Le ragazze rubate, Jennifer Clement
Guanda
16.50 euro, 266 pagine
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«In Messico, la cosa migliore che può capitarti è essere brutta»: con questa frase, stringata e incisiva, un articolo introduceva il romanzo di Jennifer Clement, americana di nascita ma messicana d'adozione (vive a Città del Messico).
Le ragazza rubate narra infatti la storia di cruda e ordinaria violenza di un gruppo di donne di un paese dell’America centrale; una vicenda inventata, ma così verosimile da lasciare l’impressione che la giovanissima protagonista, Ladydi, sia una persona vera e non un personaggio fittizio.
Ladydi vive con la madre in una piccola comunità montana nello stato di Guerrero, una terra rovente, avara, popolata da creature invadenti e pericolose come le formiche rosse e i micidiali scorpioni bianchi; bruciata da un sole implacabile così come dai diserbanti utilizzati per proteggere le coltivazioni, ma che non fanno altro che avvelenare la terra e gli esseri viventi che la abitano. Ma c'è un altro elemento che colpisce nel paese di Ladydi: la quasi totale assenza di figure maschili. Gli uomini sono descritti come personaggi di passaggio che, lasciandosi alle spalle la famiglia, partono per “fare fortuna” oltre il confine, ricostruendosi una vita.
Le donne che li hanno amati e le figlie cui hanno dato la vita rimangono così in balìa del proprio destino, alla mercé di qualunque orco voglia approfittarsi di loro. Per questo essere brutte, nello stato di Guerrero, è una grande fortuna: perché riduce le probabilità di essere rapite mentre si torna da scuola, o prelevate dalla propria casa.
Jennifer Clement affronta dunque il problema endemico della violenza sulle bambine – e in generale sulle donne – negli Stati più poveri del Messico. I numeri sono impressionanti: secondo lo studio intitolato Ordinanze sulla protezione in Messico: donne vittime di violenza e assenza di accesso alla giustizia, realizzato tra il gennaio 2011 e il giugno 2012, circa cinquantottomila donne hanno denunciato le violenze subite alle forze dell’ordine, ma solo il 7% di loro ha beneficiato di una tutela. Le autorità – la cui capacità di azione in un Paese dominato dalle bande di narcotrafficanti – non sembrano ancora sapere come gestire questa crisi.
Nonostante la drammaticità dello spunto, il romanzo riesce nell’impresa di mantenere una certa levità. Ladydi, l’io narrante, descrive con toni disincantati le brutture del suo mondo, prendendone in qualche modo le distanze e rendendo al contempo la lettura fluida e coinvolgente. Nessuna disturbante descrizione di stupri, nessuna scena adrenalinica di scontri a fuoco: anche quando il tema della morte viene introdotto – cosa inevitabile in un simile contesto –, non c’è nulla di morboso. Persino nel momento in cui la protagonista ventenne viene accusata di un orrendo delitto e la sua vita rischia di essere compromessa per sempre, si scorge un infantile barlume di speranza, che è probabilmente l'aspetto migliore dell’opera.
Interessante è anche la postfazione, in cui la scrittrice parla della genesi del libro e ci aggiorna sull’odierna situazione in Messico, accendendo ancora una volta i riflettori – ci avevano già pensato il cinema con il film Bordertown del 2006, che narrava la storia delle centinaia di operaie assassinate a Ciudad Juarez, e la tv con la serie The Bridge, con Diane Krueger – su una storia di violenza cui è difficile porre fine, ma che merita di essere raccontata, impendendole così di svanire nell’oblio.
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