspot.com, e verrete rinviati ad un blog più piccolo gestito dalla sottoscritta in cui troverete il brano del capitolo. Credete che la parola giusta sia Shadowhunters? Basterà scrivere www.shadowhunters.blogspot.com per scoprire se avete indovinato. A quel punto lasciate un commento al post (magari inerente ciò che avete appena letto) in modo che possa constatare le partecipazioni. Unica regola è essere follower del blog. E' semplice (non sarò troppo cattiva con gli indizi, non preoccupatevi!) e, spero, divertente! Mi fareste inoltre un favore se pubblicaste uno dei due (o entrambi) i banner pubblicitari sui vostri blog o forum (o condividendo su fb... come al solito grazie a ValerioEm per la bellissima grafica), in modo da estendere il gioco a più persone possibili.
Il primo dei sette verrà pubblicato tra oggi e domani, nel frattempo gustatevi il primo capitolo! ;)



1
IL PADRONE


— Solo un caffè, grazie.
La cameriera sollevò le sopracciglia disegnate. — Niente da mangiare? — chiese con aria delusa e un marcato accento slavo.
Simon Lewis non poteva darle torto: probabilmente la ragazza sperava in una mancia migliore di quella che avrebbe ricevuto per una semplice tazza di caffè. Ma non era colpa di Simon se i vampiri non mangiavano. A volte, al ristorante, ordinava comunque un po’ di cibo, giusto per dare una parvenza di normalità, ma la sera tardi di un martedì, in un Veselka dove era quasi l’unico cliente, non valeva la pena sforzarsi. — Caffè e basta.
Con un’alzata di spalle la cameriera riprese il menu plastificato e si allontanò per consegnare l’ordinazione. Simon appoggiò la schiena contro la sedia di plastica dura e si guardò attorno. Veselka, una tavola calda specializzata in cucina slava all’angolo fra Ninth Street e Second Avenue, era uno dei suoi posti preferiti in tutto il Lower East Side: un vecchio locale di poche pretese tappezzato di murales bianchi e neri, dove ti lasciavano stare seduto tutto il giorno a patto di ordinare almeno un caffè a intervalli di mezz’ora. Facevano anche quelli che un tempo erano i suoi tortelli vegetariani preferiti con zuppa di barbabietola, ma ormai quei tempi erano acqua passata.
Era la metà di ottobre, e al ristorante avevano iniziato a esporre i primi addobbi per Halloween: un cartello in equilibrio precario con la scritta DOLCETTO O TORTELLO? e la sagoma di cartone del conte Blintzula, una specie di Dracula russo. Un tempo quelle decorazioni un po’ squallide facevano morir dal ridere Simon e Clary. Ora invece il conte, con quei canini finti e il mantello nero, non lo metteva più tanto di buonumore.
Il ragazzo lanciò un’occhiata in direzione della finestra. Era una serata fresca e il vento faceva volteggiare le foglie su Second Avenue come fossero manciate di coriandoli. Per strada c’era una ragazza che camminava, una ragazza con un impermeabile legato stretto in vita e con lunghi capelli neri che ondeggiavano al vento. Quando passava, la gente si voltava a squadrarla. Anche Simon una volta guardava così le ragazze, fantasticando e domandandosi dove fossero dirette, chi avrebbero incontrato: non dei tipi come lui, poco ma sicuro.
Quella invece sì. La porta della tavola calda si aprì al suono di un campanello e Isabelle Lightwood fece il suo ingresso. Appena vide Simon sorrise e gli andò incontro, togliendosi l’impermeabile e appoggiandolo sullo schienale della sedia prima di accomodarsi. Sotto la giacca portava quella che Clary definiva la “tipica tenuta da Isabelle”: vestito di velluto corto e aderente, calze a rete e stivali. Infilato in cima allo stivale sinistro, c’era un coltello che Simon sapeva di essere l’unico a poter vedere. Nonostante ciò, mentre la ragazza si sedeva gettando indietro i capelli, tutti i presenti rimasero a guardarla. Qualunque cosa indossasse, Isabelle attirava l’attenzione come uno spettacolo di fuochi d’artificio.
La bellissima Isabelle Lightwood. Quando Simon l’aveva conosciuta, pensava che una ragazza così non avrebbe certo avuto tempo da perdere con uno come lui. E in effetti non si era del tutto sbagliato. A Isabelle piacevano i ragazzi che i suoi genitori avrebbero disapprovato, e nel suo mondo questo significava “Nascosti”: fate, lupi mannari, vampiri. Il fatto che si frequentassero regolarmente da un mese o due lo sorprendeva, benché il loro rapporto si limitasse per lo più a incontri sporadici come quello. E in tutto questo, Simon non poteva fare a meno di chiedersi se, senza la trasformazione in vampiro che gli aveva rivoluzionato la vita in un solo istante, due come loro sarebbero mai usciti insieme.
Isabelle si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, sorridendo raggiante. — Ti trovo bene.
Simon si guardò di sfuggita nel riflesso della finestra della tavola calda. Da quando si frequentavano, l’influenza di Isabelle era evidente nel suo nuovo look. Lei lo aveva costretto ad abbandonare le felpe per i giubbotti di pelle, le scarpe da tennis per gli stivali firmati. Stivali che, guarda un po’, costavano trecento dollari al paio. Continuava a portare le solite magliette con le scritte (quella sera era il turno di GLI ESISTENZIALISTI LO FANNO PER NIENTE), ma i suoi jeans non avevano più le ginocchia bucate o le tasche strappate. Si era anche fatto crescere i capelli, che ora gli cadevano fin sopra gli occhi, ma quello era più il frutto di una necessità che di Isabelle.
Clary lo prendeva in giro per il suo nuovo stile, anche perché trovava tutto ciò che riguardava la vita sentimentale di Simon ai confini dell’assurdo. Non riusciva a credere che potesse frequentare Isabelle in modo serio. Ovviamente non riusciva nemmeno a credere che frequentasse anche Maia Roberts, una loro amica, nonché lupo mannaro, in modo altrettanto serio. Né tantomeno si capacitava che Simon non avesse ancora detto all’una dell’altra.
Simon non sapeva bene come era successo. A Maia piaceva andare a casa sua per usare l’Xbox, perché non c’era nella stazione di polizia abbandonata dove viveva il branco dei lupi mannari. La terza o quarta volta che si era presentata da lui, prima di andarsene, si era sporta in avanti e gli aveva dato un bacio. Lui ne era stato felice e aveva telefonato a Clary per chiederle se fosse il caso di dirlo a Isabelle. — Prima pensa bene a quello che sta succedendo fra voi — aveva risposto lei. — E poi… diglielo.
Si era rivelato un pessimo consiglio. A distanza di un mese, Simon non era ancora sicuro di cosa ci fosse fra lui e Isabelle, perciò non le aveva detto niente. E più passava il tempo, più l’idea di parlarne gli sembrava strana. Fino a quel momento era filato tutto liscio: Isabelle e Maia non erano amiche e si vedevano di rado. Purtroppo per lui, però, le cose stavano per cambiare. La madre di Clary si sarebbe sposata dopo qualche settimana con Luke, suo amico di vecchia data, e alla cerimonia avrebbero partecipato sia Isabelle che Maia. Solo a pensarci gli veniva più paura che all’idea di essere rincorso per le strade di New York da una torma inferocita di cacciatori di vampiri.
