domenica 30 giugno 2013

Case editrici Vs Self Publishing: quando gli elementi discrezionali della scelta sono passione e determinazione

Nei giorni scorsi su FutureBook, blog legato a Bookseller, è stato pubblicato un interessante articolo del fantomatico Agent Orange che parla della crisi dell’editoria in conseguenza alla crescente diffusione del self publishing. Ecco a voi la traduzione del post, che trovate in originale a questo indirizzo.

Fino a qualche tempo fa le cose erano molto semplici: gli editori creavano il mercato, competevano solo tra loro e gli agenti erano coloro attraverso cui gli autori si mettevano in contatto con gli editori. Era compito degli agenti arricchire i manoscritti prima che arrivassero alla casa editrice per l’editing finale. Era tutto rassicurante lineare e semplice.
Il self publishing ha cambiato tutto. Ora le case editrici risentono della concorrenza. Accettare l'offerta di un editore è diventato discrezionale o, per dirla in altro modo, tutti gli autori hanno già un contratto di pubblicazione a loro disposizione se sono pronti a fare lo sforzo di raccoglierlo.
Alcuni autori autoprodotti hanno avuto un successo inimmaginabile. Non hanno più bisogno delle case editrici perché sanno già come trovare lettori e avere introiti. Naturalmente, la maggior parte non ci riesce e gli editori non fanno altro che menzionare questo punto come una sorta di magica profilassi contro la minaccia del self publishing. Raramente si sente parlare di loro della percentuale di autori pubblicati che tornano ad essere sconosciuti.
Tutto questo non è certo una novità: i lettori lo dicono da anni, ma gli editori non si sono ancora svegliati. Un numero crescente di autori ha un forte senso di ostilità nei confronti degli editori  dato dalla presenza, nei loro elenchi digitali, di titoli dal dubbio merito letterario. Ma non solo. In modo più radicale, le case editrici non riesco ancora ad articolare le ragioni della loro esistenza puntando sulla passione per il mondo letterario e definendo il loro lavoro come qualcosa di necessario. Io trascorro una quantità impressionante del mio tempo a tentare di convincere gli autori che esistono davvero buoni editori. La percezione che non sono molto bravi in quello che fanno è terribilmente diffusa.
Sono consapevole di alcuni recenti esempi di self publishing di grande successo, i cui autori hanno parlato delle potenziali offerte delle case editrici, che hanno giudicato altamente irrisorie e sintomo che gli editori mostrano una certa riluttanza a rimpolpare i loro piani editoriali. Nonostante tutto, la mentalità secondo la quale sono loro quelle che contano e che tutti gli autori -  non importa quanto successo abbiano avuto con l’auto pubblicazione - segretamente desiderano una “tata” editoriale in modo da non doversi preoccupare che della loro scrittura è ancora estremamente radicata. Beh, questo non è vero. Ci sono un sacco di autori che sono fiduciosi, persone di successo a cui piace avere un ruolo attivo nel loro business letterario, anche grazie al fatto che l’auto pubblicazione è sempre più facile. Ci sono maggiori e migliori servizi per gli autori. Le case editrici sono solo un valore aggiunto alla statica, che giornalmente perde quotazioni.
Gli editori devono capire che anche se fossero l’unica offerta non sono, come una volta, la benedizione scesa dal cielo per l’autore. La realtà è che per ogni singolo libro per cui offrono la pubblicazione, devono dimostrare di essere in grado di dare una buona opportunità di far decollare il lavoro commercialmente e di farlo con la totale convinzione. La volontà o la capacità di lavorare sul singolo caso con passione e dedizione è, in un modo o nell’altro, troppo spesso assente. Io per primo mi sono stancato di metterle al primo posto.


Il tempio degli otaku #87: "Hokusai" di Shotaro Ishinomori





Salve a tutti, e benvenuti ad un'altra puntata de “il Tempio degli Otaku”! L'ospite d'onore di oggi non è un mangaka, anche se trattiamo l'opera di un autore mai passato prima da questi lidi. Nel caso ve lo stesse chiedendo non è neanche, per una volta, il solito manga che, se non conosco solo io, poco ci manca. No, oggi parleremo di un pittore, importantissimo sia in patria che soprattutto all'estero e che rimane il più grande rappresentante in occidente dell'arte giapponese: Hokusai. Il nome potrebbe dirvi poco, ma di sicuro conoscerete quel famosissimo dipinto raffigurante un'onda....Sì, proprio quello che beccate in ogni ristorante nipponico che dio mette in terra. L'autore di quel quadro è proprio lui. Come accennato nell'introduzione, in questo appuntamento si parlerà di una sua autobiografia romanzata, ovviamente sotto forma di manga, firmata da un nome che, insieme a Tezuka, è il più importante dei mangaka storici: Shotaro Ishinomori. Suo è infatti “Hokusai”, volume portato in Italia da J-Pop. Buona lettura!

Per chi si fosse sintonizzato solo ora, invece di parlare della trama dell'opera – che è praticamente inesistente, essendo una raccolta di aneddoti sul vecchio pittore – userò questo spazio come “discovery channel” su Hokusai. Vissuto dal 1760 al 1849, si è sempre distinto per la sua continua ricerca di nuovi stimoli, artistici e personali. Si dice abbia cambiato casa novanta volte, avuto un sacco di donne, ma quel che è certo è che la sua carriera è stata sempre all'insegna della sperimentazione. Ha usato diversi pseudonimi per firmare la sua arte, e ciascuno di essi rappresenta una nuova fase, un tentativo di slegarsi da un passato che cozzava con la volontà di poter creare liberamente. Anche Hokusai è un nome fittizio, risalente al 1798. Muore a novant'anni ancora ansioso di sperimentare e di rinnovare la sua arte. Come spesso accade ai grandi artisti (vero, Van Gogh?) ai suoi tempi non godette di molto successo in patria, tuttavia all'estero le sue opere giocarono un ruolo fondamentale nella nascita dell'impressionismo.

