martedì 28 ottobre 2014

Recensione: I pericoli di Sherlock Holmes di Loren D. Estleman




I pericoli di Sherlock Holmes, L. D. Estleman
Gargoyle Books
208 pagine, 16.00 euro
I pericoli di Sherlock Holmes è un corpus costituito da sette racconti apocrifi dedicato al mitico investigatore privato, integrato con tre saggi di approfondimento e una simpatica commedia in un solo atto che vede protagonisti il Dr Watson e sua moglie.
Come recita il titolo, la raccolta vede il più famoso investigatore privato alle prese con una serie di “pericoli” che lo porteranno, tra le altre cose, a imbattersi con spettri di dickensiana memoria e figure letterarie come il diabolico Fu Manchu; a varcare i confini della fumosa Londra per sconfinare nelle terre del West americano e ad addentrarsi in quell'antro oscuro e insondabile che è la follia, sempre nell’intento di risolvere enigmi apparentemente insolubili. L’Holmes di Estleman riveste perfettamente i panni dell’infallibile segugio e risolve ogni caso brillantemente.

Tutti i racconti tranne L’uovo del serpente, che viene pubblicato qui per la prima volta e che è una vicenda incompleta, sono apparsi in lingua originale in altre antologie. Nel racconto che apre la raccolta, L’avventura del cavaliere arabo, Holmes, coadiuvato dall’immancabile Dr Watson, rivela le sue eccellenti doti di osservatore e fa sfoggio delle sue ampie conoscenze mentre è impegnato a recuperare un importante documento egizio. I tre fantasmi di cui si parla nel secondo racconto, invece, tormentano il sonno di un nobile banchiere londinese la cui vita è in pericolo: un simpatico divertissement che rispolvera il “Canto di Natale” di Charles Dickens. Il terzo racconto (che è il mio preferito) vede Holmes alle prese con un’antica ciotola cinese consegnatogli da un cliente molto particolare, lo scrittore britannico Sax Rohmer, famoso per la serie di racconti incentrati sul criminale asiatico Fu Manchu. In L’avventura del dono più grande, un cilindro fonografico apparentemente innocuo scuote l’intelligenza dell’investigatore, che verrà messa a dura prova durante un importante ricevimento di gala. Ma Holmes non si lascia spaventare da nulla, nemmeno dal diavolo che pare essersi impossessato di un “ospite” dell’ospedale San Porfirio.

In tutti i racconti la penna di Estleman riesce ad offrirci avventure tipicamente sherlockiane. Inizio e fine sono ben delineati. Ogni racconto ha la sua ambientazione, ben curata e definita: lo spazio qui non solo  fa da ambientazione, ma serve anche da sfondo agli stati d’animo di Sherlock. Particolare attenzione viene rivolta al gioco di sguardi e gesti tra i personaggi, e il passaggio da una scena all’altra scorre sinuoso. Immancabili i riferimenti ai casi precedenti.

L’ultimo racconto, L’uovo del serpente, è in realtà il primo capitolo di un progetto ambizioso, un romanzo a più mani, che prevedeva la partecipazione di Isaac Asimov e Ruth Rendell ma che – purtroppo – non ha visto la luce e rimane quindi un mistero insoluto. Holmes ha a che fare con un uomo che dice di essere perseguitato da una maledizione druida. In poche pagine Estleman, ideatore del progetto, riesce a catturare l’attenzione del lettore e ad accompagnarlo senza noia in una nuova avventura sherlockiana e solleticandone l' immaginazione fin dal titolo. Spero di poter leggere in futuro il romanzo perché l’inizio è indiscutibilmente “appetitoso”.

Definirei la raccolta una sorta di ritorno alla memoria delle atmosfere familiari, dal mitico appartamento al 221B di Baker Street alle vie della fumosa Londra, dalla vestaglia grigio topo di Sherlock all’inconfondibile voce del suo narratore e compagno di avventure, il Dr. Watson.

L’autore,  grande appassionato di Conan Doyle e membro della società holmesiana “Gli irregolari di Baker Street”, ha già scritto due romanzi in cui contrappone Sherlock Holmes a due figure letterarie leggendarie, il Conte Dracula e il Dottor Jekyll. Senza entrare nel campo minato dei confronti tra apocrifi di Holmes, il Sherlock Holmes che ho trovato nelle pagine di Estleman è quello di sempre: il lettore troverà una coppia in forma smagliante. Le avventure sono divertenti, alcune più ingegnose di altre, di certo non tra le più geniali, ma dal sapore autentico. A fine lettura, però, non ci si sente completamente appagati: la colpa è forse da imputare al racconto incompleto dell’uovo di serpente il cui inizio è intrigante e stuzzica la nostra curiosità. 
Ma i tre saggi e l’elenco di Letture consigliate che completano la raccolta vanno a colmare questa lacuna, suggerendoci un modo per conoscere meglio il vasto mondo sherlockiano. 

Il primo saggio in apertura è un’occasione per l’autore di presentarsi e di raccontare come è nata la sua passione per Sherlock Holmes. Il secondo gira attorno alla rappresentazione cinematografica di Watson, un personaggio un po’ scomodo sul grande schermo, ma un eccellente narratore sulla carta e una presenza imprescindibile per lo stesso Holmes che, in “Uno scandalo in Boemia”, aveva ammesso di sentirsi perduto senza di lui (“I am lost without my Boswell”). 