— Dunque? — fece Isabelle, svegliandolo di colpo dai suoi sogni a occhi aperti. — Perché qui e non da Taki? Lì ti darebbero del sangue.
Il volume della sua voce lo fece trasalire: Isabelle era tutto tranne che discreta. Per fortuna nessuno l’aveva sentita, nemmeno la cameriera che nel frattempo si era avvicinata, aveva sbattuto la tazza di caffè sul tavolo di fronte a Simon, lanciato un’occhiata a Isabelle e se n’era andata senza nemmeno chiederle se voleva qualcosa.
— Mi piace venire qui — rispose il ragazzo. — Io e Clary ci venivamo quando lei prendeva lezioni da Tisch. Fanno dei pierogi con borscht eccezionali, vale a dire tortelli dolci e zuppa di barbabietole, e poi resta aperto tutta la notte.
Isabelle però non lo stava ascoltando. Guardava alle sue spalle. — E quello chi è?
Simon seguì lo sguardo della ragazza. — Quello è il conte Blintzula.
— Il conte Blintzula?
Simon fece spallucce. — Fa parte degli addobbi per Halloween. Il conte Blintzula è per i bambini. È come il conte del programma “Sesame Street”. — Sorrise notando lo sguardo perplesso di Isabelle. — Ma sì, quello che insegna a contare ai bambini.
Lei scuoteva la testa. — C’è un programma televisivo in cui un vampiro insegna ai bambini a contare?
— Se lo avessi visto, capiresti — mormorò Simon.
— In effetti la cosa ha delle basi storiche — osservò Isabelle, entrando in modalità Shadowhunter saputella. — Alcune leggende sostengono che per i vampiri contare è un’ossessione e che, se gli rovesci davanti un mucchietto di riso, devono interrompere quello che stanno facendo per contare i chicchi. Ovviamente non c’è niente di vero in tutto questo, come nella storia dell’aglio. E poi i vampiri non perdono tempo a insegnare ai bambini. I vampiri fanno paura.
— Grazie tante, Isabelle — disse Simon. — È un gioco di parole. Al conte piace contare, capito? “Bambini, che cosa ha mangiato oggi il conte? Un biscotto con le gocce di cioccolato, due biscotti con le gocce di cioccolato, tre biscotti con le gocce di cioccolato…”
La porta del ristorante si aprì per lasciare entrare un altro cliente, e i due ragazzi vennero raggiunti da una folata di aria fredda. Isabelle rabbrividì e prese la sciarpa di seta nera che aveva con sé. — Non è realistico.
— Cosa avresti preferito? “Bambini, che cosa ha mangiato oggi il conte? Un contadino indifeso, due contadini indifesi, tre contadini indifesi…
— Ssst! — Isabelle finì di annodarsi la sciarpa attorno al collo e si sporse in avanti, appoggiando una mano sul fianco di Simon. All’improvviso i grandi occhi neri della ragazza avevano preso vita, come succedeva solo quando era a caccia di demoni o stava pensando di farlo. — Guarda laggiù.
Simon seguì il suo sguardo. C’erano due uomini in piedi davanti alla vetrinetta dei dolci: torte ricoperte da uno strato di glassa, involtini dolci della tradizione ebraica, sfogliatine danesi ripiene di crema. Ma nessuno dei due aveva l’aria di essere interessato ai dolci. Erano bassi e incredibilmente magri, tanto che i loro zigomi sporgevano sul viso, sotto la pelle, come fossero lame di coltello. Avevano i capelli grigi, radi, e indossavano cappotti color grigio ardesia che arrivavano fino a terra.
— Chi pensi che siano, quelli? — chiese Isabelle.
Simon li studiò con attenzione. Loro ricambiarono lo sguardo con occhi privi di ciglia, più simili a buchi. — Mi ricordano degli gnomi da giardino in versione cattiva.
— Sono dei Soggiogati — sibilò Isabelle. — Umani che appartengono a un vampiro.
— Appartengono… in che senso?
La ragazza sbuffò, spazientita. — Per l’Angelo! Non sai niente sulla tua specie, vero? Ma almeno sai come nascono i vampiri?
— Be’, quando una mamma vampiro e un papà vampiro si vogliono tanto bene…
Isabelle lo guardò storto. — Bene, tu sai che i vampiri non devono fare sesso per riprodursi, ma scommetto che non sai veramente come funziona.
— Sì, invece — ribatté Simon. — Io sono un vampiro perché, prima di morire, ho bevuto il sangue di Raphael. Bere sangue più morte, uguale vampiro.
— Non proprio — precisò Isabelle. — Sei un vampiro perché hai bevuto il sangue di Raphael, poi sei stato morso da altri vampiri, e solo a quel punto sei morto. È necessario che, a un certo punto del processo, si venga morsi.
— Perché?
— La saliva dei vampiri ha… delle proprietà. Delle proprietà di trasformazione.
— Bleah! — fece Simon.
— Non dire bleah a me. Sei tu quello con la saliva magica. I vampiri si circondano di umani con cui nutrirsi, quando sono a corto di sangue. Dei distributori ambulanti, in pratica. — Izzy parlava in tono disgustato. — Penserai che perdere sangue li indebolisca sempre di più, ma in realtà la saliva di vampiro ha delle proprietà curative. Aumenta il numero di globuli rossi, rafforza e rinvigorisce gli umani che la ricevono, li fa vivere più a lungo. È per questo motivo che la Legge non vieta ai vampiri di nutrirsi di sangue di umani; in realtà, a loro, non fa male. Ovviamente di tanto in tanto il vampiro decide che un semplice spuntino non gli basta più e che ci vorrebbe un Soggiogato… A quel punto comincia a somministrare all’umano morsicato delle piccole quantità del proprio sangue, tanto per tenerlo buono, fedele al suo padrone. I Soggiogati venerano i propri padroni e adorano servirli. Tutto ciò che desiderano è stare vicino a loro, un po’ come hai fatto tu quando sei tornato dal Dumort: sei stato attirato dal vampiro di cui avevi bevuto il sangue.
— Raphael… — disse Simon con voce lugubre. — In questo momento non muoio dalla voglia di stare insieme a lui, se proprio vuoi saperlo.
— No, perché quando diventi un vero vampiro il desiderio svanisce. Sono i Soggiogati che adorano i loro signori, ai quali non possono disubbidire. Quando sei tornato dal Dumont, il clan di Raphael ti ha dissanguato, tu sei morto, e sei diventato un vampiro. Ma se non ti avessero prosciugato tutto il sangue, se anzi ti avessero un po’ del loro sangue, alla fine saresti diventato anche tu un Soggiogato.
— Tutto molto interessante — commentò Simon. — Ma non spiega il motivo per cui stanno guardando noi.
Isabelle diede un’occhiata a i due sconosciuti. — Stanno fissando te. Forse il loro padrone è morto e ne stanno cercando un altro. Ehi, potresti farti degli animali da compagnia! — esclamò sorridendo.
— Oppure — ribatté Simon — sono qui per le crocchette di patate.
— I Soggiogati umani non mangiano cibo. Vivono nutrendosi di un miscuglio di sangue vampiresco e sangue animale, che li mantiene in uno stato di animazione sospesa. Non sono immortali, ma invecchiano molto lentamente.
