Il colore del tè, Hannah Tunnicliffe Sonzogno 320 pagine, 18 euro |
Come avevo già scritto in precedenza, in occasione della mia recensione de “La Grande Festa di John Saturnall”, il filone culinario va alla grande anche quando si parla di libri: tra cuochi cultori dello scalogno e manuali di ricette facili e veloci, non c'è che l'imbarazzo della scelta! Anche il mondo della pasticceria è oggi di gran moda: di cake design e decorazione dolci si parla e si scrive molto, e le cupcake (uso volutamente l'articolo femminile LE, anche se per il resto del mondo credo siano I cupcake) hanno ormai invaso le cucine di mezza Italia. Ovviamente, da golosa quale sono, l'argomento non mi lascia indifferente e quando mi si è presentata la possibilità di leggere e recensire “Il colore del tè” della neozelandese Hannah Tunnicliffe l'ho colta al volo: bevo litri di litri al giorno e non disdegno i macarons e la copertina del romanzo, con una deliziosa tazza da tè colma di pasticcini, era un allettante invito. A lettura terminata, però, di dolce ne ho avuto fin troppo e sono decisamente pronta a leggere e recensire opere dal gusto meno stucchevole.
“Il colore del tè” narra la vicenda di Grace, inglese sulla trentina che si è trasferita a Macao per seguire il marito, che viene trasferito nell'ex colonia portoghese per seguire un progetto edilizio. Fin da subito Grace viene presentata come una donna molto fragile, smarrita e depressa a causa dell'impossibilità di avere i figli che tanto desidera, sposata a un uomo di sufficiente buona volontà che però non riesce a comprendere appieno i suoi tormenti. I primi tempi a Macao sono duri per la protagonista, che non vive, ma si “lascia” vivere (addirittura si rivolge a una veggente locale per sapere che cosa le riserverà il futuro), disorientata dal dolore che le procura la consapevolezza che non sarà mai madre. L'occasione per dare una svolta le si presenta quasi per caso, quando, passeggiando per strada, nota un cartello “vendesi” affisso a una vetrina: il locale è in vendita e lei, con la passione culinaria ereditata da una madre fuori dagli schemi, decide di provarci, di aprire un caffè dove poter servire i propri dolci. A questo punto già incominciano a nascere in me le prime perplessità: una donna che sta attraversando un momento personale molto difficile e che non ha mai fatto l'imprenditrice, decide di mettersi in proprio in un angolo d'Asia e, pur non conoscendo la lingua e pur non avendo appoggi che possano aiutarla con la burocrazia, nel giro di poco tempo riesce ad aprire il suo Lillian's, chiamato così in onore della mamma scomparsa. Il marito, che ha sempre avuto in mano i cordoni della borsa, borbotta un po', ma le lascia investire una cospicua quantità di denaro (quella messa da parte per un tentativo di fecondazione in vitro)... del resto come non farsi convincere dall'affermazione di Grace: “Sono tanti soldi. Lo so. Ma apro un negozio. Sarà un investimento. Ne guadagnerò anche di soldi.” (pag. 71). Procedendo nella lettura, il clan femminile attorno al Lillian's si allarga: a Grace si affianca Rilla, giovane e briosa ragazza filippina, che grazie alla propria dedizione e affidabilità si rivelerà una collaboratrice preziosissima (a mio parere il personaggio meglio caratterizzato del romanzo), seguita da Gigi, una cinesina poco più che ventenne, selvatica, rude ma sotto sotto dal cuore d'oro, senza dimenticare l'anziana Yok Lan e Marjory, ex ballerina appariscente e dai modi spicci, anche lei di gran cuore. Il personaggio di Gigi è stato un altro aspetto del romanzo che non mi ha convinto: Gigi, di professione ex-croupier che entra poi a far parte della squadra del Lillian's (e fortunatamente per le tasche di Grace: una ragazza tosta che parla cantonese, capace di mettere in riga i fornitori truffaldini!), è la nipote dell'indovina che Grace aveva visitato nei primi giorni a Macao. Le due si erano quindi già incontrate, visto che Gigi si occupava della riscossione del denaro per le predizioni della zia.
“Grazie. Mi chiamo Gigi.” […]
“Piacere, Gigi. Io sono Grace.”