Il terzo saggio infine si sofferma sull’Ombra. Tutti noi conosciamo Sherlock Holmes e il suo inseparabile amico, confidente e biografo, e molti di noi, come del resto confessa lo stesso Estleman nel saggio di apertura, lo abbiamo visto nei film e nelle serie televisive, tuttavia non tutti conoscono l’opera letteraria di Doyle. Seguendo le indicazioni e i consigli che troverete nelle altre sezioni, avrete modo di fare la conoscenza del mitico segugio di Baker Street, e di approfondire l’opera di Sir Arthur Conan Doyle.
Ci vuole coraggio, ingegno e molta passione per imitare un grande scrittore che ha saputo creare un personaggio intramontabile. Auguriamoci che dalla penna di Estleman escano altre avventure e che il progetto de “L’uovo del serpente” possa concretarsi quanto prima.



A cura di Paola Buoso


Loren D. Estleman 
è nato nel 1952 ad Ann Arbor, nel Michigan. Ha pubblicato 60 libri e centinaia di racconti e articoli. Considerato una vera e propria autorità nella western-fiction e nella detective-story, ha collezionato 17 vittorie e decine di nomination nei più importanti premi “di genere”. Profondo conoscitore del Canone holmesiano, ha scritto gli apocrifi Sherlock Holmes contro Dracula e Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Holmes, e inoltre Hollywood Detective, tutti pubblicati da Gargoyle.
Il suo sito web è: www.lorenestleman.com

venerdì 24 ottobre 2014

Recensione: Phobia di Wulf Dorn e intervista all'autore



Phobia, Wulf Dorn
Corbaccio 
16,60 euro, 324 pagine
Prima di “Phobia”, non avevo mai letto nulla dello scrittore di thriller tedesco Wulf Dorn; avevo sentito parlare con toni entusiastici de “La Psichiatra”, la sua prima opera pubblicata in Italia e, incuriosita, mi ero ripromessa di leggerla; ma, come tanti buoni propositi, è finito nel dimenticatoio. La spinta a leggere “Phobia” è nata quando ho ricevuto l'invito a partecipare a un incontro con l'autore presso gli uffici della casa editrice Corbaccio, aperto ai blogger. Ovviamente non potevo partecipare senza avere la minima idea di che cosa trattasse il libro, quindi mi sono data da fare e l'ho “affrontato” con interesse e curiosità.

Come dice il titolo stesso, “Phobia” è la narrazione di una paura oscura, innata e comune a tanti di noi: quella di uno sconosciuto, emblema di una minaccia ignota, che si insinua come un morbo nella nostra vita. L'esistenza di una dei protagonisti della vicenda, Sarah Bridgewater, moglie e madre in crisi, persa nella rete delle sue paure, viene improvvisamente sconvolta quando una notte, invece del marito Stephen, si ritrova in casa un uomo che non aveva mai visto che si spaccia per lui, con indosso i suoi stessi vestiti e che pare conoscere tanti particolari della loro vita a due. Sarah è ovviamente terrorizzata: chi è quest'uomo? Perché ha deciso di tormentare proprio la loro famiglia? Che fine ha fatto Stephen? È ancora vivo? La vicenda si fa ancora più intricata perché Sarah non viene creduta dalla polizia, che sembra considerarla una donna un po' fragile di nervi con un marito che volontariamente ha deciso di allontanarsi. Ad aiutare Sarah ci pensa Mark Behrendt, un vecchio amico di infanzia, ritornato a Londra dopo un periodo in Germania (Mark è per metà tedesco e svolgeva lì la professione di psichiatra) su invito postumo di un vecchio professore universitario, George Otis, un uomo spezzato a sua volta per via della tragica morte della fidanzata investita da un pirata della strada, ma forse non per puro caso...

Sarah e Mark sono due anime affini, perché legate da una grande amicizia e a loro volta ingabbiate nelle proprie paure, che si uniscono per scovare la verità. A tenere salde le redini della vicenda sembra proprio lo Sconosciuto, quest'uomo ignoto, sfigurato e malato, uno psicopatico che ha deciso di mettere in atto una sorta di percorso di redenzione e giustizia: redenzione per Sarah, che vuole aiutare a uscire dal suo confino mentale; giustizia verso una vita che non va come dovrebbe e verso una persona, Stephen, che forse ha qualche cosa da nascondere. Sarah e Mark diventano quindi una sorta di coppia investigativa, pronti a scandagliare ogni singolo indizio e a scavare nel passato, nel tentativo non solo di trovare sì il marito scomparso, ma anche di capire perché la famiglia Bridgewater sia diventata la vittima di quello che appare un gioco crudele.

Si potrebbe dire che “Phobia” sia una vicenda che si gioca tra i contrasti: vita e finzione, paura e coraggio, passato e presente, apparenza e profondità, con lo Sconosciuto come giudice auto-proclamato, implacabile come una sentenza del destino. Questo personaggio nasconde un terribile segreto, che, una volta dipanato, lo rende paradossalmente più umano e fa nascere nel lettore un sentimento ambiguo: se da una parte emerge tutta la sua mostruosità, dall'altro viene rivelata pure la sua vulnerabilità e il suo essere raccapricciante a causa di una tragedia che ne ha compromesso del tutto la sanità, sia fisica che mentale. Lo Sconosciuto, che in un certo punto del libro si fa chiamare Giobbe, non è banalmente malvagio, ma la sua malvagità è nata da un trauma.