— Purtroppo però — commentò Simon guardandoli — non sembra che stiano invecchiando tanto bene.
Isabelle drizzò la schiena. — Stanno venendo qui. Credo che presto sapremo cosa vogliono.
I Soggiogati si muovevano come se sotto i piedi avessero delle rotelle. Invece di fare dei passi, sembravano scivolare in avanti senza far rumore. Ci misero solo pochi secondi ad attraversare tutto il ristorante e, quando furono vicini al tavolo di Simon, Isabelle aveva già sfilato il suo piccolo pugnale dallo stivale. Ora giaceva sul tavolo, splendente sotto le luci fluorescenti della tavola calda. Era d’argento scuro e massiccio, con delle croci marchiate a fuoco su entrambi i lati dell’impugnatura. A quanto pareva, erano motivi ricorrenti su molte delle armi usate contro i vampiri, forse perché, pensò Simon, si riteneva che fossero in prevalenza cristiani.
— Come distanza può bastare — dichiarò Isabelle, tenendo le dita a pochi centimetri dal pugnale, mentre i due Soggiogati si fermavano accanto al tavolo.
— Shadowhunter — disse con un mormorio sibilante la creatura di sinistra, — non sapevamo che anche tu fossi coinvolta in questa situazione.
Isabelle sollevò uno dei suoi delicati sopraccigli. — Quale situazione?
Il secondo Soggiogato puntò contro Simon un dito lungo e grigio che terminava in un’unghia giallastra e appuntita. — Trattative in corso con il Daylighter.
— Non è vero — disse Simon. — Non so nemmeno chi siete. Mai visti prima.
— Io sono il signor Walker — si presentò la prima creatura. — E questo è il signor Archer. Siamo agli ordini del vampiro più potente di New York, il capo del più grande clan di Manhattan.
— Raphael Santiago — disse Isabelle. — In tal caso dovreste sapere che Simon non fa parte di nessun clan. È un libero professionista.
Il signor Walker accennò un sorriso. — Il mio padrone ritiene che la sua sia una condizione temporanea.
Gli occhi di Simon incrociarono quelli di Isabelle, dall’altra parte del tavolo, che scrollò le spalle. — Ma Raphael non ti aveva detto di stare lontano dal clan?
— Magari ha cambiato idea — propose Simon. — Sai com’è: lunatico, scostante.
— No, non lo so. In pratica non lo vedo dalla volta in cui minacciai di ucciderlo con un candelabro. Però la prese bene. Non si tirò indietro.
— Fantastico — fece Simon. I due Soggiogati lo stavano fissando; avevano gli occhi di un grigio pallido, biancastro, simile a neve sporca. — Se Raphael ha intenzione di accogliermi nel clan, è perché vuole qualcosa da me. Tanto vale che mi diciate di cosa si tratta.
— Non siamo al corrente dei piani del nostro padrone — rispose il signor Archer in tono altezzoso.
— Allora niente da fare — dichiarò Simon. — Non vengo.
— Se non vuoi venire con noi, siamo autorizzati a prenderti con la forza.
In quell’istante fu come se il pugnale saltasse in mano a Isabelle, o per lo meno lei parve muoversi appena. Lo fece roteare velocemente. — Se fossi in voi, non lo farei.
Il signor Archer digrignò i denti. — Da quando in qua i figli dell’Angelo sono le guardie del corpo dei Nascosti solitari? Ti pensavo al di sopra di questo genere di cose, Isabelle Lightwood.
— Non sono la sua guardia del corpo — rispose lei. — Sono la sua fidanzata. E questo mi dà il diritto di spaccarvi la faccia, se gli date fastidio. È così che funziona.
Fidanzata? Simon rimase così sbalordito da guardare Isabelle con occhi increduli, ma lei era impegnata a fissare i due Soggiogati, fulminandoli coi suoi occhi neri. Simon era quasi certo che fino a quel momento Isabelle non si era mai presentata come la sua fidanzata. E al tempo stesso si rendeva conto di quanto era diventata strana la sua vita, se la cosa che più lo stupiva, quella sera, era la dichiarazione di Isabelle e non il fatto di essere stato convocato al cospetto del vampiro più potente di New York.
— Il mio padrone — disse il signor Walker in quello che probabilmente voleva essere un tono di voce suadente — ha una proposta da fare al Daylighter…
— Si chiama Simon. Simon Lewis.
— Da fare al signor Lewis. Vi prometto che il signor Lewis la troverà estremamente vantaggiosa, se solo fosse disposto a venire con noi per sentire cosa ha da dirgli il nostro padrone. Giuro sul suo onore che non ti sarà fatto alcun male, Daylighter, e che, se vorrai rifiutare la sua offerta, sarai libero di farlo.
Il nostro padrone, il nostro padrone. Il signor Walker pronunciava quelle parole con un misto di adorazione e timore reverenziale. Dentro di sé Simon rabbrividì per un istante. Che brutto essere così legati a un’altra persona senza avere una propria volontà.
Isabelle scosse la testa, formulando un “no”. Probabilmente aveva ragione, pensò Simon. Lei era una Shadowhunter eccezionale. Da quando aveva dodici anni cacciava demoni e Nascosti fuorilegge, tra cui vampiri diventati criminali, stregoni dediti alla magia nera, lupi mannari impazziti e colpevoli di aver divorato qualcuno, e probabilmente era più brava di qualsiasi altro Shadowhunter della sua età, a parte suo fratello Jace. E poi c’era Sebastian, pensò Simon, che era meglio di tutt’e due. Ma ormai era morto.
— Va bene — disse. — Vengo.
A Isabelle uscirono gli occhi fuori dalle orbite. — Simon!
Entrambi i Soggiogati si fregarono le mani, come i cattivi di una storia a fumetti. In realtà non era il gesto in sé a dare i brividi, ma il fatto che quei due lo avevano fatto esattamente nello stesso istante e nello stesso modo, come due burattini i cui fili venivano tirati all’unisono.
— Eccellente — disse il signor Archer.
Isabelle buttò rumorosamente il coltello sul tavolo e si sporse in avanti, sfiorando la tovaglia con i suoi lucenti capelli neri. — Simon — sussurrò in tono insistente. — Non essere sciocco. Non hai nessuna ragione per andare con loro. E poi Raphael è un imbecille!
— Raphael è un grande vampiro — ribatté il ragazzo. — Il suo sangue mi ha reso un vampiro. Lui è il mio… o come cavolo lo chiamano loro.
— Signore, creatore, padre. C’è un milione di definizioni per quello che ha fatto — disse Isabelle, turbata. — Forse il suo sangue avrà anche fatto di te un vampiro, ma non è stato quello a fare di te un Daylighter… — I suoi occhi incontrarono quelli di lui, dall’altra parte del tavolo. È stato Jace a farlo. Ma non lo avrebbe mai detto a voce alta. Erano solo in pochi a sapere la verità, in pochi a conoscere tutta la storia della vera identità di Jace e delle relative conseguenze per Simon. — Non sei tenuto a fare quello che ti dice.
