"Quando l'imperatore era un dio" racconta un'altra pagina poco conosciuta della storia americana: l'internamento dei cittadini di origine giapponese nei campi di lavoro dello Utah, in seguito all'attacco di Pearl Harbour. Un tranquillo padre di famiglia arrestato nel cuore della notte; sua moglie, i suoi bambini costretti a un viaggio verso l'ignoto. Una storia emblematica del destino di chi divenne invisibile per tutta la durata della guerra.
Editore: Bollati Boringhieri
Pagine: 153
Prezzo: € 13,00
Dopo “Venivamo tutte per mare”, Bollati Boringhieri torna a giocare la carta Julie Otsuka rivolgendosi al suo romanzo d'esordio, ancora inedito in Italia, “Quando l'imperatore era un dio”. Chi è rimasto soddisfatto dal precedente romanzo farebbe bene a dare un'occhiata anche a questo, per scoprire le radici di “Venivamo tutte per mare” e approfondire quella parte di storia che l'altro romanzo non aveva approfondito. E soprattutto, per ritrovare una scrittrice che, nonostante le poche opere all'attivo, si dimostra molto matura dal punto di vista stilistico e di introspezione psicologica, e che meriterebbe un pubblico ben più vasto.
“Quando l'imperatore era un dio”, nonostante il suo argomento di nicchia, racconta una storia capitata per davvero a molte famiglie di emigrati giapponesi in America all'alba della Seconda Guerra Mondiale. Una vicenda talmente comune che l'autrice non ci dice nemmeno i nomi dei suoi protagonisti. All'inizio è l'arresto inspiegabile ed inspiegato del capofamiglia, quello che proverbialmente “porta a casa la pagnotta”; infine, dopo un periodo in cui ci è arrabattati per vivere con quel poco che si ha a disposizione, alla madre e ai due bambini (un maschio ed una femmina, quest'ultima maggiore) viene dato l'ordine di andare in un punto di raccolta stabilito dal governo. Da lì, insieme a centinaia di altre famiglie nipponiche, un lunghissimo viaggio, fatto di stenti e nostalgia, verso lo Utah, dove li attende un campo di ricollocazione. Soltanto la fine del conflitto porrà fine a questa situazione... o forse le cicatrici continueranno a fare male anche se, tecnicamente, si è ritornati a casa?
L'editore definisce “Quando l'imperatore...” il seguito ideale di “Venivamo per mare”. Mi chiederete: è vero? La risposta è... Ni. E' vero che le storie delle spose del secondo si interrompono proprio dove l'altra comincia, ossia con la partenza verso un non meglio precisato campo, ma le somiglianze finiscono qui. Tanto per cominciare, l'ordine di pubblicazione dei romanzi è stato invertito in Italia, e perciò, se vogliamo attenerci al ragionamento di Bollati Boringhieri, abbiamo letto prima il seguito e poi il prologo. Diventa evidente, a questo punto, che il paragone comincia ad essere un po' tirato per i capelli.
Anche a livello di struttura, poi, i due romanzi non potrebbero essere più differenti. La particolarità di “Venivamo tutti per mare” è la struttura a monologo, che lo rende sfuggente a una qualsivoglia catalogazione; l'altro, invece, ha una struttura se vogliamo più ordinaria, la cui unica caratteristica inusuale è quella di non dare dei nomi ai suoi personaggi. Sarebbe stato forse strano, infatti, per un romanzo di debutto partire subito da uno stile così sperimentale, no? Meglio scaldare i motori con qualcosa di più “comune” riservandosi i piani più ambiziosi con l'esperienza.
Detto questo, non si scoraggi chi aveva creduto a questo paragone un po' azzardato: “Quando l'imperatore...” è piuttosto maturo per essere un romanzo d'esordio, e sebbene manchi un po' di contestualizzazione storica riesce a stare in piedi da solo. La storia comincia quasi in medias res: la donna protagonista affronta i piccoli preparativi pratici del viaggio, cercando di nascondere così l'inquietudine e lo smarrimento che la situazione richiede. Soltanto in seguito scopriremo i tragici antefatti. E l'inizio è praticamente l'unica occasione in cui la Otsuka altera l'intreccio dal punto di vista temporale, per la semplice ragione che non c'è intreccio. I nostri si preparano, affrontano il viaggio in treno, arrivano a destinazione, cercano come possono di far passare il tempo in attesa di poter finalmente tornare a casa, ognuno a modo suo. Fine.