“Phobia” è anche una storia che si sviluppa con innesti, punti di vista ed esistenze diverse che si irradiano verso l'alto, si intrecciano e si avviluppano, creando una solida impalcatura dove passato e presente sono uno a servizio dell'altro: il passato sostiene il presente, e il presente aiuta il passato a risolvere gli enigmi. Tanti rami che nascono da un tronco e aiutano a supportarlo: storie secondarie che si uniscono nel dramma che vive una famiglia alla ricerca del “perché”. Una ricerca interiore che va di pari passo con quella esterna, all'identità di questo Sconosciuto che resterà fatalmente ignota.
“Phobia” è un romanzo coinvolgente, non confinato al solo genere thriller, è un libro che non termina semplicemente con “THE END”, ma lascia alcune domande nel lettore e soprattutto induce a riflettere. Un ottimo prodotto per chi ama il filone, ma anche per chi vuole accostarsi a una vicenda che mozza il fiato per il succedersi degli eventi e che crea inquietudine intorno al personaggio intangibile ma sempre presente: la paura.
Concludo la mia recensione riportando alcune domande (con relativa risposta) emerse durante la partecipazione all'incontro con l'autore.

N.B. Non ho registrato le risposte, solo preso appunti: pertanto quello che segue è un “riassunto” di quanto espresso dall'autore, non la trascrizione parola per parola.


Interview with...

Wulf Dorn


D: Perché è stato scelto il tema della paura?
R: La decisione di scrivere sulla paura è stata ispirata da due fatti: il primo è il furto avvenuto in casa di alcuni amici, con la conseguente inquietudine di aver scoperto al mattino la prova tangibile (vestiti sparsi, disordine, ecc) della presenza in casa dei ladri, a cui è seguita la terribile domanda: “Che cosa sarebbe successo se mi fossi svegliato e loro fossero stati lì?”. Il secondo è legato alla sensazione di pericolo, esasperata soprattutto dagli attentati terroristici alla metropolitana di Londra, che ha cambiato le persone, ora divenute più diffidenti e pronte a guardarsi le spalle, ma non a conoscersi reciprocamente. Questi due fatti raccontano la storia su due livelli diversi, personale e globale.

D: Ci sarà una trasposizione cinematografica di “Phobia”? Le piacerebbe?
R: Dipende dalle società di produzione. Se questa trasposizione fosse fatta bene, mi piacerebbe. Si era parlato di trasformare “La psichiatra” in un film, ma ho rifiutato perché la storia era troppo diversa. Era rimasto solo il titolo!

D: Che regista vorrebbe per un ipotetico film tratto da “Phobia”? Con quale cast di attori?
R: Come regista vedrei bene Dario Argento. Per Mark Behrendt Johnny Depp oppure Ashton Kutcher, anche se è difficile mettere a fuoco un attore che potrebbe interpretarlo, perché Mark è stato ideato pensando a un amico. Per Sarah Bridgewater penserei Gwyneth Paltrow, anche tenendo a mente la sua interpretazione in Seven, con Brad Pitt. Per George Otis sceglierei Peter O'Toole e per lo Sconosciuto Kevin Spacey.

D: Quando ha deciso di essere uno scrittore?
R: L'ho deciso fin da giovanissimo. Ho sempre amato raccontare storie, avevo cinque anni e già dicevo in giro che avrei scritto un libro. È un onore per me fare questo mestiere, e sono grato al destino.

D: Nel suo libro ha stabilito fin da subito che il “cattivo” è l'opposto di quello che dovrebbe essere?
R: La parola psicopatico è una definizione che già crea un “problema”, nei thriller si parla quasi sempre di psicopatici, mai di avversari. Volevo rompere questo cliché e mostrare che ognuno di noi ha dentro di sé una violenza potenziale, che può sempre scattare. Non è tutto bianco o nero, a volte succede qualcosa e il male ha il sopravvento sul bene. Quando inizio a scrivere una storia ne ho già in mente l'andamento, ma, affinché sia credibile, devo avere presente tutti i miei protagonisti. Mi piacciono tutti, anche gli antagonisti, che devono avere però qualcosa di buono.

D: Perché un'ambientazione inglese per questo romanzo?
R: Ho scelto di ambientare la storia a Londra perché la storia stessa lo richiedeva, come ben si comprende alla fine del romanzo. Il prossimo libro invece tornerà ad essere ambientato in Germania.

D: In Italia no?
R: In passato una produzione italiana si è interessata a me, ma il progetto non ha poi preso corpo. Ma in futuro chissà... L'Italia è piena di meravigliosi posti pieni di mistero.

R: Qual è il suo rapporto con i social network?
I social network sono ok, perché aiutano a mantenere i contatti su grande distanze. Con le persone a me vicine utilizzo tecnologie più classiche, come sms e email. Con un amico che vive in Nuova Zelanda parlo via skype. Avere contatti è fondamentali, ma con Facebook non sono possibili i veri contatti personali che si hanno con altri mezzi. I social media sono importanti per uno scrittore, anche per quanto riguarda il rapporto con i lettori, e in questo Facebook è un ausilio molto utile.