“Sei venuta a trovare mia zia.”, mi dice, scrutandomi a lungo in viso con espressione seria. Poi la ricordo in tuta da ginnastica intenta a masticare una gomma e a trafficare con il telefonino. (pag. 119)
Quando nel romanzo si parla di lei, spesso lo si fa utilizzando aggettivi come “cupa”, “annoiata”, “sbrigativa”, “arrabbiata”: insomma la nostra Gigi, sebbene ci venga lasciato intendere che abbia ricevuto diversi tiri mancini nel corso della sua breve vita, non è presentata come una persona amabile e tuttavia Grace la prende molto a cuore, anche se in diversi casi la ragazza la tratta con una certa irrispettosa freddezza. Solo a una cosa Gigi non sa resistere: anche lei infatti cade sotto l'incantesimo maliardo dei macarons, come descritto a pag. 122 del romanzo. L'unico momento in cui Gigi pare “deporre le armi” è proprio quando osserva i bramati macarons: “Sotto il trucco e la matita scura di solito si nasconde un'espressione cupa. A parte quando esamina i macarons nella loro vetrina, naturalmente. In quei casi si raddolcisce in viso, si scioglie in un modo tutto suo, come burro in padella”.
Inoltre Gigi aspetta un figlio da un poco di buono che non ha alcuna intenzione di fare il padre: la ragazza sembra insofferente durante tutta la gravidanza e non pare mostrare molto affetto per il bambino in arrivo; fortunatamente le cose dopo il parto cambiano e Gigi scopre di volere molto bene alla sua bambina, anche se [ATTENZIONE SPOILER!] è anche pronta a darla in affido a Grace quando dovrà ritornare in Australia con il marito. In effetti la zia indovina aveva predetto: “Forse ci sarà un bambino.” (pag. 17).
Che la proprietaria del Lillian's prenda tanto a cuore la vicenda della ragazza forse dipende proprio dal fatto che quest'ultima è incinta, ed è quindi plausibile che Gigi dimostri infine un nuovo atteggiamento più affettuoso e grato, tuttavia mi è sembrato davvero troppo forzato il passaggio in cui la “neo-mamma” ammette alla “mai-mamma” di aver realizzato di amare molto la bimba, ma di nutrire dei dubbi sulla propria adeguatezza ad accudirla e a garantirle un futuro degno, facendo così intendere velatamente l'intenzione di separarsene affidandola a Grace, la quale non trova meglio da dire che..: “Ci prendiamo un tè e finiamo questi macarons?” (pag. 302)
Che la proprietaria del Lillian's prenda tanto a cuore la vicenda della ragazza forse dipende proprio dal fatto che quest'ultima è incinta, ed è quindi plausibile che Gigi dimostri infine un nuovo atteggiamento più affettuoso e grato, tuttavia mi è sembrato davvero troppo forzato il passaggio in cui la “neo-mamma” ammette alla “mai-mamma” di aver realizzato di amare molto la bimba, ma di nutrire dei dubbi sulla propria adeguatezza ad accudirla e a garantirle un futuro degno, facendo così intendere velatamente l'intenzione di separarsene affidandola a Grace, la quale non trova meglio da dire che..: “Ci prendiamo un tè e finiamo questi macarons?” (pag. 302)
In tutto questo non possiamo non menzionare la sbandata che la nostra protagonista ha per Léon, affascinante chef francese (ovviamente!) un po' “piacione” che ha occasione di incontrare durante un evento per expat. Grace avverte una certa stanchezza nel suo matrimonio e si lascia coinvolgere in romantiche (ma a tratti anche bollenti) fantasie, sostenute dal fatto che Léon è stato il primo a iniziarla all'arte del macaron.
Inoltre, essendo una traduttrice di formazione e avendo molto a cuore il tema, sono rimasta perplessa per alcune scelte di traduzione, come quella di utilizzare il verbo “fare” al posto di “dire” (fortunatamente non frequente):
“Accidenti” fa lei, con una punta tagliente di accento australiano, poi mi implora: “Non potrebbe aprire un po' prima oggi?” (pag. 97)
Oppure la scelta del termine “industria” per rendere quello che probabilmente in versione originale è industry:
“Ah, tu hai un talento naturale per questa industria. Ce lo devi avere nel sangue.” (pag. 155)
Trattandosi di pasticceria, credo che industria non sia la parola più appropriata.
Ho invece parzialmente apprezzato il modo in cui Grace ha cercato di riconciliarsi con la figura della madre, scrivendole lettere accorate che non potrà più leggere, ma con cui cerca una sorta di catarsi. Solo verso la fine del romanzo capiamo i motivi per cui la protagonista ha scelto la comunicazione epistolare per venire a patti con il proprio passato.
Questa volta, comunque non mi sento proprio di dare a “Il colore del tè” la sufficienza: si lascia leggere - è vero - ma, per tornare in ambito culinario, è come una torta troppo ricca e decorata: può ingolosire, ma dopo qualche forchettata ne hai abbastanza da non riuscire a consigliarla al tuo vicino di tavolo.
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