Tuttavia il romanzo non è vuoto dal punto di vista contenutistico: tutt'altro, è piuttosto denso, al punto che nonostante la breve durata alle volte diventa piuttosto complicato per il lettore digerire tutte le informazioni contenute. L'esempio lampante è l'introspezione psicologica, forse il fiore all'occhiello del libro. Julie Otsuka, nonostante non gli dia nemmeno un nome, tratteggia con grande cura e plausibilità i tre protagonisti. La madre, che cerca di essere forte per i suoi bambini e per il marito incarcerato, ma non sempre riesce nel suo intento. Nel corso delle pagine la vediamo passare dalla donna temprata dalle difficoltà, ma ancora dotata di senso pratico e spirito di conservazione, a quella che non si informa più sugli esiti della guerra, che sembra più vecchia di quello che è e che non sembra provare alcun desiderio di mangiare, dormire o provare a migliorare la sua condizione.
La bambina, al contrario, cerca di andare avanti con la sua vita, e proprio per questo il suo punto di vista cessa di parlare durante la parte nel campo: si fa delle nuove amiche, da cui apprende persino a fumare, e cerca di passare meno tempo possibile in compagnia di sua madre e suo fratello. Ma in realtà rimane comunque una bambina, sperduta e trascurata dalla madre depressa.
Infine il bambino, forse quello che più lascia il segno nel lettore. Si può quasi dire che viva nel ricordo del padre, di quel “piccolo uomo giallo” che lo coccolava e gli dava miriadi di soprannomi ma che se ne è dovuto andare, in una notte apparentemente come tante, per un motivo non meglio precisato. Senza praticamente nulla da fare, a parte andare in una scuola improvvisata ed inventarsi ogni stratagemma possibile per far passare il tempo, non è aiutato dal dover ascoltare gli sfoghi della madre, che gli racconta – ma quanto parla a lui e quanto da sola? - del passato. Non capisce bene quanto le altre tutta la situazione, ma paradossalmente è quello che ne esce meglio, proprio per la sua inconsapevolezza.
Non esistono altri personaggi di rilievo nel romanzo, a parte il padre, che comunque appare soltanto alla fine e spaventosamente diverso dall'uomo conosciuto nei flashback. Tutte le energie sono concentrate soltanto sui tre protagonisti; e non è necessariamente un difetto. Soltanto nell'ultima, triste parte, però, concentrata sul tanto agognato ritorno in America, vedremo veramente la portata distruttiva di quello strano periodo delle loro vite, e dell'impossibilità di un happy ending che pure tutti, lettore compreso, avevano desiderato con tutte le loro forze.
Lo stile di Julie Otsuka è formato da frasi dalla struttura molto semplice, spesso ripetitiva (“Il bambino pensò...La bambina disse...”), e da brevissimi paragrafi. E' evidente, comunque, che si tratti di una scelta stilistica ben studiata: i capoversi sono ben calibrati, soprattutto nel dare enfasi alle frasi più toccanti. Ci sono pochissimi dialoghi, in quanto si preferisce dare la preferenza a discorsi indiretti e a monologhi.
Tirando le somme, “Quando l'imperatore era un dio” è un romanzo particolare, sicuramente di nicchia, per stile e per tematiche, ma non per questo meno bello. Le nostre librerie sono stracolme di romanzi sull'Olocausto, sul fascismo (già meno), ma poche volte i riflettori vengono puntati su quello che succedeva al di là dell'Atlantico. Questi sono sicuramente fatti da scoprire e riscoprire, ed i romanzi di Julie Otsuka sono un ottimo spunto di partenza.
Avevo già molta voglia di leggerlo, ora ancora di più. Però effettivamente vuoi per la pubblicazione successiva che per il tempo della storia che è successivo, avevo capito che fosse un seguito. Mai che ci dicano le cose come stanno -.-
RispondiEliminaSono curiosa di leggere come se la cava quando i personaggi sono pochi e ben delineati, alla fine Venivamo tutte per mare era così corale che la moltitudine confondeva le figure fino a farle diventare un'unica entità.
Grazie per il commento! Per quanto mi riguarda - poi ovviamente de gustibus - la Otsuka se la cava bene anche con pochi personaggi distinti. "Venivamo tutte per mare" risalta per la sua struttura particolare, ma anche "Quando l'imperatore..." non ha niente da invidiare quanto a introspezione psicologica e plausibilità delle reazioni dei personaggi.
RispondiEliminaNon conoscevo assolutamente queste vicende storiche, credo proprio che metterò questo libro nella mia lista di prossime letture perchè è proprio il genere che preferisco.
RispondiEliminaNon commento spesso, ma ti seguo sempre con piacere ed ora ho voluto assegnarti un premio come "Very Inspiring Blogger": vieni a ritirarlo sul mio blog :)