La biografia di Ishinomori copre tutti questi punti e allo stesso tempo no. Cercherò di spiegarmi meglio: come l'autore stesso spiega nella postfazione, il suo intento non è di ricreare fedelmente la vita di Hokusai attenendosi solo ai fatti biografici, ma partire da questi per costruire vicende forse inventate di sana pianta ma che comunque hanno un fondo di verità. Sempre tornando alle parole di Ishinomori, il suo scopo dichiarato è di narrare non il pittore, ma il personaggio: due cose ben diverse. Così il mangaka assume due compiti di estrema importanza: quello di narratore e quello di creatore delle vicende. Difficile dire quale sia il confine tra le due, dipende dalla situazione. E comunque, soltanto la storia potrebbe dircelo con certezza.
Il tocco di Ishinomori, comunque, si sente parecchio nella sceneggiatura. C'è una certa emozione di fondo, da parte del mangaka, nel trattare un pittore così importante e, soprattutto, così innamorato dell'arte, forse lo stesso amore che in tempi più recenti aveva spinto Ishinomori a buttarsi in quella carriera così incerta. Per questo Hokusai viene quasi usato come veicolo per spiegare la gioia della creazione, suo unico tratto redentore. Il nostro infatti è un vecchio burbero, ossessionato dal sesso, che ama fare la bella vita – ma senza mai avere i mezzi per permettersela -  che spesso e volentieri trascura i propri affetti per i suoi affari, artistici e personali. L'unico momento in cui la maschera cede e il lettore riesce a vedere l'uomo dietro a questi vizi è quando si parla di pittura. Lì il misantropo cede il passo ad una persona sempre meravigliata dalla bellezza che lo circonda, e che invano cerca di riprodurre su carta. I suoi insuccessi, però, non lo deprimono, anzi lo spronano ancora di più.
Dalle sue parole si evince come l'arte per lui sia un modo per “riordinare” la vita e cercare di capirla. Sempre in viaggio, con una nuova donna al fianco, ma con un'unica costante. Incapace di amare del tutto le persone, il suo vero amore è la pittura. Come ogni storia d'amore che si rispetti, anche questa è travagliata, ostacolata non poco dalla venalità del nostro che lo spingono più volte a svendere la sua amata arte per i soldi. Inoltre, la pittura è una fidanzata piuttosto possessiva e gelosa, che non accetta di essere messa in secondo piano da niente e nessuno. Lo si nota molto negli ultimi capitoli del volume, in cui è presente Oei, l'affezionata figlia di Hokusai che vive con lui. Ha letteralmente dedicato la vita a lui, essendo nubile, non se ne è mai andata come invece hanno fatto tutti gli altri, ma tutto quello che ha ricevuto in cambio sono state prese in giro, offese, una vita povera e priva di soddisfazioni. Difficile dire quanto del suo attaccamento al padre siano frutto di senso del dovere – in fondo parliamo sempre del Giappone dell'800 - e quanto genuino amore filiale, Ishinomori purtroppo perde un'occasione non ponendosi il problema. Ma è fuori discussione che la scala di priorità del vecchio si possa modificare a sfavore dell'arte.
Discorso analogo si può fare anche per le altre donne che finiscono sempre per essere scaricate quando al nostro prende la smania di cambiare paese/nome. Lui ama le donne, è indubbio, ma sembra esclusivamente amore carnale, ad eccezione forse della prima moglie. Probabilmente è conseguenza della sua costante insoddisfazione passare da un letto all'altro senza posa, tuttavia è emblematico che Ishinomori non ci faccia mai vedere come, e perché, termina una relazione. Il capitolo finisce, e la donna di turno cade nell'oblio. Tanto nel prossimo episodio ci sarà un'altra candidata a cui attenderà lo stesso destino. Questo affratellamento di comparse, pur non essendo un granché dal punto di vista dell'introspezione psicologica, non inficia la qualità del volume che, come avrete capito, è piuttosto alta.


Il tratto di Ishinomori deve molto a quello di Tezuka, ma non è una copia. Dietro lo stile apparentemente semplice e cartoonesco si vede molta cura e precisione – pochissimi sono ad esempio i disegni deformed, ossia in proporzioni volutamente diverse dalla realtà, tecnica invece usata moltissimo da Tezuka. A seconda della situazione e delle sensazioni che il mangaka vuole suscitare possono esserci sfondi che definire scarni è un complimento ed altri che sono un florilegio di dettagli, con un ottimo uso dei retini e delle sfumature. Da segnalare poi le inquadrature molto cinematografiche, che distolgono l'attenzione della struttura della tavola piuttosto statica ed ordinaria. Infine, spesso nella narrazione appaiono i quadri del vero Hokusai, che si sposano alla perfezione con lo stile più moderno.


E per oggi è tutto, cari amici. Arrivederci alla prossima volta, con il Tempio degli Otaku!

giovedì 27 giugno 2013

Anteprima: La donna è un'isola di Audur Ava Ólafsdóttir

Esce il 2 Luglio per Einaudi il nuovo romanzo di Audur Ava Ólafsdóttir, scrittrice islandese che aveva già stregato i lettori con la storia semplice ed emozionante di Rosa candida (romanzo uscito in versione tascabile lo scorso maggio).
La donna è un’isola (pagine: 272; prezzo: € 18,00) racconta le vicende bizzarre di una pianista incinta di due gemelle, un bambino un po' geniale e una poliglotta che fa cose strane. "Mescolateli con un marito desideroso di paternità, un veterinario che gira con un falcone in gabbia e un uomo misterioso che conosce il linguaggio dei segni. Farcite con tre pesci rossi, una vincita alla lotteria e un viaggio lungo le coste di un'isola di sabbia nera. Cuocete a fuoco vivo. Il risultato è un nutrimento delizioso e genuino: una storia delicata - insieme allegra, dolorosa e ironica - che entra nel cuore e nella testa e non se ne va più via. Il volume si chiude con in appendice di quarantasette ricette di cucina raccontate in maniera romanzata: si va dalle polpette di pesce al pane con salmone affumicato, dal riso al latte al dolce di Natale, dalla bistecca di balena all'oca farcita, ma c'è anche la ricetta del caffè imbevibile, o quella di un dolce solo sognato". A chiudere, la spiegazione di come si fanno le calze di lana ai ferri. Insomma, un romanzo davvero particolare che non vedo l’ora di leggere!

