mercoledì 15 ottobre 2014

Recensione film: "Grandi Speranze" di Mike Newell

L'adattamento di un romanzo come Grandi speranze, vasto sia per numero di pagine che per varietà di tematiche, pone una scelta precisa a chi decida di portarlo sul grande schermo: ci si domanda infatti se sia meglio dare la precedenza all'introspezione violentemente emotiva dei personaggi o al susseguirsi tumultuoso di fatti e vicende. E se nel 1946 David Lean ha optato per un ottimo connubio dei due elementi, nel 2012 il regista inglese Mike Newell, che ha studiato a Cambridge proprio letteratura inglese, ha preferito una realizzazione basata su una fotografia pressoché perfetta e su una recitazione convincente ma cinematografica, lontana da quella più sottile e di impostazione teatrale di John Mills (Pip nel film del 1946). Ne nasce un grande film in costume dai risvolti romantici che, partendo dal suo illustre predecessore, cerca di raccontare più o meno esplicitamente tutto quello che il film di David Lean non aveva voluto o potuto precisare.
La prima cosa che salta agli occhi fin dai primi minuti è il forte cromatismo della pellicola, ambientata per lo più nel Kent: lo spettatore viene abbagliato da un verde brughiera molto luminoso, lontanissimo dal bianco e nero del primo film, ricco di sfumature ma cupo e dal sapore gotico. I fotogrammi sembrano addirittura quasi colorati in un secondo tempo, proprio come accadeva nell'ambito dell'espressionismo tedesco. Ogni tonalità scelta ha un valore se vogliamo simbolico: sia l'illuminazione serena che l'utilizzo di colori così brillanti riflettono la caratteristica di "paradiso terrestre" propria del villaggio natale del protagonista. Nel viaggio verso Londra invece cambia tutto: le sfumature luminose e solari spariscono, il verde pian piano sbiadisce e viene sostituito da colori più cupi, mentre la luce non è più quella diretta del sole ma proviene sia negli interni che negli esterni da lampade a olio che disegnano ombre inquietanti sulle strade e sui visi dei personaggi. La città appare fin dai primi attimi molto più realistica rispetto a quella che nell'altro film è probabilmente una ricostruzione in studio: nella versione di David Lean non vi è un rapporto così stretto con il cambiamento spirituale del protagonista e Londra mantiene spesso un ruolo di semplice ambientazione. Nel film del 2012 invece, grazie anche al colore e alle nuove tecnologie, Pip interamente vestito di un bianco luminoso scende dalla carrozza, l'inquadratura si sposta sul suo piede che trova all'appoggio un terreno sporco di sangue e fango. Veniamo proiettati in una sorta di mercato rumoroso dove, tra polli e animali macellati, il nostro eroe viene urtato da un passante e comincia la lenta e dolorosa discesa nella perdizione morale e spirituale causata dalle sue grandi speranze. Pip arriva in città vestito di bianco, simbolo di grande purezza, e del tutto impreparato a quello che lo aspetta, ma si sporca velocemente e cambia in rapporto a Londra; i suoi abiti si fanno scuri, i capelli corti e lo sguardo via via più consapevole.
L'atmosfera generale del film non è per nulla inquietante: ricorda forse più quella delle grandi saghe familiari, molto lontana dall'ambientazione quasi gotica e favolistica che aveva l'inizio del primo film. La poca inquietudine che scaturisce dalle scene è ricreata in minima parte dalle parole e dagli sguardi dei personaggi, ma soprattutto dalle inquadrature e da alcuni colori cupi. Satis House viene spesso ripresa dal basso verso l'alto, provocando nello spettatore un senso di vertigine e angoscia. Il romanticismo pervade spesso la scena e poco è lasciato all'immaginazione, tutto è dichiarato e concreto e non più solo delicatamente accennato: Biddy, che in questa versione è coetanea di Pip, lo bacia per dichiarargli il suo amore, e a sua volta Pip bacia Estella al suo secondo addio a Satis House. Dà invece un tocco sognante e alternativo al film il flashback del mancato matrimonio di Miss Havisham: qui l'immagine si fa sfocata e onirica, propria di quella dimensione che ricorda il passato o il sogno. La scena di per sé è molto evocativa e lo spettatore ne rimane affascinato. Questa è una scelta stilistica impossibile per gli anni '40, periodo in cui il classicismo hollywoodiano dettava legge e moda e prevedeva inquadrature frontali, verosimiglianza e concatenazione precisa di cause ed effetti, senza ellissi o improvvisi sbalzi temporali.
Gli attori scelti dal regista sono tutti all'altezza e danno un'ottima prova di recitazione, a partire da un Pip eccessivamente romantico, che cambia in modo concreto ma forse troppo velocemente. Personalmente ho preferito le interpretazioni del film di David Lean: le ho trovate più naturali e il loro spirito più simile a quello dei personaggi del romanzo; dove Dickens suggerisce e lascia intravedere con classe, Newell invece calca e sottolinea. Basta dare un'occhiata alla Miss Havisham interpretata da Helena Bonham Carter che rischia di cadere a tratti nel grottesco, soprattutto se la ascoltiamo con il doppiaggio italiano, che non le rende affatto giustizia. La signora di Satis House che tutti conosciamo e che emerge sia dalle illustrazioni che dal film di David Lean è una donna evanescente, fragile, quasi un fantasma tornato sulla terra per infestare l'antica dimora che l'ha vista soffrire. In questo film invece è molto concreta e materica, ha perso tutta la sua argentea trasparenza e ha conservato una follia che un tempo filtrava leggermente dalle pieghe del suo velo da sposa ma che ora appare troppo calcata e perde ogni commiserazione e comprensione da parte di chi la guarda. Miss Havisham sembra inoltre troppo giovane. E' vero che nel romanzo è una donna di quasi mezz'età ma la sofferenza e la permanenza costante in casa l'hanno fatta invecchiare prima del tempo: questo non è tenuto affatto in considerazione. Ho trovato invece il rapporto con Estella ben realizzato: capiamo come la donna volesse inizialmente fare un buon lavoro con la bambina adottata ma che poi, vuoi per la sofferenza o per la follia degli anni, i suoi insegnamenti le abbiano portato via il cuore per sempre.