— Certo, lo so — rispose il ragazzo abbassando il tono di voce. — Ma se mi rifiuto di seguirli, pensi che Raphael lascerà perdere e basta? No, non lo farà. Continuerà a cercarmi. — Lanciò un’occhiata obliqua verso i Soggiogati; avevano l’aria di essere d’accordo con lui, anche se forse se lo stava solo immaginando. — Mi farebbe controllare ovunque. Mentre sono in giro, a scuola, da Clary…
— E allora? Pensi che Clary non saprebbe cavarsela, con loro? — sbottò Isabelle, lanciando in aria le mani. — Come vuoi. Ma almeno lasciami venire con te.
— Neanche per idea — intervenne il signor Archer. — Queste non sono cose da Shadowhunter. Queste sono faccende da Figli della Notte.
— Io non…
— La Legge ci riserva il diritto di condurre i nostri affari in privato — dichiarò fermamente il signor Walker — insieme a quelli della nostra specie.
Simon li guardò. — Datemi un momento, per favore — disse ai due. — Vorrei parlare con Isabelle.
Seguì un attimo di silenzio. Attorno a loro, la vita all’interno della tavola calda continuava il suo corso. Il cinema in fondo all’isolato aveva chiuso e aveva portato un’ondata di clienti per i quali le cameriere correvano a destra e a manca servendo piatti fumanti. Ai tavoli vicini, due coppiette chiacchieravano e ridevano; dietro il bancone, i cuochi si gridavano le ordinazioni a vicenda. Nessuno stava guardando i due, né aveva notato che stava accadendo qualcosa di strano. Simon era abituato agli incantesimi, ma a volte, quando era con Isabelle, non poteva fare a meno di sentirsi intrappolato in un muro di vetro invisibile, tagliato fuori dal resto dell’umanità e dalle sue normali vicissitudini.
— Molto bene — commentò il signor Walker, facendo un passo indietro, — anche se al mio padrone non piace aspettare.
I due Soggiogati si diressero verso la porta, mostrandosi indifferenti alle folate d’aria fredda che arrivavano quando qualcuno entrava o usciva, e rimasero lì in piedi come statue.
Simon si rivolse a Isabelle. — Va tutto bene — la rassicurò. — Non mi faranno del male. Non possono farmi del male. Raphael sa tutto del… — E, con un certo imbarazzo, si indicò la fronte. — Di questo.
Isabelle allungò le mani sul tavolo e gli scostò all’indietro i capelli, con fare più pratico che affettuoso, poi corrugò la fronte. Simon aveva visto il Marchio abbastanza volte, allo specchio, da conoscerne perfettamente la forma. Era come se qualcuno, con un pennello a punta sottile, gli avesse tracciato un semplice disegno sulla fronte, al centro, appena sopra gli occhi. Ogni tanto sembrava che cambiasse forma, come le immagini mobili che si indovinano talvolta nelle nuvole, ma restava sempre nero ed evidente, e pure un po’ inquietante, come un segnale d’allerta scritto in una lingua sconosciuta.
— Ma… funziona veramente? — sussurrò Isabelle.
— Raphael crede di sì — rispose Simon. — E non ho motivo di pensare che si sbagli — Con quelle parole le prese il polso e se lo allontanò dal viso. — Andrà tutto bene, Isabelle.
Lei sospirò. — Ogni singola cosa che ho imparato finora mi dice che non si tratta di una buona idea.
Simon le strinse le dita. — Dai, su, in fondo anche tu sei curiosa di sapere cosa vuole Raphael, non è vero?
Isabelle gli diede una leggera pacca sulla mano e tornò a sedersi. — Me lo racconterai quando torni. Chiamami subito, per prima.
— Lo farò. — Simon, fermo in piedi, si chiuse la cerniera della giacca. — E fammi un favore, ti va? Anzi due.
Lei rimase a osservarlo fra il divertito e il diffidente. — Cosa?
— Clary ha detto che questa sera si sarebbe allenata all’Istituto. Se per caso la vedi, non dirle dove sono andato. Si preoccuperebbe senza motivo.
Isabelle alzò gli occhi al cielo. — E va bene. Il secondo favore?
Simon si sporse verso di lei e le diede un bacio sulla guancia. — Prima di andartene assaggia il borscht. È troppo buono!


Il signor Walker e il signor Archer non erano fra i compagni di viaggio più loquaci che si potessero incontrare. Guidarono Simon attraverso le strade del Lower East Side in silenzio, procedendo alcuni passi davanti a lui con la loro curiosa andatura scivolante. Si stava facendo tardi, ma i marciapiedi cittadini brulicavano ancora di gente che aveva staccato dal turno serale e correva a casa con la testa bassa e il bavero alzato per difendersi dal vento freddo e insistente. Lungo St. Mark’s Place spuntavano bancarelle che vendevano di tutto, dalle calze a buon mercato, all’incenso al legno di sandalo, fino agli schizzi a carboncino di New York. Le foglie crepitavano sul marciapiede come ossa essiccate. L’aria sapeva di gas di scarico misto a sandalo, ma sotto si indovinava l’odore di essere umano: pelle e sangue.
A Simon si strinse lo stomaco. Cercava di tenere in camera bottiglie di sangue animale a sufficienza (in fondo all’armadio nascondeva un piccolo frigorifero che sua madre non poteva vedere) per evitare di ritrovarsi troppo affamato. Il sangue gli faceva schifo. Pensava che un giorno si sarebbe abituato, che anzi avrebbe iniziato a desiderarlo, ma, anche se placava i morsi della fame, non aveva niente di paragonabile al gusto del cioccolato, del burrito vegetariano o del gelato al caffè. Era sangue, punto.
Avere fame però era peggio. Avere fame significava sentire cose che non voleva sentire: il sale sulla pelle degli altri, l’odore pungente e dolciastro del sangue che trasuda da pori sconosciuti. Tutto questo lo faceva sentire famelico, scombussolato, totalmente sbagliato. Curvando le spalle in avanti, si infilò i pugni nelle tasche della giacca e cercò di respirare con la bocca.
Svoltarono proprio su Third Avenue e si fermarono davanti a un ristorante sulla cui insegna campeggiava la scritta CLOISTER CAFÉ — GIARDINO APERTO TUTTO L’ANNO. Simon la osservò, stupito. — Cosa ci facciamo qui?
— Questo è il luogo d’incontro scelto dal nostro padrone — rispose il signor Walker in tono carezzevole.
— Ah — fece Simon, colto alla sprovvista. — Pensavo che Raphael fosse più il tipo da… ecco, da appuntamento in cima a una cattedrale sconsacrata o dentro una cripta piena di ossa. Non lo facevo uno da ristorante modaiolo.
I due Soggiogati rimasero a fissarlo. — Ci sono problemi, Daylighter? — chiese infine il signor Archer.
Simon si sentì indirettamente rimproverato. — No. Nessun problema.
L’interno del ristorante era buio, con un bancone di marmo che correva lungo una delle pareti. Nessun cameriere venne ad accoglierli mentre attraversavano la stanza per raggiungere una porta sul retro e poi il giardino.
A New York c’erano molti ristoranti con spazi all’aperto, ma solo pochi erano accessibili ad autunno così inoltrato. Questo si trovava in un cortile circondato da diversi edifici e aveva le pareti decorate da trompe-l’oeil che raffiguravano giardini all’italiana traboccanti di fiori. Gli alberi, con le foglie tinte d’oro e ruggine dall’autunno, erano percorsi da fili di luci bianche e i funghi termici disposte qua e là fra i tavoli emanavano un bagliore rossastro. Al centro del cortile, una piccola fontana sprigionava schizzi d’acqua scroscianti.