La donna è un'isola – Audur Ava Ólafsdóttir
Lei ha trentatré anni, traduce testi per riviste specialistiche dall'islandese in undici lingue straniere, e consegna a domicilio i suoi lavori. Porta i capelli cortissimi, ama correre, e per entrare in casa degli amici non passa mai dalla porta principale ma scavalca i recinti e attraversa i giardini. È sposata da quattro anni e non ha, e non desidera avere, figli. Per contro, ha un'amica, Auður, una musicista squinternata che vive in un regime di totale anarchia: ha avuto un figlio, Tumi, che è sordo e ha gravi problemi di vista, e ora aspetta una coppia di gemelle da un altro uomo che non frequenta più.
Inizia la storia. Nella stessa serata la protagonista investe un'oca, la raccoglie per poi cucinarla; visita il suo amante promettendosi che è l'ultima volta; consulta una sorta di chiaroveggente che le predice alcuni eventi che poi si verificheranno, fra cui una fortunata vincita alla lotteria dei sordomuti; torna a casa e il marito le dichiara di punto in bianco che vuole separarsi e che ama un'altra che aspetta già un figlio da lui. Per la protagonista è evidentemente tempo di cambiamenti.
Decide così di prendersi una vacanza, anche se è novembre e piove ininterrottamente, e di fare un viaggio insieme a Tumi, che le è stato affidato da Auður prima per pochi giorni, poi per un tempo non ben determinato. I due iniziano un periplo di un'isola che assomiglia all'Islanda, in compagnia di alcuni peluche, una cassa di libri, tre pesci rossi e un gatto. Durante questo viaggio la donna e il bambino vivranno magiche avventure e incontreranno strani personaggi, ma soprattutto impareranno un modo tutto loro per comunicare, capirsi e volersi bene. Un possibile senso di maternità.

Audur Ava Ólafsdóttir

È nata a Reykjavik nel 1958. Ha insegnato Storia dell'arte ed è stata direttrice del Museo dell'Università d'Islanda. Nel 2012 Einaudi ha pubblicato Rosa candida, tradotto in tutti i maggiori paesi europei e negli Stati Uniti, di cui Paolo Giordano ha scritto: «Rosa candida ubbidisce al tempo sospeso delle fiabe come se fosse stato scritto da un'eremita riparata per anni in un fiordo, senza radio, giornali o televisione: una bella boccata di ossigeno». Nel 2013, sempre per Einaudi, è uscito La donna è un'isola.



mercoledì 26 giugno 2013

23 Giugno 2013: muore Richard Matheson


Si è spento ad 87 anni Richard Matheson, uno dei più importanti esponenti della letteratura sci-fi del ventesimo secolo. In realtà era uno scrittore piuttosto poliedrico, che con grande padronanza degli stili vagava dal genere giallo all'horror, dal western alla fantascienza e all'erotico – nonostante detestasse questo tipo di catalogazione in generi. I suoi romanzi hanno ispirato tantissime trasposizioni, hanno spinto alla scrittura Stephen King e decretato il successo di Steven Spielberg. Era nato nel 1926 ad Allendale, nel New Jersey, e negli anni Cinquanta aveva pubblicato il suo primo romanzo Nato d’uomo e di donna.

Ha scritto venticinque romanzi, di cui i più conosciuti sono Ricatto mortale (Someone Is Bleeding, 1953), Tre ore di pura follia (Fury on Sunday, 1953), Io sono leggenda (I Am Legend, 1954), Tre millimetri al giorno (The Shrinking Man, 1956), Io sono Helen Driscoll (A Stir of Echoes, 1958), I ragazzi della morte (The Beardless Warriors, 1960), Cavalca l'incubo (Ride the Nightmare, 1962), Comedy of Terrors (1967), La casa d'inferno (Hell House, 1971), Appuntamento nel tempo (Bid Time Return, 1975), Al di là dei sogni (What Dreams May Come, 1978), più numerose raccolte di racconti. Molta della sua opera è ancora inedita in Italia. Recentemente abbiamo recensito sul nostro blog il quarto volume de Tutti i racconti, edito Fanucci, che trovate a questo indirizzo.


Tantissimi i suoi lavori per il cinema: nel 1960 gli venne commissionato l’adattamento cinematografico dei racconti di Edgar Allan Poe insieme al regista Roger Corman; ha lavorato persino alla produzione dello script per Gli Uccelli di Alfred Hitchcock, ma venne poi sostituito da Evan Hunter. Tra le trasposizioni dei suoi romanzi, le più importanti sono L'ultimo uomo della Terra del 1964, Duel  del 1971 (divenuto un cult in pochissimo tempo), 1975: Occhi bianchi sul pianeta terra dello stesso anno, Al di là dei sogni del 1998 con Robin Williams, Io sono leggenda del 2007 con Will Smith e Real Steel del 2009 con Hugh Jackman – in realtà sia L’ultimo uomo della terra, Occhi bianchi sul pianeta terra e Io sono leggenda sono tratti tutti dallo stesso romanzo.

Scrittore visionario, eccentrico e dal grande talento, una grande perdita per la letteratura mondiale. Non ci resta che dire R.I.P. Richard Matheson.


giovedì 20 giugno 2013

Recensione: Io che amo solo te di Luca Bianchini

Io che amo solo te – Luca Bianchini
Ninella ha cinquant'anni e un grande amore, don Mimì, con cui non si è potuta sposare. Ma il destino le fa un regalo inaspettato: sua figlia si fidanza proprio con il figlio dell'uomo che ha sempre sognato, e i due ragazzi decidono di convolare a nozze. Il matrimonio di Chiara e Damiano si trasforma così in un vero e proprio evento per Polignano a Mare, paese bianco e arroccato in uno degli angoli più magici della Puglia.
Gli occhi dei 287 invitati non saranno però puntati sugli sposi, ma sui loro genitori. Ninella è la sarta più bella del paese, e da quando è rimasta vedova sta sempre in casa a cucire, cucinare e guardare il mare. In realtà è un vulcano solo temporaneamente spento. Don Mimì, dietro i baffi e i silenzi, nasconde l'inquieto desiderio di riavere quella donna solo per sé. A sorvegliare la situazione c'è sua moglie, la futura suocera di Chiara, che a Polignano chiamano la "First Lady". È lei a controllare e a gestire una festa di matrimonio preparata da mesi e che tutti vogliono indimenticabile: dal bouquet "semicascante" della sposa al gran buffet di antipasti, dall'assegnazione dei posti alle bomboniere - passando per l'Ave Maria -, nulla è lasciato al caso. Ma è un attimo e la situazione può precipitare nel caos, grazie a un susseguirsi di colpi di scena e a una serie di personaggi esilaranti: una diciassettenne che deve perdere cinque chili e la verginità; un testimone gay che si presenta con una finta fidanzata; una zia che da quando si è trasferita in Veneto dice "voi meridionali" e un truccatore che obbliga la sposa a non commuoversi per non rovinare il make-up.
Editore: Mondadori
Pagine: 262
Prezzo: 16,00 €
Voto: 






