Per il quarto anno consecutivo, l'Italia registra una flessione del numero dei lettori. Si tratta di percentuali inferiori al 43% rilevato lo scorso anno, grazie alla quale ci posizioniamo secondi in Europa, dopo la Grecia, per “analfabetismo culturale”. Definisco infatti la crisi dell'editoria nient'altro che questo: il totale disinteresse per l'ambito culturale in tutte le sue forme. Libri, teatro e arte, canali tradizionali dell'espressione culturale, si avviano verso un inesorabile declino, e la cultura trova nuovi sbocchi sostanziali. E quindi, se gli italiani sembrano voler reprimere i settori sopracitati, solo uno di questi sfugge alla mannaia implacabile del loro giudizio: le serie tv, che meritatamente possono rientrare nella definizione di “cultura” intesa nella sua eccezione più estesa.
La sottoscritta fa fatica ad inquadrare le fiction nell'ambito strettamente culturale – un po' come mettere il David di Michelangelo e Game of Thrones nello stesso contenitore – ma è inutile negare che le serie tv siano ormai l'espressione più significativa dei nostri tempi, "ree" - lo dico ironicamente - di star lasciando morire tutte quelle su cui, nei secoli, si è costruito il mondo occidentale.
E non solo loro: videogiochi dagli elevati livelli per contenuti e grafica, altamente partecipativi e coinvolgenti, invogliano a stare davanti allo schermo più che a un noioso libro. Ma anche nel campo dei videogames è stato registrato un calo di titoli significativi, spesso accompagnato da un innalzamento della facile giocabilità: meno il gioco è difficile, più sarà popolare. Ed è nell'accessibilità, a mio avviso, la chiave di volta della sostituzione del prodotto-libro al prodotto-serie tv.
Parlare di sostituzione è, ovviamente, precoce. I dati sulla lettura sono parziali e non indicano quale, in realtà, sia stata la destinazione del tempo di quegli ex lettori scomparsi dalle percentuali. Probabilmente lettori deboli che, se prima leggiucchiavano, adesso hanno totalmente smesso, avendo trovato un modo migliore di impiegare il tempo: social network? Format televisivi? Serie tv?
Il modo in cui gli italiani impiegano il tempo libero, mi dicono, è marginale. Ognuno preferisce fare una cosa diversa dall'altro, con motivazioni ogni volta differenti. E invece io penso che lo studio del tempo libero dei nostri connazionali sia un elemento di vitale importanza per carpirne la forma mentis. Per capire quale sarà la società di domani, una società, sono totalmente convinta, che sarà priva di romanzi, priva di arte grafica, priva di opera, ma ricca di serie tv. La domanda è: cosa cambia in una società che ha trovato la sua espressione preferenziale nella serie tv – espressione che raggiunge livelli molto alti, ma che sostituisce l'immagine al logos, su cui abbiamo costruito più di duemila anni di storia?
Cambierà l'utilizzo della lingua, sempre più improntata sulla dialogicità e sui termini di uso comune. A questo proposito, non va sottovalutata la letterarietà di alcune serie tv – faccio un esempio: Criminal Minds tende a proporre aforismi colti di grandi scrittori o pensatori – e i livelli complessi di lettura che solo un background culturale approfondito riesce a cogliere in pieno.
Accessibilità, quindi, solo nella forma, ma non sempre nei contenuti: eppure la forma – l'immagine e il video, anziché la partecipazione impegnata nella decodificazione del linguaggio richiesta dai libri – è sufficiente per soppiantare – parlo sempre in termini apocalittici – una millenaria cultura basata sulla parola scritta, che comunque è più giovane di quella orale, a cui sembra vogliamo tornare.
A chi attribuire il merito (o il demerito) di questo cambiamento?
La risposta sembra scontata: le nuove tecnologie, improntate sulla velocità, richiedono tempi veloci, contenuti multimediali, slogan brevi e d'effetto, molte immagini, poche parole, poca libertà di opinione – i famosi 160 caratteri di Twitter – e gli stessi blog, prima frequentatissimi, hanno ora lasciato spazio a Facebook, dove l'interazione è più immediata.
La seconda motivazione potrebbe dipendere da un fattore ancestrale: l'intrattenimento. Abbiamo innata la ricerca dello storytelling, attraverso cui si dovrebbero veicolare messaggi importanti e spunto di riflessioni. È questo che fanno alcune serie tv, ed è questo che è successo, nel campo dei libri, fino a pochi decenni fa, prima che la sopraffazione dell'intrattenimento - che questa volta fa riferimento a quello becero, goliardico e poco intelligente - avesse la meglio. Prima che l'editoria rinunciasse a educare il lettore e a saziarlo di contenuti vacui e prima che si formasse quello che Giancarlo Ferretti definisce “l'apparato”: la marcata divisione e la progressiva prevalenza dei dirigenti-manager e del marketing sui letterati-editori. I libri hanno smesso di sembrare tali e hanno cominciato a somigliare a telefilm di quart'ordine. Nonostante i prodotti mediocri siano sempre esistiti, la differenza sta nel fatto che sono diventati prerogativa dell'editoria al fine di allargare una fetta di pubblico che adesso, per la sua indifferenza, sta facendo affondare tutto il settore. Un lettore diseducato, o educato solo alla mediocrità, difficilmente pretende di meglio e rinuncia, altrettanto facilmente, a un passatempo che può sostituire con qualcosa di più semplice.
Giangiacomo Feltrinelli diceva che “il grado di civiltà del nostro paese dipenderà anche, e in larga misura, da cosa, anche nel campo della letteratura di consumo, gli italiani avranno letto”. La letteratura di consumo offerta dall'editoria ha creato una società indifferente al libro.
In questo senso, le serie tv potrebbero addirittura salvare la letteratura. Trasposta in un canale più immediato, mantenendo quasi le stesse prerogative del romanzo – riflessione su tematiche etiche e sociali, intrattenimento intelligente – la letteratura sopravviverebbe in un'altra forma, una forma che il mercato librario non può più garantire.
Con buona pace dei nostri volumi polverosi, degli ebook, e dello spazio lasciato all'immaginazione.
Articolo interessantissimo. Oddio, a me non piace pensare in modo così catastrofico che l'editoria abbia creato una società indifferente al libro, mentre mi trovo pienamente d'accordo sul fatto che le nuove tecnologie impongano la velocità e l'immediatezza che un libro non può dare, ma che invece può un telefilm. Cerco però di essere ottimista, e spero (e spero e spero e spero) che ci sia un'inversione di tendenza e si ritorni a cercare buoni libri, con buoni contenuti. Magari è una speranza vana, ma non posso pensare alla tristezza di un mondo senza libri.
RispondiEliminaCiao! :) il mio discorso è molto largo e macroscopico, e va interpretato su un lungo intervallo temporale. Io so che c'è un pubblico di lettori che si va sempre più restringendo, un'editoria che punta sul lettore occasionale, a sua volta indifferente al libro. Il lettore critico punta sempre più sulle serie tv, e allora cosa accadrà un giorno, dal momento che stanno cambiando i linguaggi? Ovviamente nessuno auspica la morte del romanzo, ma secondo me è importante interrogarsi su queste cose e cercare di rimediare, finché siamo in tempo
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