Undici solitudini, Richard Yates Minimum Fax 257 pagine, 11 euro |
Autore dal successo piuttosto
altalenante in vita, solo dopo la sua morte Richard Yates sta
raccogliendo il seguito che il suo talento avrebbe meritato.
Esordiente nel 1961 con “Revolutionary Road”, il quale
ottiene un buon riscontro critico, negli anni la sua carriera viene
ostacolata – e non poco – da problemi personali e dalle scarse
vendite dei suoi lavori. Nonostante ciò, essi vengono gradualmente
rivalutati negli anni, riportando il loro autore e le loro storie dal
forte contenuto autobiografico alla ribalta.
La produzione del nostro è
formata sia da romanzi che da racconti. Proprio di una di queste
raccolte parleremo oggi: “Undici solitudini”, pubblicata
in Italia da Minimum Fax.
Il titolo del volume lascia poco
spazio all'immaginazione sul possibile contenuto dei racconti:
persone sole che cercano di reagire a situazioni stressanti o
angosciose, nella maggior parte dei casi invano. Quello che non
balza immediatamente all'occhio, però, e che invece emerge dalla
lettura, è che la solitudine non colpisce soltanto i protagonisti,
ma anche gli altri personaggi. È evidente ad esempio nel primo
racconto, “Il dottor Geco”, che narra di un bambino che
non riesce ad inserirsi nella sua nuova classe; ma la maestra che
cerca in tutti i modi di aiutarlo non fa altro che peggiorare le
cose, dando involontariamente manforte agli altri bambini.
Emblematico anche l'ultimo racconto, “Costruttori”: è
solo l'aspirante scrittore che svende la propria arte per pochi
dollari, ma altrettanto lo è il tassista che gli ha commissionato
racconti svenevoli su cui basare una fantomatica serie televisiva che
non vedrà mai la luce.
Tuttavia questa è una costante
che si ripete per tutta la raccolta: un'aura di pessimismo e di
disfattismo che si ripercuote nelle vite mediocri dei personaggi. Per
quanto il lettore possa simpatizzare per loro, sa che i loro sforzi
finiranno con un nulla di fatto.
Sarebbe ridondante descrivere i
singoli racconti, perché le ambientazioni e le tematiche tendono a
ripetersi, essendo basate su esperienze reali di Yates, come
la scuola, il sanatorio, il lavoro d'ufficio, il servizio militare.
Tuttavia, anche se i luoghi sono ricorrenti, c'è sempre un cambio
di prospettiva che ci fa scoprire un aspetto che nel precedente
racconto non era stato esplorato. Ad esempio, troviamo due racconti
ambientati nel sanatorio, “Nessun dolore” e “Abbasso il
vecchio”. Nel primo la vicenda è narrata dal punto di vista
della moglie di uno dei malati che, oltretutto, ha una relazione
extraconiugale che la rende oggetto di compatimento da parte dei
conoscenti e la fa sentire in colpa nei confronti del marito malato.
Nel secondo la storia si incentra in particolare su due pazienti che
non potrebbero essere più diversi tra loro: l'uno estroverso ed
infantile, l'altro riservato e angosciato per la sua situazione
familiare. Tuttavia, in questo contesto così precario, i due
riescono a trovare un punto di contatto e andare al di là delle
apparenze. Mettendo a confronto le due storie, sembra quasi che il
vero protagonista sia il sanatorio, i cui diversi aspetti vengono
messi in risalto con la cura e la scrupolosità di chi, proprio come
Yates, ha realmente soggiornato in quel luogo.
Lo stesso discorso si può fare
per l'ambientazione scolastica: nel sopraccitato “Dottor Geco” il
protagonista era un bambino, mentre ne “Il regalo della maestra”
i riflettori si puntano sull'insegnante; i suoi alunni non possono
fare altro che assistere impotenti alle sue paradossali dimostrazioni
di ordine e dedizione alla causa.
In linea generale, perciò,
l'introspezione psicologica nei vari racconti appare piuttosto
curata: i personaggi sono sfaccettati e realistici, e non prestano il
fianco ad eccessive idealizzazioni. Le vicende che li vedono
protagonisti, e le loro reazioni, sono assolutamente credibili,
portandoci così quasi a soprassedere su alcune ingenuità
stilistiche e narrative che, come in ogni opera d'esordio – i
racconti sono stati infatti scritti prima della pubblicazione di
“Revolutionary Road” - non mancano.
Lo stile di Richard Yates è,
a dire il vero, il tallone di Achille di “Undici solitudini”. Il
punto di vista, infatti, è spesso un generico narratore onnisciente,
che assume la prospettiva di questo o quel personaggio secondo
necessità, o un io narrante che, in realtà, non ha una propria voce
caratteristica e riconoscibile (come in “Jody ha il
coltello dalla parte del manico”).
In un caso, addirittura, il narratore non interviene nemmeno
attivamente nella storia, ed è solo uno spettatore passivo (“Contro
i pescecani”). Si fa fatica a
vedere la mano dell'autore, che non sembra possedere particolari
vezzi stilistici. In questa atmosfera sobria, il lettore non ha
intermediari tra sé e la storia: un limite e, al tempo stesso, un
vantaggio, perché non ci sono distrazioni.
Nonostante
l'inesperienza dell'autore, “Undici solitudini” è una raccolta
piuttosto matura, i cui racconti sono omogenei per qualità e
contenuti. Forse troppo, perché non è difficile notare una certa
ripetitività nella struttura e nelle situazioni. Questo, però, non
annulla i grandi pregi di questo volume: l'autenticità e
l'immediatezza, che lo rendono
godibile e ci trasmettono, senza filtri, le potenzialità di Richard
Yates.
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