Immergersi nella lettura di “Io che amo solo te” è stato piacevolissimo e rigenerante (del resto, già la copertina, con quei due peperoncini avvinghiati, è una gioia per gli occhi), come bere un bicchiere d'acqua fresca quando non ne puoi più dalla sete oppure riposare all'ombra dopo una camminata sotto il sole. Già, perché questo romanzo, ultima fatica del torinese Luca Bianchini, racconta con vivacità e brio i tre giorni che precedono il matrimonio dell'anno: quello fra Domenico, rampollo primogenito del “re delle patate” Don Mimì, e Chiara, figlia di Ninella, la “sarta più bella del paese”, nella splendida cornice di Polignano a Mare, uno degli angoli più magici della Puglia.
Sin dai primi capitoli, Bianchini è abile nel presentare i suoi protagonisti, caratterizzandoli attraverso pochi tratti salienti e restituendo così al lettore vivide immagini delle loro personalità.
Facciamo così la conoscenza di una girandola di personaggi spassosi, tra cui i veri cardini della vicenda: la sarta Ninella, madre della sposa, vedova cinquantenne ancora molto affascinante, piena di ansie e preoccupazioni come il ruolo impone e Don Mimì, ricco imprenditore agricolo che vive in una casa battezzata “il Teatro Petruzzelli di Polignano” (due piani, uno dei quali condonato, pag. 17), ancora piacente e concupito dalle signore del paese, da sempre innamorato, ricambiato, di Ninella, che non ha potuto sposare in gioventù. Il destino ha voluto però “metterci lo zampino”: infatti, quello che non fu permesso ai genitori, è ora permesso ai figli. Grazie alla loro unione Chiara e Damiano, i due impegnatissimi promessi sposi, colti nelle loro fragilità e nei loro dubbi prematrimoniali, offriranno la possibilità a Ninella e Don Mimì di riavvicinarsi.
Accanto a loro, è tutto un caleidoscopio di coprotagonisti e figure secondarie che con maestria l'autore rappresenta nelle loro manie e peculiarità, a tratti forse un po' stereotipate ma certamente calzanti, come Nancy (vero nome Annunziata), sorella adolescente nonché testimone della sposa, con due ossessioni, perdere peso e la verginità (non necessariamente in quest'ordine); la zia Dora, “salita al nord”, un po' snob e piena di sé che dice “voi meridionali” e soprattutto Orlando, il fratello omosessuale non dichiarato di Damiano che finalmente trova un'accompagnatrice (a sua volta lesbica) da poter sfoggiare al matrimonio per mettere a tacere le voci (che già avevano cominciato a girare, dato che Orlando da alcuni veniva soprannominato “la biunda”). Senza dimenticare uno dei miei preferiti, Vito Photographer, nome d'arte del maestro fotografo, tutto frasi d'effetto e inglesismi fuori luogo, che per la modica cifra di 2700€  senza fattura, immortalerà tutti i momenti più belli della festa, senza dimenticare i vari video da girare prima della cerimonia e un tentativo mezzo fallito di un flirt clandestino con la sposa.
Bianchini ha saputo mescolare nel suo romanzo tradizione e modernità, conciliando alla perfezione temi come il rispetto per le consuetudini, qui rappresentato da una cerimonia nuziale “da manuale”: ricca, sfarzosa e impegnativa, in cui tutto si attiene a una regola non scritta ma per questo non meno presente, a quelli più contemporanei come l'amore gay, un amore che è fonte di imbarazzo e disagio, che è lecito mascherare, altrimenti che cosa penserà la gente, anche se la gente in fondo lo sa o perlomeno lo intuisce e tutto sommato poco le importa. Che dire poi di Chiara, la cui ambizione è di essere sposata, di avere un uomo che l'attenda all'altare per unirsi in matrimonio, così demodé in un'epoca di donne rampanti, sfacciate, che inorridiscono al solo pensiero di avere un uomo solo? Il genere di ragazza che forse è il sogno di molti, cresciuta con frasi del tipo “gli uomini lasciali comandare, o almeno lasciaglielo credere. L'amore è innanzitutto non rompere i coglioni(pag. 26). Emerge inoltre molto forte la centralità del legame genitore/figlio, che se da una parte è fonte di preoccupazione, come nel caso di Don Mimì che teme di aver reso “arido” il figlio, insegnandogli i “piccoli calcoli piuttosto che i grandi sogni” (pag.19) , dall'altra si evolve e matura: come Chiara, che la sera prima delle nozze riceve una confidenza fondamentale da parte di Ninella, una confidenza che le renderà più unite che mai (Per la prima volta, sentì di essere stata accettata da sua madre e questo le diede gioia. Anche Ninella […] stava meglio.” pag. 131). Ma l'aspetto che più ho apprezzato di questo libro è il tema dell'amore giovanile, l'amore vero che, forse perché non si è consumato nel fuoco della passione, è ancora in grado di esercitare su chi lo prova una malia a cui non si può resistere. Ho apprezzato l'idea di far ballare Ninella e Don Mimi durante il ricevimento di nozze, la loro attrazione ancora viva e la loro dedizione sotto gli occhi di tutti, senza reticenze. Dopo tanti anni, finalmente la vita restituisce loro ciò che gli aveva sottratto tanto tempo prima e il futuro si tinge di un colore vivace inaspettato.
Riallacciandomi al mio incipit, leggere “Io che amo solo te” è piacevole come fare una passeggiata sulla spiaggia accarezzati dalla brezza marina oppure ispirare fortemente il profumo dei fiori in un giardino di primavera: è un invito a cui non si può rifiutare. Il dietro le quinte del matrimonio “Scagliusi & Casarano” si apre anche per voi, mi raccomando... non arrivate in ritardo!