D: Ci parli della figura del professor George Otis (il professore universitario che richiama il protagonista Mark a Londra).
R: Recentemente ho perso persone importanti, per età e malattia. La figura di Otis riassume queste le caratteristiche di queste due persone, che mi mancano molto e da cui ho imparato molto. Ho scelto di chiamare questo personaggio Otis in omaggio a Wilde, riferendomi alla famiglia Otis de Il fantasma di Canterville.

D: “Phobia” ha un messaggio per il lettore?
R: Deve procedere nella lettura con la propria interpretazione, è molto bello quando un lettore dice di aver trovato qualcosa di importante per lui. Se vogliamo trovare un messaggio, direi che sia quello di affrontare sempre le proprie paure.

D: Come è cambiato lo scrittore Wulf Dorn?
R: La tecnica e il modo in cui approccio una storia non è diverso, ma più scrivo più imparo che la lingua è come una melodia, che cambia registro. Come con uno strumento, ora lo conosco meglio, sono un professionista. Ricordo ancora lo stupore del grande successo del mio primo romanzo. È stato grandioso, ma mi ha anche spaventato. Lo scorso anno ero in tour promozionale in Sud America, per incontrare i lettori. Ti devi abituare, è impressionante vedere quanta gente si avvicina e si appassiona ai libri. Ma come a tutto, anche al successo ci si abitua.

D: Come è il suo approccio alla scrittura? Ci sono orari prestabiliti o scrive secondo ispirazione?
R: Scrivo seguendo orari da ufficio, pianifico la storia e i personaggi, faccio tutte le ricerche necessarie. Generalmente inizio verso le 7-7.30 e proseguo fino all'ora di pranzo, con una pausa a metà mattina. Poi proseguo nel pomeriggio per 2-3 ore. Io credo che la disciplina aiuti e che sia sbagliato scrivere solo sullo slancio dell'ispirazione, l'ispirazione stessa deriva dalla disciplina.

D: Prossimi progetti di scrittura?
R: Sì, sono impegnato con un nuovo libro che sarà dato alle stampe in autunno in Germania. Ho un progetto per un romanzo ancora successivo, ma prima di procedere, tendo a chiudere con l'opera precedente. Ma non svelo nulla!







venerdì 17 ottobre 2014

La primavera culturale a Palermo: la biblioteca itinerante di Pietro Tramonte e BOOQ



Palermo sta vivendo una primavera culturale.
La frase è forse azzardata, e manifesta, devo ammetterlo, una certa ingenuità. 
Eppure chi è abituato all'apatia culturale di questa città avrà notato dei timidi tentativi di cambiamento. Non parliamo soltanto di Una marina di libri, la fiera dell'editoria indipendente organizzata da quattro anni dalla Navarra Editore. Non soltanto delle innumerevoli e lodevoli iniziative di Modus Vivendi, la libreria che da anni porta a Palermo scrittori nazionali e internazionali, dando vita a presentazioni, reading e gruppi di lettura. E nemmeno delle Nuove pratiche fest che affolleranno i Cantieri Culturali della Zisa nei giorni 17 e 18 ottobre, con workshop e tavole rotonde incentrate sul dibattito culturale, né de Le vie dei tesori che apre la città ai visitatori, né della Repubblica delle Idee che sarà ospitata al Teatro Massimo tra sabato 18 e domenica 19. Non parliamo del fatto che per la prima volta a Palermo (la cui candidatura a capitale europea della cultura è stata meritatamente bocciata) è difficile scegliere a quale evento partecipare, colti dall'imbarazzo di una concomitanza di incontri molto numerosi e di pari livello. 
Parliamo piuttosto di realtà che prendono spazio lentamente e che stanno cambiando l'immagine stessa di Palermo. Realtà che non si trovano esposte tra le vie luminose del centro, ma nei vicoli più stretti, nelle piazze più nascoste del centro storico. Realtà che partono dall'umile iniziativa di cittadini che attuano, da soli, dei veri e propri tentativi di rivoluzione culturale.


Pietro Tramonte
Pietro Tramonte, ex ragioniere ora in pensione, è uno di questi. Poeta "estemporaneo", decide di coronare il
sogno di una vita aprendo una biblioteca itinerante a Piazza Monte S. Rosalia, nei pressi di Via Roma. 
L'operazione non è banale, perché Tramonte propone quello che in questa città ha un suono esotico e decisamente lontano dal linguaggio comune: bookcrossing. 
Inoltrandosi tra le tipiche viuzze che i palermitani ben conoscono, si paleserà all'improvviso un vicolo costeggiato di scaffali pieni di libri. Gran parte delle persone che vi entrano hanno la stessa sensazione: quella di entrare in un mondo incantato, dominato da una pace fuori dal comune  salvo le intrusioni delle canzoni neo-melodiche a tutto volume dei vicini  e proprio alle spalle di una delle strade più trafficate della città. 
Nella sua biblioteca all'aperto, dove circa venticinquemila volumi sono disposti in ordine di genere, è possibile trovare davvero di tutto. E basta cedere i propri libri vecchi per averne in cambio altri, sotto lo sguardo benevolo del proprietario che in questo modo svolge anche un'operazione fondamentale: introduce i libri in un contesto in cui mancano completamente e in cui, invece, ci sarebbe massimo bisogno.