Anche in questa versione di Grandi speranze la sorella di Pip muore ben presto di una malattia cardiaca. Non viene nominato invece l'aiuto fabbro Orlick, vero e proprio contro altare del protagonista: un personaggio che, ben strutturato e plasmato, darebbe un risvolto ancor più introspettivo e vario a Pip. Per contro è presente l'immancabile Mr. Pumblechook, personaggio divertente ma ben lontano dall'essere unico portavoce dell'ironia arguta di Dickens, qualità che pervade tutto il romanzo e lo eleva stilisticamente. Il personaggio di Estella è abbastanza fedele allo spirito del romanzo. Il tentennare del suo cuore si nota però troppo chiaramente in alcune scene. Gli occhi della ragazza sembrano inoltre amare Pip: questo probabilmente avveniva solo nel suo inconscio, ma mai così in superficie da poter essere letto da una macchina da presa. Quello che lega inizialmente i due personaggi è amicizia e comprensione, il sentirsi entrambi marionette nelle mani di Miss Havisham e della società, ma non amore. Il forzato Magwitch, interpretato da Ralph Fiennes, è forse leggermente troppo giovane, e avrebbe potuto essere sicuramente più introspettivo. La scena della sua morte nel film del 1946 era toccante e intensa, qui decisamente meno, a parte forse il sapiente uso del chiaro scuro che con un gioco di luce dipinge sul viso dell'uomo morente il tormento e la pace dei suoi ultimi attimi.
Per quanto riguarda la trama non abbiamo grandi cambiamenti, a parte l'assenza di Orlick e la morte prematura della sorella di Pip. L'unica scelta "coraggiosa" è forse proporre un epilogo in linea con uno dei due finali originali del romanzo, per intenderci quello in cui Estella non si è risposata dopo la morte di Drummle. Anche qui però i sentimenti tra i due sembrano amplificati: Pip dichiara nuovamente di amare la ragazza e un rapporto che vada oltre l'amicizia appare di nuovo possibile.


Anche se Estella è ora in grado di capire i sentimenti del protagonista ed esserne felice, nel romanzo di Dickens non è previsto un lieto fine per i due personaggi: sono stati infatti corrotti dalla società, chi dagli insegnamenti sbagliati di una donna malata, chi dalle sue grandi speranze. È in ogni caso un epilogo molto più fedele al libro rispetto al finale romantico e positivo del 1946: nel film di David Lean infatti Pip salvava Estella da una Satis House in rovina strappando le tende e lasciando entrare il sole come in un incantesimo.

In conclusione l'adattamento di Grandi speranze diretto da Mike Newell è un film visivamente molto bello, dal ritmo incessante, senza tempi morti e pause narrative. È una versione più moderna, aggiornata e anche amplificata del film di David Lean ma soprattutto del capolavoro di Charles Dickens. Nel tentativo di attualizzare e trasporre visivamente la portata dei temi e delle interpretazioni sotterranee di Grandi Speranze, il regista ha però forse finito per allontanarsi almeno in parte da quello che era lo spirito originale dell'opera, dotata di una sottile ironia e di un preciso schema morale. Non dobbiamo infatti dimenticare che Grandi Speranze è soprattutto un romanzo di formazione che segue il passaggio del protagonista Pip dalla fanciullezza all'età adulta e ha per questo un significato di fondo che va ben oltre la semplice storia d'amore.


2 commenti:

  1. A me non è piaciuto granché sinceramente, Dickens è uno dei miei autori preferiti e mi è piaciuto di più il libro, nonostante non rientri tra i miei preferiti dell'autore. ^^

    RispondiElimina
  2. Il libro è senza ombra di dubbio più bello. Tra i due film di cui abbiamo parlato ho preferito quello del '46 :-)

    RispondiElimina

Grazie per aver condiviso la tua opinione!

LinkWithin

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...