Luca Bianchini
Per Mondadori ha pubblicato i romanzi Instant Love (2003), Ti seguo ogni notte (2004), Se domani farà bel tempo (2007) e Siamo solo amici (2010). Nel 2005 ha scritto la biografia di Eros Ramazzotti Eros - Lo giuro.
Dal 2007 conduce "Colazione da Tiffany" su Radio2.
Collabora con "Repubblica" e "Vanity Fair", per cui tiene anche un seguitissimo blog: "Pop Up".
Ha intervistato gli Abba, "Harry Potter" e Michael Stipe, e ne è molto orgoglioso.


martedì 18 giugno 2013

Recensione: Quando l'imperatore era un dio di Julie Otsuka


Quando l'imperatore era un dio - Julie Otsuka
"Quando l'imperatore era un dio" racconta un'altra pagina poco conosciuta della storia americana: l'internamento dei cittadini di origine giapponese nei campi di lavoro dello Utah, in seguito all'attacco di Pearl Harbour. Un tranquillo padre di famiglia arrestato nel cuore della notte; sua moglie, i suoi bambini costretti a un viaggio verso l'ignoto. Una storia emblematica del destino di chi divenne invisibile per tutta la durata della guerra.
Editore: Bollati Boringhieri
Pagine: 153
Prezzo:  € 13,00









Voto: 

Dopo “Venivamo tutte per mare”, Bollati Boringhieri torna a giocare la carta Julie Otsuka rivolgendosi al suo romanzo d'esordio, ancora inedito in Italia, “Quando l'imperatore era un dio”. Chi è rimasto soddisfatto dal precedente romanzo farebbe bene a dare un'occhiata anche a questo, per scoprire le radici di “Venivamo tutte per mare” e approfondire quella parte di storia che l'altro romanzo non aveva approfondito. E soprattutto, per ritrovare una scrittrice che, nonostante le poche opere all'attivo, si dimostra molto matura dal punto di vista stilistico e di introspezione psicologica, e che meriterebbe un pubblico ben più vasto.

“Quando l'imperatore era un dio”, nonostante il suo argomento di nicchia, racconta una storia capitata per davvero a molte famiglie di emigrati giapponesi in America all'alba della Seconda Guerra Mondiale. Una vicenda talmente comune che l'autrice non ci dice nemmeno i nomi dei suoi protagonisti. All'inizio è l'arresto inspiegabile ed inspiegato del capofamiglia, quello che proverbialmente “porta a casa la pagnotta”; infine, dopo un periodo in cui ci è arrabattati per vivere con quel poco che si ha a disposizione, alla madre e ai due bambini (un maschio ed una femmina, quest'ultima maggiore) viene dato l'ordine di andare in un punto di raccolta stabilito dal governo. Da lì, insieme a centinaia di altre famiglie nipponiche, un lunghissimo viaggio, fatto di stenti e nostalgia, verso lo Utah, dove li attende un campo di ricollocazione. Soltanto la fine del conflitto porrà fine a questa situazione... o forse le cicatrici continueranno a fare male anche se, tecnicamente, si è ritornati a casa?

L'editore definisce “Quando l'imperatore...” il seguito ideale di “Venivamo per mare”. Mi chiederete: è vero? La risposta è... Ni. E' vero che le storie delle spose del secondo si interrompono proprio dove l'altra comincia, ossia con la partenza verso un non meglio precisato campo, ma le somiglianze finiscono qui. Tanto per cominciare, l'ordine di pubblicazione dei romanzi è stato invertito in Italia, e perciò, se vogliamo attenerci al ragionamento di Bollati Boringhieri, abbiamo letto prima il seguito e poi il prologo. Diventa evidente, a questo punto, che il paragone comincia ad essere un po' tirato per i capelli.
Anche a livello di struttura, poi, i due romanzi non potrebbero essere più differenti. La particolarità di “Venivamo tutti per mare” è la struttura a monologo, che lo rende sfuggente a una qualsivoglia catalogazione; l'altro, invece, ha una struttura se vogliamo più ordinaria, la cui unica caratteristica inusuale è quella di non dare dei nomi ai suoi personaggi. Sarebbe stato forse strano, infatti, per un romanzo di debutto partire subito da uno stile così sperimentale, no? Meglio scaldare i motori con qualcosa di più “comune” riservandosi i piani più ambiziosi con l'esperienza.

Detto questo, non si scoraggi chi aveva creduto a questo paragone un po' azzardato: “Quando l'imperatore...” è piuttosto maturo per essere un romanzo d'esordio, e sebbene manchi un po' di contestualizzazione storica riesce a stare in piedi da solo. La storia comincia quasi in medias res: la donna protagonista affronta i piccoli preparativi pratici del viaggio, cercando di nascondere così l'inquietudine e lo smarrimento che la situazione richiede. Soltanto in seguito scopriremo i tragici antefatti. E l'inizio è praticamente l'unica occasione in cui la Otsuka altera l'intreccio dal punto di vista temporale, per la semplice ragione che non c'è intreccio. I nostri si preparano, affrontano il viaggio in treno, arrivano a destinazione, cercano come possono di far passare il tempo in attesa di poter finalmente tornare a casa, ognuno a modo suo. Fine.