«Se un ragazzino qui intorno mi chiede il dizionario per il compito a scuola, cosa dovrei fare? Non darglielo? E se il giorno dopo sostiene di averlo perso, non dovrei forse lasciare correre?», mi racconta. 
Tramonte si è perfettamente inserito in questo angolo della città che sembra averlo accolto con un'apparente indifferenza, riuscendo a far parlare di sé tramite il passaparola e un articolo pubblicato qualche tempo fa su Repubblica. Affabilità e grande cortesia attirano una "clientela" («sono ospiti») variegata, composta da amici che lo definiscono un "garibaldino"  ma Tramonte tiene sempre a precisare le proprie origini normanne, evidenti dal fenotipo  e lettori che sentono la mancanza di un luogo di raccoglimento in città, nonostante il proprietario lo definisca solo una goccia nell'oceano. Ha anche le idee ben chiare sul futuro del libro: con una disinvoltura che ho notato soltanto nelle generazioni più avanti negli anni  piuttosto che nella mia  mi spiega che il libro, in questo momento, si trova in un periodo di agonia prima del trapasso positivo al formato digitale. La scomparsa del cartaceo, insomma, non lo preoccupa, pur essendogli profondamente affezionato.


Ingresso di Booq
Ma un'altra giovanissima realtà è quella di Booq, una delle più sorprendenti. Un gruppo di appassionati ha deciso di sfruttare dei locali del centro storico di proprietà del comune, fatiscenti e abbandonati a loro stessi, e di rimetterli in sesto per trasformarli in una biblioteca. Ed ecco Booq, la biblio-officina occupata di quartiere, che fa della sua momentanea precarietà il baluardo della protesta contro la decadenza  anche estetica  della città. Booq è un locale che ha ancora bisogno di essere sistemato, ma una delle sue stanze comprende settemila volumi di tutti i tipi  dai fumetti alla saggistica  e risulta agevole per la lettura e lo studio: è aperta infatti lunedì, mercoledì, giovedì e domenica.
E Booq non si limita a questo, rendendosi protagonista di grandi eventi culturali, uno dei quali svoltosi ieri: la presentazione de L'armata dei sonnambuli in compagnia degli autori Wu Ming 2 e Wu Ming 4  rispettivamente Giovanni Cattabriga e Federico Guglielmi  e di Franco Berardi, critico vivace della produzione del collettivo.
L'incontro, che ha riunito almeno un centinaio di lettori, si è snodato per due ore in una piazza a pochi metri dalla biblioteca. Con nient'altro che alcune sedie e un sistema di amplificazione, Booq ha realizzato un evento fortemente interessante e significativo, dimostrando che la cultura può nascere anche in un luogo sterile e manomesso o in una piazza comune del centro storico. L'intento è proprio quello di riappropriarsi della città agendo autonomamente in un quadro lassista e inefficiente, con scarsa fiducia nelle istituzioni  a cui non si vuole chiedere nulla.

L'evento dei Wu Ming è stato il primo dei tre che fanno parte della rassegna Booquinista  dal nome deibouquinistes, venditori di libri che si collocavano lungo la Senna sin dal XVII secolo  e sarà seguito dall'incontro con Nicola Lagioia domenica 19 ottobre alle 20.30 (l'autore sarà presente anche la mattina da Modus Vivendi alle ore 11.00, in via Quintino Sella) e da quello con Francesco Maino, autore di Cartongesso, giorno 21 ottobre alle 20.30.

La riflessione sulla necessità di azioni forti e al limite della legalità per riabilitare spazi che dovrebbero essere restituiti ai palermitani dal Comune, e non certo dagli stessi concittadini, non manca. E il Comune ha anzi ben saputo "minacciare" l'esistenza di booq, inviando agenti della polizia municipale per identificare gli occupanti.
Ma forse, giustamente, sembra al momento impegnato in emergenze ben maggiori che far sgomberare uno spazio culturale  e totalmente gratuito  al servizio dei palermitani. Booq avrà lunga vita, se Leoluca Orlando saprà dimostrare che "il sindaco lo sa fare".