C’era un unico tavolo occupato, e non da Raphael. Una donna magra, con un cappello a tesa larga, era seduta vicino al muro. Sotto lo sguardo stupito di Simon, sollevò una mano e fece segno al ragazzo di avvicinarsi. Lui si voltò e si guardò alle spalle; ovviamente non c’era nessuno. Walker e Archer ripresero a muoversi. Confuso, Simon li seguì mentre attraversavano il cortile e si fermavano a pochi passi dal punto in cui sedeva la donna.
Walker fece un profondo inchino. — Padrone — disse.
La donna sorrise. — Walker — rispose. — E anche tu, Archer. Molto bene, grazie per avermi portato Simon.
— Fermi un attimo! — disse Simon guardando prima la donna, poi i due Soggiogati, poi di nuovo la donna. — Lei non è Raphael.
— Oh cielo, no! — rispose la sconosciuta togliendosi il cappello. Sulle sue spalle si riversò una cascata di capelli biondo platino, splendenti sotto le luci in stile natalizio. Aveva un viso levigato, bianco e ovale, bellissimo, dominato da enormi occhi verde chiaro. Indossava dei lunghi guanti neri, una camicetta di seta dello stesso colore, una gonna a tubo e un foulard anch’esso nero attorno al collo. Impossibile decifrare l’età che aveva, o per lo meno l’età di quando era stata trasformata in una vampira. — Mi chiamo Camille Belcourt. Piacere di fare la tua conoscenza — disse porgendo una mano guantata di nero.
— Mi hanno detto che qui avrei incontrato Raphael Santiago — disse Simon, senza muoversi per stringergliela. — Lei lavora per lui?
Camille Belcourt rise con il suono di una fontana gorgogliante. — Assolutamente no! Anche se una volta lui lavorava per me.
E a quel punto Simon ricordò. Pensavo che il vampiro fosse un altro, aveva detto una volta a Raphael, nella città di Idris. Sembravano passati secoli.
Camille non è ancora tornata da noi, aveva risposto Raphael. Faccio io le sue veci.
— Il vampiro capo è lei. È lei il capo del clan di Manhattan — disse rivolgendosi ai Soggiogati. — Mi avete ingannato. Mi avevate detto che avrei incontrato Raphael.
— Io ho detto che avresti incontrato il nostro padrone — rispose il signor Walker. I suoi occhi erano grandi e vuoti, così vuoti che Simon si chiese se quei due avessero davvero voluto ingannarlo o se fossero semplicemente creature programmate come robot per dire qualunque cosa il loro padrone gli avesse ordinato di dire, incapaci di allontanarsi dal copione. — Ed eccolo qui.
— Esatto — disse Camille rivolgendo ai Soggiogati un sorriso smagliante. — Walker, Archer, ora andate, per favore. Io e Simon dobbiamo parlare da soli. — Simon sentì che c’era qualcosa nel modo in cui aveva pronunciato quella frase… il suo nome, e anche la parola “soli”… erano come una carezza segreta.
I Soggiogati si inchinarono e se ne andarono. Mentre il signor Archer si voltava, Simon notò sul suo collo un segno, un livido profondo, così scuro che sembrava di vernice, con due punti ancora più scuri nel mezzo: erano punture, circondate da carne lacera e rinsecchita. Simon si sentì attraversare da un brivido silenzioso.
— Prego — gli disse Camille battendo la mano sulla sedia che aveva accanto. — Siediti. Ti va del vino?
Simon si sedette, appollaiandosi scomodamente sul bordo della sedia di metallo. — In realtà non bevo.
— Ovvio — rispose lei, comprensiva. — Ma non preoccuparti troppo, col tempo riuscirai ad abituarti a bere vino e altre bevande. Alcuni fra i più anziani della nostra specie riescono persino a nutrirsi di cibo umano senza troppi effetti collaterali.
Senza troppi effetti collaterali? A Simon quella frase non piaceva molto. — Ci vorrà molto tempo? — volle sapere, abbassando di proposito lo sguardo sul cellulare e vedendo che erano già passate le dieci e mezza. — Devo tornare a casa.
Camille bevve un sorso di vino. — Ah sì? E come mai?
Perché mia madre mi sta aspettando alzata. Okay, non c’era motivo per cui quella sconosciuta dovesse per forza venirlo a sapere. — Avevo un appuntamento e lei mi sta facendo ritardare — disse invece. — Mi stavo solo chiedendo che cosa ci fosse di tanto importante.
— Vivi ancora con tua madre, vero? — chiese lei appoggiando il bicchiere. — Strano che un vampiro potente come te non voglia lasciare casa e unirsi a un clan, non trovi?
— È per questo, allora, che lei mi fa arrivare in ritardo al mio appuntamento. Voleva prendermi in giro perché vivo ancora in famiglia. Non avrebbe potuto farlo una sera in cui ero libero? Ovvero la maggior parte delle volte, nel caso le interessasse.
— Non ti sto prendendo in giro, Simon — Si passò la lingua sul labbro inferiore, come per assaporare il vino appena bevuto. — Voglio sapere perché non sei entrato a far parte del clan di Raphael.
Che poi è il tuo stesso clan, giusto?, pensò. — Ho la netta sensazione che lui non mi voleva — rispose Simon. — In pratica ha detto che mi avrebbe lasciato in pace se io avessi lasciato in pace lui. E così l’ho lasciato in pace, punto.
— Ah è così… — fece lei, gli occhi verdi accesi da un bagliore.
— Non ho mai desiderato essere un vampiro — proseguì Simon, cominciando a chiedersi perché mai stesse raccontando quelle cose a quella sconosciuta. — Volevo una vita normale. Quando scoprii di essere un Daylighter, pensavo che ci sarei riuscito, almeno fino a un certo punto. Posso andare a scuola, vivere a casa mia, vedere mia madre e mia sorella…
— Purché non ti capiti di mangiare di fronte a loro — osservò Camille — e tu tenga nascosta la tua sete di sangue. Non ti sei mai nutrito di un umano, vero? Solo sangue conservato. Stantio. Animale — proseguì arricciando il naso.
Simon ripensò a Jace e si affrettò a rimuoverne il ricordo. Jace non era esattamente un umano. — No, mai.
— Succederà. E quando lo farai, non te ne dimenticherai — Si chinò in avanti, verso di lui, e i suoi capelli chiari gli accarezzarono la mano. — Non puoi nascondere la tua vera identità per sempre.
— Quale ragazzino non mente ai propri genitori? — rispose Simon. — E comunque non capisco perché la cosa le interessi tanto. Anzi, in realtà non ho ancora capito che cosa ci faccio qui.
Camille si sporse di nuovo e la camicetta di seta nera le si aprì sulla scollatura. Se Simon fosse stato ancora umano, sarebbe arrossito. — Me lo faresti vedere?
Simon si sentiva gli occhi che gli schizzavano fuori dalle orbite. — Vedere cosa?
Lei sorrise. — Il Marchio, sciocchino. Il Marchio di Caino. Ramingo e fuggiasco sarai sulla Terra.