Tuttavia il romanzo non è vuoto dal punto di vista contenutistico: tutt'altro, è piuttosto denso, al punto che nonostante la breve durata alle volte diventa piuttosto complicato per il lettore digerire tutte le informazioni contenute. L'esempio lampante è l'introspezione psicologica, forse il fiore all'occhiello del libro. Julie Otsuka, nonostante non gli dia nemmeno un nome, tratteggia con grande cura e plausibilità i tre protagonisti. La madre, che cerca di essere forte per i suoi bambini e per il marito incarcerato, ma non sempre riesce nel suo intento. Nel corso delle pagine la vediamo passare dalla donna temprata dalle difficoltà, ma ancora dotata di senso pratico e spirito di conservazione, a quella che non si informa più sugli esiti della guerra, che sembra più vecchia di quello che è e che non sembra provare alcun desiderio di mangiare, dormire o provare a migliorare la sua condizione.
La bambina, al contrario, cerca di andare avanti con la sua vita, e proprio per questo il suo punto di vista cessa di parlare durante la parte nel campo: si fa delle nuove amiche, da cui apprende persino a fumare, e cerca di passare meno tempo possibile in compagnia di sua madre e suo fratello. Ma in realtà rimane comunque una bambina, sperduta e trascurata dalla madre depressa.
Infine il bambino, forse quello che più lascia il segno nel lettore. Si può quasi dire che viva nel ricordo del padre, di quel “piccolo uomo giallo” che lo coccolava e gli dava miriadi di soprannomi ma che se ne è dovuto andare, in una notte apparentemente come tante, per un motivo non meglio precisato. Senza praticamente nulla da fare, a parte andare in una scuola improvvisata ed inventarsi ogni stratagemma possibile per far passare il tempo, non è aiutato dal dover ascoltare gli sfoghi della madre, che gli racconta – ma quanto parla a lui e quanto da sola? - del passato. Non capisce bene quanto le altre tutta la situazione, ma paradossalmente è quello che ne esce meglio, proprio per la sua inconsapevolezza.
Non esistono altri personaggi di rilievo nel romanzo, a parte il padre, che comunque appare soltanto alla fine e spaventosamente diverso dall'uomo conosciuto nei flashback. Tutte le energie sono concentrate soltanto sui tre protagonisti; e non è necessariamente un difetto. Soltanto nell'ultima, triste parte, però, concentrata sul tanto agognato ritorno in America, vedremo veramente la portata distruttiva di quello strano periodo delle loro vite, e dell'impossibilità di un happy ending che pure tutti, lettore compreso, avevano desiderato con tutte le loro forze.

Lo stile di Julie Otsuka è formato da frasi dalla struttura molto semplice, spesso ripetitiva (“Il bambino pensò...La bambina disse...”), e da brevissimi paragrafi. E' evidente, comunque, che si tratti di una scelta stilistica ben studiata: i capoversi sono ben calibrati, soprattutto nel dare enfasi alle frasi più toccanti. Ci sono pochissimi dialoghi, in quanto si preferisce dare la preferenza a discorsi indiretti e a monologhi.
Tirando le somme, “Quando l'imperatore era un dio” è un romanzo particolare, sicuramente di nicchia, per stile e per tematiche, ma non per questo meno bello. Le nostre librerie sono stracolme di romanzi sull'Olocausto, sul fascismo (già meno), ma poche volte i riflettori vengono puntati su quello che succedeva al di là dell'Atlantico. Questi sono sicuramente fatti da scoprire e riscoprire, ed i romanzi di Julie Otsuka sono un ottimo spunto di partenza.



domenica 16 giugno 2013

Recensione: L’ereditiera americana di Daisy Goodwin

L’ereditiera americana – Daisy Goodwin
Siamo nei mitici anni Novanta del diciannovesimo secolo. Per la sera del ballo in maschera di Cora Cash niente è stato lasciato al caso. Splendida, determinata e scandalosamente ricca, Cora è quanto di più simile a una principessa si possa trovare nell'alta società newyorkese. Sua madre ha architettato per lei un debutto che promette di essere il più sfavillante del decennio. Subito dopo il ballo, Cora andrà in Europa, con l'implacabile madre a farle da scorta, per procacciarsi un titolo nobiliare. L'Inghilterra pullula di aristocratici caduti in disgrazia che fanno la fila per corteggiare le ereditiere americane, senza badare all'origine a volte umile del loro patrimonio. Cora appare immediatamente meravigliosa agli occhi della società inglese. Ma l'aristocrazia è un reame pieno di regole arcane e di trappole, dove non è facile trovare chi accolga a braccia aperte una straniera facoltosa. Quando s'innamora perdutamente di un uomo che conosce appena, Cora si rende immediatamente conto di prendere ormai parte a un gioco che non capisce fino in fondo. E dovrà fare in fretta per armare il proprio candore con un pizzico di malizia, che la trasformerà dall'ereditiera ricca e viziata di un tempo in una donna dal carattere forte e risoluto.
Editore: Sonzogno 
Pagine: 462
Prezzo: € 19,50
Voto: 


 