mercoledì 15 ottobre 2014

Recensione film: "Grandi Speranze" di Mike Newell

L'adattamento di un romanzo come Grandi speranze, vasto sia per numero di pagine che per varietà di tematiche, pone una scelta precisa a chi decida di portarlo sul grande schermo: ci si domanda infatti se sia meglio dare la precedenza all'introspezione violentemente emotiva dei personaggi o al susseguirsi tumultuoso di fatti e vicende. E se nel 1946 David Lean ha optato per un ottimo connubio dei due elementi, nel 2012 il regista inglese Mike Newell, che ha studiato a Cambridge proprio letteratura inglese, ha preferito una realizzazione basata su una fotografia pressoché perfetta e su una recitazione convincente ma cinematografica, lontana da quella più sottile e di impostazione teatrale di John Mills (Pip nel film del 1946). Ne nasce un grande film in costume dai risvolti romantici che, partendo dal suo illustre predecessore, cerca di raccontare più o meno esplicitamente tutto quello che il film di David Lean non aveva voluto o potuto precisare.
La prima cosa che salta agli occhi fin dai primi minuti è il forte cromatismo della pellicola, ambientata per lo più nel Kent: lo spettatore viene abbagliato da un verde brughiera molto luminoso, lontanissimo dal bianco e nero del primo film, ricco di sfumature ma cupo e dal sapore gotico. I fotogrammi sembrano addirittura quasi colorati in un secondo tempo, proprio come accadeva nell'ambito dell'espressionismo tedesco. Ogni tonalità scelta ha un valore se vogliamo simbolico: sia l'illuminazione serena che l'utilizzo di colori così brillanti riflettono la caratteristica di "paradiso terrestre" propria del villaggio natale del protagonista. Nel viaggio verso Londra invece cambia tutto: le sfumature luminose e solari spariscono, il verde pian piano sbiadisce e viene sostituito da colori più cupi, mentre la luce non è più quella diretta del sole ma proviene sia negli interni che negli esterni da lampade a olio che disegnano ombre inquietanti sulle strade e sui visi dei personaggi. La città appare fin dai primi attimi molto più realistica rispetto a quella che nell'altro film è probabilmente una ricostruzione in studio: nella versione di David Lean non vi è un rapporto così stretto con il cambiamento spirituale del protagonista e Londra mantiene spesso un ruolo di semplice ambientazione. Nel film del 2012 invece, grazie anche al colore e alle nuove tecnologie, Pip interamente vestito di un bianco luminoso scende dalla carrozza, l'inquadratura si sposta sul suo piede che trova all'appoggio un terreno sporco di sangue e fango. Veniamo proiettati in una sorta di mercato rumoroso dove, tra polli e animali macellati, il nostro eroe viene urtato da un passante e comincia la lenta e dolorosa discesa nella perdizione morale e spirituale causata dalle sue grandi speranze. Pip arriva in città vestito di bianco, simbolo di grande purezza, e del tutto impreparato a quello che lo aspetta, ma si sporca velocemente e cambia in rapporto a Londra; i suoi abiti si fanno scuri, i capelli corti e lo sguardo via via più consapevole.
L'atmosfera generale del film non è per nulla inquietante: ricorda forse più quella delle grandi saghe familiari, molto lontana dall'ambientazione quasi gotica e favolistica che aveva l'inizio del primo film. La poca inquietudine che scaturisce dalle scene è ricreata in minima parte dalle parole e dagli sguardi dei personaggi, ma soprattutto dalle inquadrature e da alcuni colori cupi. Satis House viene spesso ripresa dal basso verso l'alto, provocando nello spettatore un senso di vertigine e angoscia. Il romanticismo pervade spesso la scena e poco è lasciato all'immaginazione, tutto è dichiarato e concreto e non più solo delicatamente accennato: Biddy, che in questa versione è coetanea di Pip, lo bacia per dichiarargli il suo amore, e a sua volta Pip bacia Estella al suo secondo addio a Satis House. Dà invece un tocco sognante e alternativo al film il flashback del mancato matrimonio di Miss Havisham: qui l'immagine si fa sfocata e onirica, propria di quella dimensione che ricorda il passato o il sogno. La scena di per sé è molto evocativa e lo spettatore ne rimane affascinato. Questa è una scelta stilistica impossibile per gli anni '40, periodo in cui il classicismo hollywoodiano dettava legge e moda e prevedeva inquadrature frontali, verosimiglianza e concatenazione precisa di cause ed effetti, senza ellissi o improvvisi sbalzi temporali.
Gli attori scelti dal regista sono tutti all'altezza e danno un'ottima prova di recitazione, a partire da un Pip eccessivamente romantico, che cambia in modo concreto ma forse troppo velocemente. Personalmente ho preferito le interpretazioni del film di David Lean: le ho trovate più naturali e il loro spirito più simile a quello dei personaggi del romanzo; dove Dickens suggerisce e lascia intravedere con classe, Newell invece calca e sottolinea. Basta dare un'occhiata alla Miss Havisham interpretata da Helena Bonham Carter che rischia di cadere a tratti nel grottesco, soprattutto se la ascoltiamo con il doppiaggio italiano, che non le rende affatto giustizia. La signora di Satis House che tutti conosciamo e che emerge sia dalle illustrazioni che dal film di David Lean è una donna evanescente, fragile, quasi un fantasma tornato sulla terra per infestare l'antica dimora che l'ha vista soffrire. In questo film invece è molto concreta e materica, ha perso tutta la sua argentea trasparenza e ha conservato una follia che un tempo filtrava leggermente dalle pieghe del suo velo da sposa ma che ora appare troppo calcata e perde ogni commiserazione e comprensione da parte di chi la guarda. Miss Havisham sembra inoltre troppo giovane. E' vero che nel romanzo è una donna di quasi mezz'età ma la sofferenza e la permanenza costante in casa l'hanno fatta invecchiare prima del tempo: questo non è tenuto affatto in considerazione. Ho trovato invece il rapporto con Estella ben realizzato: capiamo come la donna volesse inizialmente fare un buon lavoro con la bambina adottata ma che poi, vuoi per la sofferenza o per la follia degli anni, i suoi insegnamenti le abbiano portato via il cuore per sempre.