Il ragazzo aprì la bocca, poi la chiuse di nuovo. Come fa a saperlo? Erano in pochissimi a conoscere l’esistenza del Marchio che Clary, a Idris, gli aveva impresso sulla fronte. Raphael aveva detto che si trattava di un segreto letale e Simon si era comportato di conseguenza.
Gli occhi di Camille però erano così verdi e decisi che Simon, per qualche ragione, voleva obbedirle; c’era qualcosa nel modo in cui lei lo guardava, qualcosa nella musicalità della sua voce. Si alzò e scostò il ciuffo di capelli, scoprendo la fronte perché lei la potesse osservare.
Camille sgranò gli occhi e dischiuse le labbra. Si sfiorò appena il collo con le dita, come per controllare le pulsazioni, inesistenti.
— Oh — esclamò. — Come sei fortunato, Simon. Che privilegio!
— È una maledizione — ribatté lui, — non una fortuna, se ne rende conto, vero?
A lei brillarono gli occhi. — Caino disse al Signore: “Il mio castigo è troppo grande perché io possa sopportarlo”. È davvero più di quanto tu possa sopportare, Simon?
Il ragazzo si rimise a sedere, lasciando che i capelli tornassero al loro posto. — No. Posso sopportarlo.
— Però non vuoi farlo. — La donna passò un dito guantato sul bordo del bicchiere di vino, senza staccare gli occhi da Simon. — E se io fossi in grado di offrirti un modo per trasformare in un vantaggio quella che per te è una maledizione?
Direi che finalmente ci stiamo avvicinando al motivo per cui mi ha fatto venire qui, ed è già qualcosa. — La ascolto.
— Hai riconosciuto il mio nome, quando te l’ho detto? — chiese Camille. — Raphael ti ha già parlato di me, vero? — Aveva un accento molto leggero, che Simon non riusciva bene a individuare.
— Ha detto che lei era il capo del clan e che lui lo guidava soltanto in sua vece. Un po’ come un vicepresidente, o qualcosa di simile.
— Ah. — La donna si morse appena il labbro inferiore. — In realtà non è esatto. Vorrei dirti la verità, Simon, vorrei farti una proposta. Ma prima mi devi dare la tua parola su una questione.
— Quale?
— Sul fatto che tutto ciò che accadrà fra di noi qui, stasera, resterà un segreto. Nessuno può venirlo a sapere. Non la tua amica pel di carota, Clary, né le tue due belle. E nemmeno la famiglia Lightwood. Nessuno, Simon.
Il ragazzo si appoggiò contro lo schienale della sedia. — E se non volessi promettere?
— Allora te ne puoi andare, se è questo che vuoi — rispose. — Ma non saprai mai quello che avrei voluto dirti. E sarà un’occasione sprecata di cui ti pentirai.
— Sono curioso — rispose Simon — ma non sono sicuro di esserlo così tanto.
Negli occhi di Camille c’era un barlume di sorpresa, ilarità e forse, pensò Simon, persino di rispetto. — Niente di ciò che ho da dirti li riguarda. Non metterà a rischio la loro sicurezza o la loro salute. La segretezza serve solo a proteggere me stessa.
Simon la guardò con sospetto. Era sincera? I vampiri non erano come le fate, non sapevano mentire. Però doveva ammettere di essere curioso. — E va bene. Manterrò il segreto, sempre che secondo me non possa mettere in pericolo i miei amici. Fine delle trattative.
Camille aveva un sorriso di ghiaccio e Simon capiva bene che non amava essere messa in discussione. — Perfetto — disse. — Presumo di non avere molta scelta, se ho un bisogno così disperato del tuo aiuto — Si sporse in avanti, mentre la sua mano sottile giocherellava con lo stelo del bicchiere. — Fino a poco tempo fa ho gestito il clan di Manhattan, e con molto piacere. La nostra base era in un edificio d’epoca nell’Upper West Side, risalente a prima della guerra, e non quella fogna di hotel dove ora Santiago tiene i miei. Santiago, o Raphael, come lo chiami tu, era il mio braccio destro. Il mio compagno più fidato… o almeno così pensavo. Una notte ho scoperto che uccideva gli umani, portandoli in quel vecchio albergo di East Harlem e succhiando loro il sangue per puro divertimento. Alla fine buttava le ossa fuori, nei cassonetti dell’immondizia. Rischi inutili, che infrangevano la Legge dell’Alleanza. — Si interruppe per bere un sorso di vino. — Quando andai a chiedergli spiegazioni, capii cosa aveva detto al clan: l’assassina, la fuorilegge, ero io. Il suo era un piano ben preciso. Voleva uccidermi per impossessarsi del mio potere. Così sono fuggita, protetta soltanto da Walker e da Archer.
— E per tutto questo tempo lui ha detto di essere a capo del clan solo in attesa del suo ritorno…
Lei fece una smorfia. — Santiago è un bugiardo patentato. Vuole che io torni, questo è certo, ma solo per potermi uccidere e assumere veramente il controllo del clan.
Simon non capiva bene cosa Camille volesse sentirsi dire. Non era abituato a donne adulte che lo guardavano così, con grandi occhi colmi di lacrime che gli raccontavano la storia della loro vita.
— Mi dispiace — si decise infine a dire.
Lei scrollò le spalle, in un modo così particolare da fargli pensare che quel suo lieve accento poteva essere francese. — Acqua passata — fu la risposta. — Per tutto questo tempo sono rimasta nascosta a Londra in cerca di alleati, in attesa che qualcosa cambiasse. E poi ho sentito parlare di te — Alzò una mano. — Non posso dirti come, ho giurato di mantenere il segreto. Ma nel momento in cui è accaduto, ho capito che tu eri ciò che aspettavo.
— Io?
La donna si sporse in avanti e gli toccò una mano. — Raphael ha paura di te, Simon, e fa bene. Sei uno della sua specie, un vampiro, ma non puoi essere ferito né ucciso; non può alzare un dito contro di te senza scatenare su di sé l’ira di Dio.
Seguì un attimo di silenzio. Simon riusciva a sentire il leggero ronzio delle luci natalizie sopra le loro teste, l’acqua che sgorgava nella fontana di pietra al centro del cortile, il brusio della città. Quando tornò a parlare, lo fece con voce sommessa. — L’ha detto.
— Detto cosa, Simon?
— Quella parola. L’ira di… — Quelle tre lettere gli pungevano sulla lingua e gliela facevano bruciare, come sempre.
— Sì. Dio. — Camille ritrasse la mano, ma il suo sguardo era benevolo. — La nostra specie ha tanti segreti, tanti segreti che ti posso mostrare e spiegare. Imparerai che la tua non è una condanna.
— Signora…
— Camille. Chiamami Camille.
— Continuo a non capire che cosa vuoi da me, Camille.
— No? — Scosse la testa, e la chioma lucente le ondeggiò sul viso. — Vorrei che ti unissi a me, Simon. Unisciti a me contro Santiago. Andremo insieme in quella topaia del suo albergo e, nell’istante in cui i suoi seguaci vedranno che sei con me, lo abbandoneranno e seguiranno noi. Credo che, nonostante il timore nei confronti di Santiago, mi siano ancora fedeli. Quando ci vedranno insieme, quel timore si dissolverà e loro saranno tutti al nostro fianco. L’uomo non può combattere contro il divino.
