lunedì 24 marzo 2014

Recensione: Undici solitudini di Richard Yates



Undici solitudini, Richard Yates
Minimum Fax
257 pagine, 11 euro
Autore dal successo piuttosto altalenante in vita, solo dopo la sua morte Richard Yates sta raccogliendo il seguito che il suo talento avrebbe meritato. Esordiente nel 1961 con “Revolutionary Road”, il quale ottiene un buon riscontro critico, negli anni la sua carriera viene ostacolata – e non poco – da problemi personali e dalle scarse vendite dei suoi lavori. Nonostante ciò, essi vengono gradualmente rivalutati negli anni, riportando il loro autore e le loro storie dal forte contenuto autobiografico alla ribalta.
La produzione del nostro è formata sia da romanzi che da racconti. Proprio di una di queste raccolte parleremo oggi: “Undici solitudini”, pubblicata in Italia da Minimum Fax.

Il titolo del volume lascia poco spazio all'immaginazione sul possibile contenuto dei racconti: persone sole che cercano di reagire a situazioni stressanti o angosciose, nella maggior parte dei casi invano. Quello che non balza immediatamente all'occhio, però, e che invece emerge dalla lettura, è che la solitudine non colpisce soltanto i protagonisti, ma anche gli altri personaggi. È evidente ad esempio nel primo racconto, “Il dottor Geco”, che narra di un bambino che non riesce ad inserirsi nella sua nuova classe; ma la maestra che cerca in tutti i modi di aiutarlo non fa altro che peggiorare le cose, dando involontariamente manforte agli altri bambini. Emblematico anche l'ultimo racconto, “Costruttori”: è solo l'aspirante scrittore che svende la propria arte per pochi dollari, ma altrettanto lo è il tassista che gli ha commissionato racconti svenevoli su cui basare una fantomatica serie televisiva che non vedrà mai la luce.
Tuttavia questa è una costante che si ripete per tutta la raccolta: un'aura di pessimismo e di disfattismo che si ripercuote nelle vite mediocri dei personaggi. Per quanto il lettore possa simpatizzare per loro, sa che i loro sforzi finiranno con un nulla di fatto.

Sarebbe ridondante descrivere i singoli racconti, perché le ambientazioni e le tematiche tendono a ripetersi, essendo basate su esperienze reali di Yates, come la scuola, il sanatorio, il lavoro d'ufficio, il servizio militare. Tuttavia, anche se i luoghi sono ricorrenti, c'è sempre un cambio di prospettiva che ci fa scoprire un aspetto che nel precedente racconto non era stato esplorato. Ad esempio, troviamo due racconti ambientati nel sanatorio, “Nessun dolore” e “Abbasso il vecchio”. Nel primo la vicenda è narrata dal punto di vista della moglie di uno dei malati che, oltretutto, ha una relazione extraconiugale che la rende oggetto di compatimento da parte dei conoscenti e la fa sentire in colpa nei confronti del marito malato. Nel secondo la storia si incentra in particolare su due pazienti che non potrebbero essere più diversi tra loro: l'uno estroverso ed infantile, l'altro riservato e angosciato per la sua situazione familiare. Tuttavia, in questo contesto così precario, i due riescono a trovare un punto di contatto e andare al di là delle apparenze. Mettendo a confronto le due storie, sembra quasi che il vero protagonista sia il sanatorio, i cui diversi aspetti vengono messi in risalto con la cura e la scrupolosità di chi, proprio come Yates, ha realmente soggiornato in quel luogo.
Lo stesso discorso si può fare per l'ambientazione scolastica: nel sopraccitato “Dottor Geco” il protagonista era un bambino, mentre ne “Il regalo della maestra” i riflettori si puntano sull'insegnante; i suoi alunni non possono fare altro che assistere impotenti alle sue paradossali dimostrazioni di ordine e dedizione alla causa.
In linea generale, perciò, l'introspezione psicologica nei vari racconti appare piuttosto curata: i personaggi sono sfaccettati e realistici, e non prestano il fianco ad eccessive idealizzazioni. Le vicende che li vedono protagonisti, e le loro reazioni, sono assolutamente credibili, portandoci così quasi a soprassedere su alcune ingenuità stilistiche e narrative che, come in ogni opera d'esordio – i racconti sono stati infatti scritti prima della pubblicazione di “Revolutionary Road” - non mancano.

Lo stile di Richard Yates è, a dire il vero, il tallone di Achille di “Undici solitudini”. Il punto di vista, infatti, è spesso un generico narratore onnisciente, che assume la prospettiva di questo o quel personaggio secondo necessità, o un io narrante che, in realtà, non ha una propria voce caratteristica e riconoscibile (come in “Jody ha il coltello dalla parte del manico”). In un caso, addirittura, il narratore non interviene nemmeno attivamente nella storia, ed è solo uno spettatore passivo (“Contro i pescecani”). Si fa fatica a vedere la mano dell'autore, che non sembra possedere particolari vezzi stilistici. In questa atmosfera sobria, il lettore non ha intermediari tra sé e la storia: un limite e, al tempo stesso, un vantaggio, perché non ci sono distrazioni.

Nonostante l'inesperienza dell'autore, “Undici solitudini” è una raccolta piuttosto matura, i cui racconti sono omogenei per qualità e contenuti. Forse troppo, perché non è difficile notare una certa ripetitività nella struttura e nelle situazioni. Questo, però, non annulla i grandi pregi di questo volume: l'autenticità e l'immediatezza, che lo rendono godibile e ci trasmettono, senza filtri, le potenzialità di Richard Yates.


Voto: 




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