Anche in questa versione di Grandi speranze la sorella di Pip muore ben presto di una malattia cardiaca. Non viene nominato invece l'aiuto fabbro Orlick, vero e proprio contro altare del protagonista: un personaggio che, ben strutturato e plasmato, darebbe un risvolto ancor più introspettivo e vario a Pip. Per contro è presente l'immancabile Mr. Pumblechook, personaggio divertente ma ben lontano dall'essere unico portavoce dell'ironia arguta di Dickens, qualità che pervade tutto il romanzo e lo eleva stilisticamente. Il personaggio di Estella è abbastanza fedele allo spirito del romanzo. Il tentennare del suo cuore si nota però troppo chiaramente in alcune scene. Gli occhi della ragazza sembrano inoltre amare Pip: questo probabilmente avveniva solo nel suo inconscio, ma mai così in superficie da poter essere letto da una macchina da presa. Quello che lega inizialmente i due personaggi è amicizia e comprensione, il sentirsi entrambi marionette nelle mani di Miss Havisham e della società, ma non amore. Il forzato Magwitch, interpretato da Ralph Fiennes, è forse leggermente troppo giovane, e avrebbe potuto essere sicuramente più introspettivo. La scena della sua morte nel film del 1946 era toccante e intensa, qui decisamente meno, a parte forse il sapiente uso del chiaro scuro che con un gioco di luce dipinge sul viso dell'uomo morente il tormento e la pace dei suoi ultimi attimi.
Per quanto riguarda la trama non abbiamo grandi cambiamenti, a parte l'assenza di Orlick e la morte prematura della sorella di Pip. L'unica scelta "coraggiosa" è forse proporre un epilogo in linea con uno dei due finali originali del romanzo, per intenderci quello in cui Estella non si è risposata dopo la morte di Drummle. Anche qui però i sentimenti tra i due sembrano amplificati: Pip dichiara nuovamente di amare la ragazza e un rapporto che vada oltre l'amicizia appare di nuovo possibile.


Anche se Estella è ora in grado di capire i sentimenti del protagonista ed esserne felice, nel romanzo di Dickens non è previsto un lieto fine per i due personaggi: sono stati infatti corrotti dalla società, chi dagli insegnamenti sbagliati di una donna malata, chi dalle sue grandi speranze. È in ogni caso un epilogo molto più fedele al libro rispetto al finale romantico e positivo del 1946: nel film di David Lean infatti Pip salvava Estella da una Satis House in rovina strappando le tende e lasciando entrare il sole come in un incantesimo.

In conclusione l'adattamento di Grandi speranze diretto da Mike Newell è un film visivamente molto bello, dal ritmo incessante, senza tempi morti e pause narrative. È una versione più moderna, aggiornata e anche amplificata del film di David Lean ma soprattutto del capolavoro di Charles Dickens. Nel tentativo di attualizzare e trasporre visivamente la portata dei temi e delle interpretazioni sotterranee di Grandi Speranze, il regista ha però forse finito per allontanarsi almeno in parte da quello che era lo spirito originale dell'opera, dotata di una sottile ironia e di un preciso schema morale. Non dobbiamo infatti dimenticare che Grandi Speranze è soprattutto un romanzo di formazione che segue il passaggio del protagonista Pip dalla fanciullezza all'età adulta e ha per questo un significato di fondo che va ben oltre la semplice storia d'amore.


lunedì 13 ottobre 2014

Buon quarto compleanno, Dusty pages in Wonderland



Per la prima volta, arriviamo al compleanno del blog senza nulla di concreto (che però arriverà nei prossimi giorni, o meglio, comincerà ad arrivare...)
E' arrivato in sordina, tra diecimila impegni, tesi da scrivere, esami da dare, stage da fare. Ed è arrivato senza che me lo aspettassi, senza che potessi dargli le giuste celebrazioni. Quest'anno va così, con una torta bella grande e i soliti inevitabili ringraziamenti: ai lettori che continuano a leggere, ai miei collaboratori che continuano a esserci, che sono qui da uno, due, tre anni. Che non conoscete di persona, ma che sono tutti splendidi, e che, nonostante gli impegni privati, riescono sempre a esserci: a dare il loro prezioso contributo, a sottostare alle mie correzioni, a non mandarmi a quel paese quando "no, la punteggiatura, è breve, riscrivilo, questo va rifatto". 
Quindi, per il compleanno del blog, che esiste soprattutto grazie a loro, io voglio solo ringraziarli.
A uno a uno.

A Valentina: che è cresciuta tantissimo da quando è arrivata, già tre anni fa, e che sforna sempre dei bellissimi articoli. Che certe volte aggiorna al posto mio, e non mi dice mai di no. Che capisce quanto io sia presa da tutto e, pur sapendo che anche lei è presa da tutto, lo fa lo stesso. Che ha a cuore Dusty pages in Wonderland quanto me, e che è fiera di farne parte. E io sono fiera del lavoro che costruiamo insieme.

A Rossella: che è arrivata, primissima tra tutti, e non molla mai, e io mi chiedo sempre quando il blog diventerà troppo per lei. Che è un punto di riferimento, perché è sempre puntualissima, impeccabile (mai una volta che debba correggere una virgola), eccellente in ogni argomento che affronta. Che non si è stancata di scrivere cento puntate de "Il tempio degli Otaku", che quest'anno ha cominciato l'università e le perdonerei anche che cominciasse a consegnare in ritardo, perché senza di lei mi sentirei persa.

A Barbara: che bacchetto sempre e che avrebbe più motivi di tutti di mandarmi a quel paese. Ma lei non lo fa. Continua a scrivere e a migliorarsi. Continua a recensire libri di esordienti che altri rifiutano, continua a lavorare anche se ha sempre dieci esami al mese (io mi chiedo davvero come faccia a darli tutti...), che, semplicemente, c'è. 