Temo che parlare di questo romanzo, recensirlo, non sarà una passeggiata. Anticipo subito che già alla centesima pagina gli avrei fatto fare un salto nel vuoto dalla finestra, se non fosse che abito a piano terra.
Quello che ho avuto per qualche settimana davanti è stato l’ennesimo tentativo di voler emulare i classici fallendo miseramente: le povere Edith Wharton e Jane Austen si staranno contorcendo nella tomba per essere state nominate in un mero tentativo di voler rendere più ghiotto l’acquisto. Ciò che ho letto è un altro romanzo che di storico ha solo poche parti (ad esempio la descrizione della storia della famiglia e della tenuta dei Maltravers è davvero coinvolgente, peccato che occupi non più di mezza pagina), riproposizione di storie già viste e già lette.
Tutto ruota attorno all’ereditiera Cora Cash, ragazza americana la cui famiglia è divenuta ricca grazie al commercio della farina, e a quello che ha in serbo per lei la madre: un debutto in società in pompa magna e un matrimonio vantaggioso. Di certo il denaro non le manca, ma la signora Cash è così ambiziosa da introdurre la figlia nella società inglese, cercando tra i nobili un buon partito che possa coronare la testa di Cora con un titolo. La fortuna gira dalla parte della ragazza quando, durante una battuta di caccia, questa cade da cavallo e viene soccorsa da Ivo Maltravers, duca di Wareham, che all’inizio sembra indifferente al suo fascino e poi le fa una proposta di matrimonio. Cora ne è profondamente innamorata, ma non conosce bene il suo carattere, né sa come comportarsi nella nuova veste di duchessa e in un luogo ben diverso da quello natale. Dovrà fare i conti con le convenzioni, l’ipocrisia della aristocrazia, ma soprattutto con il passato del marito.
Detta così, sembrerebbe una storia affascinante - e ammetto che la trama mi aveva colpito proprio per questo – di cui l’autrice non riesce a sviluppare le potenzialità.
Ma parliamo un po’ dei personaggi. Cora, la nostra protagonista, è odiosamente volgare e sfacciata, convinta di avere il mondo ai suoi piedi. Vanitosa, arrogante, ancor più di chi possiede un titolo nobiliare. Mi ricorda vagamente Becky Sharp – La fiera della vanità, Thackeray -, con le unica differenza che quest’ultima voleva conquistarsi una posizione sociale partendo dal nulla, mentre Cora è ben conscia di potersi permettere un matrimonio che le frutti un titolo nobiliare ma nessun introito. Non è per niente candida, poiché fin dall’inizio mostra di poter essere maliziosa e calcolatrice, quando chiede alla povera Bertha di insegnarle a baciare gli uomini e tenta di convincere Teddy a sposarsi e dimenticarsi dei rispettivi doveri. Sebbene possa sembrare innamorata del ragazzo, non sembra batter ciglio al suo rifiuto, dimostrando di essere immatura e superficiale nelle sue decisioni: le basta cadere da cavallo per trovare marito, naturalmente innamorandosi di lui perché all’inizio sembra l’unico uomo sulla faccia della terra che non sembra esserne attratto. Il suo carattere superficiale si perde un po’ dopo il matrimonio, quando diventa più accorta e a modo, ma dimostra di non esser in grado di capire di chi può fidarsi.
Poi c’è il suo promesso sposo, Ivo, che mi ha subito dato l’impressione di un cacciatore di dote che impegna tutte le sue energie a sembrare il giovane duca romantico e tormentato, che suona il piano divinamente, prediligendo i motivi nostalgici e tristi. Sembra nascondere qualcosa di molto losco – forse un ménage con la sorellastra - e pare ne sia complice anche il suo migliore amico.
Non mi soffermerò a tracciare un quadro della due volte duchessa, madre di Ivo, perché dire che è solo una donna imbevuta nel belletto è abbastanza. Sfreghiamoci piuttosto le mani nel descrivere Mrs Cash, la madre di Cora. La storia comincia con il debutto in società della figlia alla quale la madre vuole togliere l’attenzione con un abito pirotecnico, che le causerà una lesione permanente al viso da coprire con una veletta. Donna vanesia, arrogante, sempre pronta ad ostentare possedimenti e gioielli, cosa tipica di chi si è arricchito.
Forse l’unico personaggio degno della mia simpatia è Bertha, la domestica di Cora, che non solo subisce i capricci della padrona, ma ha come una storia a parte nell’intero romanzo, che si sviluppa in parallelo alla protagonista. È l’unica vera amica della protagonista, che cerca sempre di mettere in guardia dalla cattiveria e ipocrisia della società.
Passiamo allo stile. Devo dire che ci sono parti che colpiscono, ma per la maggior parte del tempo il romanzo è soporifero; dove si può individuare qualche passaggio scorrevole, invece, è drammaticamente leggero. Francamente la Goodwin utilizza un linguaggio forse troppo moderno per il tardo Ottocento, a volte dando l’impressione di dimenticare che i personaggi che utilizza non sono suoi contemporanei; inoltre, non riesce a tenere l’attenzione del lettore, facendo sgretolare i momenti di suspense che invece di stupire il lettore lo inibiscono alla lettura. L’impressione è che l’autrice dia troppo spazio ad eventi che avrebbe potuto silurare in poche pagine e di essere quasi troppo sbrigativa in quelli che dovrebbero avere maggior risalto. Per quanto venga così pubblicizzato, non c’è nessuna briciola dell’acume e dell’ironia di Jane Austen, né si riesce ad eguagliare il criticismo e la capacità di Edith Wharton di raccontarci i vizi della società. Piuttosto la critica al sistema borghese e aristocratico è così debole da non farci intendere la reale posizione dell’autrice.
Il romanzo è prevedibile, scontato e, sebbene voglia farsi carico della missione di essere una storia di costume, rimane un romance la cui copertina è molto più interessante e lusinghiera del contenuto; questo lo dico da persona non del tutto avulsa alla lettura del genere visto che della stessa casa editrice ho letto i romance storici di Jennifer Donnelly è li ho trovati davvero interessanti. Sembra quasi che la Goodwin abbia creato un collage mal riuscito di cliché della letteratura classica dell’Ottocento non riuscendo, però, ad avvicinarsi nemmeno lontanamente alla sua magnificenza.


Daisy Goodwin

Ha studiato a Cambridge e vive a Londra. E' produttrice di programmi televisivi e ha curato numerose antologie di poesia. Scrive regolarmente per "The Sunday Times". E' sposata e ha due figlie. Con L'ereditiera americana, il suo romanzo d'esordio, ha conquistato il pubblico inglese e quello degli Stati Uniti

Anteprima: La casa sfitta di Charles Dickens, Elizabeth Gaskell, Wilkie Collins, Adelaide Anne Procter

Presentato in anteprima al Salone del Libro di Torino lo scorso mese, approda il 28 Giugno in libreria in edizione Jo March (prezzo: 12,00 €) un prezioso racconto a quattro mani inedito che porta la firma di quattro grandi scrittori dell’epoca vittoriana.
La casa sfitta (A House to let è il titolo originale) è un racconto di Charles Dickens, Wilkie Collins, Elizabeth Gaskell e Adelaide Anne Procter. È stato originariamente pubblicato nel 1858 sull’edizione natalizia di Household Words, rivista diretta da Dickens. Ciascuno dei collaboratori ha scritto un capitolo, mentre l’editing è stato affidato allo stesso Dickens. La short story è stata la prima collaborazione tra i quattro scrittori, anche se Collins e Dickens avevano già collaborato con la Procter a dei racconti natalizi nel 1854, 1855, e 1856. I quattro autori avrebbero scritto di nuovo insieme nel 1859 The Haunted House, che apparve nel supplemento natalizio di Household Words come il sequel di A House to let. Nel progetto iniziale dovevano essere coinvolti solo Dickens e Collins, ma poi la Gaskell e la Procter vennero chiamate a contribuire con alcuni capitoli.
La storia racconta di un’anziana donna, Sophonisba, che nota strani indizi di “presenze” in una casa apparentemente vuota e disabitata che si trova proprio di fronte al proprio stabile. Decide così di farsi aiutare da Jabez Jarber, suo vecchio ammiratore, e dalla sua serva, Trottle, per scoprire ciò che sta accadendo all'interno dell’edificio.
Il volume si compone di sei capitoli, di cui il primo e l’ultimo sono stati scritti da Dickens e Collins (che hanno poi firmato singolarmente un capitolo a testa) e due capitoli affidati rispettivamente alla Gaskell e alla Procter. 