— Non lo so — disse Simon. — Nella Bibbia, Giacobbe ha lottato contro un angelo e ha vinto.
Camille lo guardò inarcando le sopracciglia.
Simon fece spallucce. — Scuola ebraica.
— Giacobbe chiamò quel luogo Peniel e disse: “Ho visto Dio faccia a faccia”. Vedi, non sei l’unico che conosce le Sacre Scritture. — Lo sguardo a fessura era sparito dal suo volto, lasciando il posto a un sorriso. — Magari non te ne rendi conto, Daylighter, ma finché porti quel Marchio, sei il braccio vendicatore del Cielo. Nessuno può opporsi a te. Sicuramente non un singolo vampiro.
— Tu hai paura di me? — le chiese Simon.
Se ne pentì quasi subito. Gli occhi verdi della sua interlocutrice si rabbuiarono come un cielo tempestoso. — Io, paura di te? — Poi si ricompose, e i suoi lineamenti tornarono a distendersi. — Certo che no — disse. — Sei una persona intelligente. Sono convinta che capirai la saggezza della mia proposta e ti unirai a me.
— E qual è di preciso la tua proposta? Voglio dire, capisco la parte in cui affrontiamo Raphael, ma dopo? In realtà io non lo odio, né voglio sbarazzarmi di lui solo per il gusto di farlo. Lui mi lascia in pace, ed è quello che ho sempre desiderato.
Camille piegò le mani davanti a sé. Sul dito medio della mano sinistra, sopra il guanto, aveva un anello d’argento con incastonata una pietra azzurra. — Tu pensi che sia questo ciò che vuoi, Simon. Tu pensi che Raphael ti faccia un favore a “lasciarti in pace”, come dici tu. Invece lui ti sta tenendo in esilio. In questo momento credi che non ti servano altri della tua specie, ti accontenti degli amici che hai, umani e Shadowhunter. Ti accontenti di nascondere bottiglie di sangue in camera e menti a tua madre sulla tua vera identità.
— Come fai a…
Lei proseguì, ignorandolo. — Ma che cosa succederà fra dieci anni, quando ne avrai ventisei? E fra venti? Trenta? Pensi che nessuno noterà che loro invecchiano, cambiano, e tu no?
Simon non disse nulla. Non voleva ammettere di non aver guardato così in là nel futuro. Anzi, di non voler guardare così in là.
— Raphael ti ha detto che gli altri vampiri per te sono veleno. Ma non deve essere così. L’eternità è un lungo periodo da passare da solo, senza altri tuoi simili. Senza altri che capiscano. Tu sei amico degli Shadowhunters, ma non potrai mai essere uno di loro. Sarai sempre diverso, un escluso. Con noi invece saresti come tutti gli altri. — Mentre si chinava, l’anello brillava di luce bianca, pungendo Simon negli occhi. — Abbiamo migliaia di anni di conoscenza da condividere con te, Simon. Potresti imparare come mantenere il tuo segreto, imparare a mangiare e a bere, pronunciare il nome di Dio. Raphael è stato crudele e ti ha nascosto queste informazioni, anzi ti ha spinto a credere che nemmeno esistano. Non è così. E io ti posso aiutare.
— Se io prima aiuto te — disse Simon.
Lei sorrise, mostrando denti bianchi e affilati. — Ci aiuteremo a vicenda.
Simon si appoggiò all’indietro. La sedia di metallo era dura e scomoda e, all’improvviso, si sentì stanco. Guardandosi le mani, riusciva a vedere le vene che si erano scurite e si diramavano come una ragnatela. Aveva bisogno di sangue. Aveva bisogno di parlare con Clary. Aveva bisogno di tempo per pensare.
— Ti ho sconvolto — disse. — Lo so. Hai molte informazioni da assimilare. Mi piacerebbe poterti lasciare tutto il tempo che ti serve per prendere una decisione su quanto ci siamo detti e anche su di me. Il fatto è che non ce ne resta molto, Simon. Mentre rimango in questa città, sono esposta agli attacchi di Raphael e dei suoi scagnozzi.
— Scagnozzi? — Malgrado la situazione, Simon abbozzò un sorriso.
Camille parve perplessa. — Che problema c’è?
— Be’, è che “scagnozzi” è come dire “sgherri”, o “tirapiedi” – Lei lo fissava con aria incuriosita. Simon sospirò. – Lasciamo perdere, probabilmente tu non hai visto tutti i filmacci di terz’ordine che ho visto io.
Camille increspò lievemente la fronte, facendo comparire fra le sopracciglia l’accenno di una ruga. — Me l’avevano detto che eri un tipo un po’ particolare. Forse è perché non conosco molti vampiri della tua generazione. Però sento che mi farà bene stare con qualcuno di così… giovane.
— Sangue fresco — disse Simon.
Stavolta Camille rise. — Allora, sei pronto? Accetti la mia offerta? Iniziamo a collaborare?
Simon alzò gli occhi al cielo. Sembrava che i fili con le luci bianche oscurassero le stelle. — Senti — disse a un tratto. — Apprezzo la tua proposta, davvero — Merda, pensò, doveva pur esserci un modo per dirlo senza sembrare uno che rifiutava l’invito al ballo di fine anno. Sono molto, molto lusingato che tu l’abbia chiesto a me, però… Camille, come Raphael, parlava senza scomporsi, in tono formale, come il personaggio di una fiaba. Forse poteva provare con la sua stessa strategia. — La mia decisione richiede tempo. Suppongo che tu mi possa capire.
Lei sorrise, con molta grazia, scoprendo solo la punta dei canini. — Cinque giorni — disse. — Non uno di più. — Allungò verso di lui una mano guantata; qualcosa brillava dentro il palmo. Era un flaconcino di vetro, simile a uno di quei campioncini di profumo, ma pieno di una polvere brunastra. — Terra di tomba. Rompi il flacone e io saprò che mi stai chiamando. Se non lo farai entro cinque giorni, manderò Walker a sentire qual è la tua risposta.
Simon prese il contenitore e lo fece scivolare in tasca. — E se la risposta sarà no?
— In tal caso ne sarei dispiaciuta, ma ci lasceremo da amici. — A quel punto, allontanando il bicchiere di vino che aveva davanti, lo congedò. — Arrivederci, Simon.
Il ragazzo si alzò in piedi. La sedia, strisciando contro il pavimento, emise uno stridore metallico troppo rumoroso. Sentì di dover aggiungere qualcos’altro, ma proprio non sapeva cosa. Per il momento, comunque, Camille lo aveva congedato, perciò decise che preferiva sembrare uno di quegli strani vampiri moderni, un po’ maleducati, piuttosto che rischiare di essere di nuovo coinvolto nella conversazione. Se ne andò senza aggiungere altro.
Ripercorrendo il ristorante in direzione dell’uscita, passò davanti a Walker e ad Archer, in piedi accanto al grande bancone di legno con le spalle ricurve sotto i lunghi cappotti grigi. Riusciva a sentire l’intensità dei loro sguardi di rimprovero mentre si allontanava e li salutava sfarfallando le dita, un gesto a metà fra un cenno amichevole e un “a mai più rivederci”. Archer scoprì i denti, dei banali denti umani, e lo oltrepassò furtivamente dirigendosi verso il giardino, con Walker alle calcagna. Simon rimase a guardare mentre prendevano posto sulle sedie accanto a Camille, che non alzò lo sguardo mentre loro si sedevano. Le luci bianche, che fino a poco prima illuminavano il giardino, si spensero improvvisamente, non una dopo l’altra, ma tutte insieme, lasciando Simon dentro un inquietante quadrato di tenebra, come se qualcuno avesse spento le stelle. Quando i camerieri del locale si accorsero del blackout e corsero fuori per inondare di nuovo il giardino di luce, di Camille e dei suoi Soggiogati umani non c’era più traccia.