Ecco la corretta successione dei capitoli nella versione originale:
Over the Way, scritto da Charles Dickens e Wilkie Collins
The Manchester Marriage, scritto da Elizabeth Gaskell
Going into Society, scritto da Charles Dickens
Three Evenings in the House, scritto da Adelaide Anne Procter
Trottle’s Report, scritto da Wilkie Collins
Let at Last, scritto da Charles Dickens e Wilkie Collins

La traduzione italiana è curate da Camilla Caporicci, Valeria Mastroianni, Lorenza Ricci (le ultime due hanno lavorato anche alla versione italiana, sempre per Jo March, de La storia di una bottega di Amy Levy).

La casa sfitta – Charles Dickens, Elizabeth Gaskell, Wilkie Collins, Adelaide Anne Procter
Mute testimoni di relazioni umane, le mura di una casa custodiscono nel silenzio i segreti degli uomini che le hanno abitate. Eppure certe case hanno assorbito così profondamente il loro contenuto, che esso si palesa all’esterno in tutto il suo inquietante aspetto.
Nido, o prigione? Quale mistero avvolge la casa sfitta che ossessiona la signora Sophonisba? Cosa si cela dietro le persiane scorticate e il fango che oscura i vetri dai quali nessuno parrebbe più affacciarsi?
Due investigatori speciali tenteranno di mettere pace nel cuore della loro prediletta: il fedele Trottle e il premuroso Jarber si sfideranno a colpi di manoscritti, di senili e tenere scenate di gelosia, e di coraggiose sortite nella casa.
Mettetevi comodi: un regista d’eccezione come Charles Dickens ha scritturato i migliori Autori sulla piazza per svelare, attraverso un intreccio impeccabile e una scrittura potente che lasciano semplicemente senza fiato, l’arcano della perturbante casa sfitta.


Charles Dickens (1812 – 1870)
Nato nel 1812 a Portsmouth, trascorre un'infanzia serena fino a quando, per un grave dissesto finanziario, il padre viene imprigionato per debiti. È una tragedia che sconvolge tutta la famiglia: il giovane Charles lascia la scuola per andare a lavorare in una fabbrica, sperimentando le condizioni disumane dei lavoratori di quel tempo.
L'esperienza dura solo sei mesi, ma è un vero inferno e lascerà nel suo animo profonde ferite e ricordi incancellabili.
A venticinque anni è apprendista in uno studio legale, poi cronista e stenografo parlamentare. Intanto comincia a scrivere e nel 1936 pubblica, a puntate settimanali, Il Circolo Pickwick, a cui fanno seguito Le avventure di Oliver Twist, a puntate mensili, e, a distanza di pochi anni, La bottega dell'antiquario, l'ultimo capolavoro, David Copperfield, esce nel 1850. Tutte le sue opere incontrano subito un grandissimo successo, favorito dalle letture pubbliche che l'autore tiene negli Stati Uniti, in Canada, in Italia, a Parigi, in Scozia, in Irlanda. Nel 1867 Dickens comincia ad avere problemi di salute, finché viene colpito da un attacco al cuore che lo stronca nel 1870.

Elizabeth Gaskell (1810 - 1865)
Amica di Charles Dickens, pubblicò numerosi racconti e romanzi tra i quali Mary Barton nel 1848, Ruth e Cranford nel 1853, serie di racconti pubblicati in origine sulla rivista "Household Words". Ambientate nella cittadina di provincia di Cranford, le storie descrivono una serie di donne, in gran parte nubili, e i loro sforzi per conservare, pur con poco denaro, le apparenze dell'eleganza e del garbo borghese. Ottima è la biografia di Charlotte Brontë (1857), sua amica.
Cousin Phillis apparve a puntate sul Cornhill Magazine a partire dal 1863. Il suo romanzo più famoso è Nord e Sud, recentemente pubblicato in versione italiana dalla casa editrice Jo March. 

Wilkie Collins (1824 – 1889)
Scrittore inglese, amico e collaboratore di Charles Dickens.
La sua produzione letteraria, e in particolare quella fantastica, è di assoluto rilievo, ma non vi è dubbio che a tutt'oggi sia maggiormente conosciuto dal grande pubblico per i romanzi gialli La donna in bianco, La Pietra di Luna, La legge e la signora e La follia dei Monkton. Questo senza nulla togliere ai molti altri romanzi e ai numerosissimi racconti da lui scritti. G.K. Chesterton ebbe una volta modo di scrivere relativamente a Dickens e Collins: "Erano due uomini che nessuno può superare nello scrivere storie di fantasmi".



Adelaide Anne Procter (1825 – 1864)
Poetessa e filantropa britannica. Si è battuta in favore delle donne disoccupate e senza fissa dimora, ed è stata attivamente coinvolta in associazioni e riviste femministe. Non si è mai sposata (cosa che ha dato il via ad alcune speculazioni circa le sue inclinazioni sessuali). Ha sofferto di problemi di salute, forse a causa del suo lavoro di carità, ed è morta di tubercolosi all'età di 38 anni.
La carriera letteraria della Procter comincia da adolescente, le sue poesie sono state pubblicate principalmente sulla rivista Household Words di Charles Dickens e in seguito pubblicate in un libro. Il suo lavoro di carità e la sua conversione al cattolicesimo romano sembrano aver fortemente influenzato la sua poesia, che si occupa degli ultimi, dei senzatetto e della povertà. La Procter era la poetessa preferita della regina Vittoria. 


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