Simon aprì la porta d’ingresso di casa sua – una fra tante villette a schiera tutte identiche, in mattoni, che fiancheggiavano le strade del suo quartiere – e la aprì appena, con le orecchie tese.
A sua madre, prima di uscire, aveva detto che avrebbe incontrato Eric e gli altri membri della band per prepararsi al concerto previsto per sabato. Un tempo lei gli avrebbe creduto e basta, senza problemi. Elaine Lewis era una madre di mentalità aperta, che non imponeva mai il coprifuoco né a Simon né alla sorella, e nemmeno li obbligava a tornare a casa presto le sere in settimana. Simon era abituato a restare fuori a qualsiasi ora con Clary, a rientrare usando il suo mazzo di chiavi e a sprofondare nel letto alle due di notte, un comportamento che fino ad allora non aveva suscitato particolari commenti.
Ora invece le cose erano cambiate. Simon era rimasto a Idris, la patria degli Shadowhunter, per quasi due settimane: sparito da casa, senza possibilità di fornire scuse o spiegazioni. Lo stregone Magnus Bane era intervenuto facendo a sua madre un incantesimo per cancellarle la memoria e ora lei non ricordava niente dell’assenza di Simon. O, per lo meno, non la ricordava consciamente. Infatti si comportava in modo diverso: era sospettosa, gli stava addosso, lo osservava continuamente, insisteva perché rincasasse entro certi orari. L’ultima volta che era rientrato da un appuntamento con Maia si era ritrovato Elaine seduta nell’atrio, su una sedia rivolta verso la porta, con le braccia incrociate e una malcelata irritazione dipinta sul viso.
Quella notte era riuscito a sentire il respiro di sua madre prima ancora di vederla. Ora invece udiva solo il debole brusio della televisione che proveniva dal soggiorno. Doveva averlo aspettato sveglia, probabilmente guardando puntate su puntate di qualche serial ospedaliero che lei amava tanto. Simon si chiuse la porta alle spalle e ci si appoggiò contro con la schiena, cercando di raccogliere le energie necessarie per mentire.
Già non era semplice evitare di mangiare insieme alla sua famiglia. Per fortuna sua madre andava al lavoro presto e tornava tardi, mentre Rebecca, che frequentava il college in New Jersey e tornava solo di tanto in tanto per lavare le sue cose, non lo vedeva abbastanza spesso da notare che qualcosa non andava. Quando lui si svegliava al mattino, in genere sua madre era già uscita, lasciando sul bancone della cucina una colazione e un pranzo preparati con amore. Lui, sulla via per la scuola, buttava tutto in un bidone della spazzatura. La cena era più complicata: le sere in cui la madre era a casa, gli toccava sparpagliare tutto il cibo nel piatto, con l’aria di chi non ha fame e vuole portare tutto in camera per mangiare studiando. Una volta o due si era sforzato, giusto per farla contenta, ma dopo aveva passato ore chiuso in bagno a sudare e a vomitare finché quella roba non gli era uscita dal corpo.
Non sopportava di doverle mentire. Si era sempre un po’ dispiaciuto per Clary e per il suo rapporto a volte conflittuale con Jocelyn, il genitore più iperprotettivo che avesse mai conosciuto. Adesso però toccava a lui. Da quando Valentine era morto, la stretta di Jocelyn attorno alla figlia si era allentata al punto da rientrare quasi nella normalità. Simon invece, ogni volta che era in casa, poteva sentire su di sé lo sguardo di sua madre, pesante come un’accusa, che lo seguiva ovunque si spostasse.
Raddrizzando le spalle, lasciò cadere la borsa a tracolla sul pavimento vicino alla porta e andò in soggiorno preparandosi a ricevere la prevedibile ramanzina. Il televisore era acceso, col telegiornale ad alto volume. Il giornalista locale stava facendo un servizio sul caso di un bambino trovato abbandonato in una strada dietro un ospedale del centro. Simon rimase sorpreso: sua madre detestava i TG, li trovava deprimenti. Guardò verso il divano e ogni traccia di stupore svanì. Sua madre stava dormendo, con gli occhiali appoggiati sul tavolino accanto e un bicchiere mezzo vuoto sul pavimento. Simon lo riconobbe subito da quella distanza: whisky, probabilmente. Sentì una fitta. Sua madre non beveva quasi mai.
Andò nella camera della donna e tornò con in mano una coperta fatta a maglia. Lei dormiva ancora, respirando in modo lento e regolare. Elaine era una signora minuta, uno scricciolo con un casco di capelli neri e ricci, striati di grigio, che si rifiutava di tingere. Di giorno lavorava per un organizzazione ambientalista no profit e gran parte dei vestiti che indossava erano decorati con disegni di animali. In quel momento portava un vestito con una fantasia di onde e delfini corredato da una spilla che un tempo era un pesciolino vero e adesso era incastonato nella resina. Mentre Simon si piegava per rimboccare la coperta attorno alle spalle della madre, aveva la sensazione che l’occhio laccato del pesce lo stesse guardando di traverso.
Elaine si mosse, di scatto, girando la testa dall’altra parte. — Simon — sussurrò. — Simon, dove sei?
Dispiaciuto, lui lasciò andare la coperta e si raddrizzò. Forse avrebbe dovuto svegliarla, dirle che stava bene. Poi però ci sarebbero state delle domande a cui avrebbe preferito non rispondere e, sul viso della madre, quell’espressione ferita che non sopportava. Si voltò e andò in camera sua.
Si era buttato sul letto e, senza nemmeno pensarci, aveva preso il telefono sul comodino per telefonare a Clary. Rimase un istante in silenzio ad ascoltare il segnale di libero. Non poteva raccontarle di Camille, le aveva promesso che la sua proposta sarebbe rimasta un segreto. Non che si sentisse particolarmente in dovere verso quella donna, ma, se c’era una cosa che aveva imparato negli ultimi mesi, era che tradire la parola data alle creature soprannaturali era una mossa da evitare. Però voleva comunque sentire la voce di Clary, come faceva sempre dopo una giornata difficile. Be’, aveva sempre di che lagnarsi sulla propria vita sentimentale e la cosa sembrava divertire l’amica a non finire. Rigirandosi nel letto, si coprì la testa con il cuscino e compose il numero

4 commenti:

  1. Ti ringrazio per questo "Contest" ... mi interessa partecipare e soprattutto mi piace la caccia al tesoro ... *ç* l'unica cosa che non ho ben capito è che non hai ancora postato alcun "indizio" vero? Altrimenti son già fritta XDD

    Grazie

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  2. Ciao Dania, grazie a te per il commento! ^^ No, ancora nessun indizio, lo pubblicherò domani! XD

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  3. Bellissima idea!!!! Complimenti!! :D

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Grazie per aver condiviso la tua opinione!

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