Ad Alessandra: che è la mia punta di diamante, e su cui credo, conto e scommetto tantissimo. Che segue alla perfezione le consegne e le scrive meglio di quanto sarei capace io. Che, se commissioni un articolo di letteratura, sa scriverlo come ogni capo-blogger comanda, e idem se le affidi una recensione; e potresti chiederle anche un articolo di fisica nucleare: lei lo scriverà, e lo scriverà bene.

A Michela: che è un'altra fulgida fiamma, più rara, ma sempre irrinunciabile. Che quando torna, di articoli te ne manda due, tre, quattro, e a cui sai di poter affidare l'ignoto e lo specialistico, perché tanto è esperta sempre di qualcosa (musica, cinema, ma soprattutto letteratura). Che mette la firma su articoli di alto livello, e che è una certezza sempre e comunque.

A Gianluca: che è un esperto di fantasy e, a furia di recensirlo, sta diventando esperto anche di Joe Abercrombie. A cui posso affidarmi con sicurezza, come ad un professionista. Che scrive con puntualità, che non si tira indietro, che ha salvato la rubrica "I maestri del fantastico", che presta sempre la sua penna.

A Gloria: che è l'entusiasmo fatto persona. Che ama scrivere per il blog, che partecipa a tutti gli eventi milanesi e, nonostante lavori, trova il tempo. Che mette se stessa quando scrive, che sa passare dalla frivolezza agli importantissimi temi sulla traduzione. Che è poliedrica e che si impegna sempre.

A Tonino: che è il più impegnato (e impegnativo) di tutti, che negli articoli mette anima e corpo, che accetta le critiche senza opporsi, che non se la prende, ma che anzi raddoppia l'impegno, e dei cui articoli non possiamo fare a meno! Che propone, scrive, propone. Che è instancabile, e va ringraziato tanto.

A Paola: che è qui da soli sei mesi, ma che ha già dato tanto. Che non vedo l'ora di conoscere meglio, che spero rimarrà e che promette molto bene.

A Chiara: che mi salva letteralmente la vita quando sono troppo esaurita per correggere gli articoli. Che mi è di supporto morale, che mi capisce in toto, che sorbisce sfoghi anche quando non sarebbe tenuta a farlo. Che porta un po' con me la stanchezza, che mi fa pat pat sulla testa, e che mi aiuta. Mi aiuta TANTO.

Ad Alessia, Laura e Silvia, che sono troppo "giovani" di Dusty pages in Wonderland, ma che stanno già dimostrando tanto impegno. E a cui dico un sentito grazie e "benvenute a bordo".

E infine, ultimo ma non per importanza, grazie a Valerio. Su cui non ci sono molte parole da spendere, perché basta dire che, senza di lui, questa avventura non avrebbe molto senso.

Il compleanno di Dusty pages in Wonderland, il quarto compleanno, non è un festeggiamento univoco. Queste sono le persone - fondamentali - grazie a cui sta a galla. Il compleanno del blog è tutto per loro.
E tutto per i lettori, perché, se non continuaste a leggere, noi non potremmo continuare ad esistere.
Quindi grazie, di cuore, a chi ci legge e ci apprezza, a chi ci ha permesso di arrivare per ben quattro anni a questo traguardo. 









domenica 12 ottobre 2014

Le serie tv sono la nuova letteratura



Per il quarto anno consecutivo, l'Italia registra una flessione del numero dei lettori. Si tratta di percentuali inferiori al 43% rilevato lo scorso anno, grazie alla quale ci posizioniamo secondi in Europa, dopo la Grecia, per “analfabetismo culturale”. Definisco infatti la crisi dell'editoria nient'altro che questo: il totale disinteresse per l'ambito culturale in tutte le sue forme. Libri, teatro e arte, canali tradizionali dell'espressione culturale, si avviano verso un inesorabile declino, e la cultura trova nuovi sbocchi sostanziali. E quindi, se gli italiani sembrano voler reprimere i settori sopracitati, solo uno di questi sfugge alla mannaia implacabile del loro giudizio: le serie tv, che meritatamente possono rientrare nella definizione di “cultura” intesa nella sua eccezione più estesa.

La sottoscritta fa fatica ad inquadrare le fiction nell'ambito strettamente culturale – un po' come mettere il David di Michelangelo e Game of Thrones nello stesso contenitore – ma è inutile negare che le serie tv siano ormai l'espressione più significativa dei nostri tempi, "ree" - lo dico ironicamente - di star lasciando morire tutte quelle su cui, nei secoli, si è costruito il mondo occidentale.
E non solo loro: videogiochi dagli elevati livelli per contenuti e grafica, altamente partecipativi e coinvolgenti, invogliano a stare davanti allo schermo più che a un noioso libro. Ma anche nel campo dei videogames è stato registrato un calo di titoli significativi, spesso accompagnato da un innalzamento della facile giocabilità: meno il gioco è difficile, più sarà popolare. Ed è nell'accessibilità, a mio avviso, la chiave di volta della sostituzione del prodotto-libro al prodotto-serie tv.

Parlare di sostituzione è, ovviamente, precoce. I dati sulla lettura sono parziali e non indicano quale, in realtà, sia stata la destinazione del tempo di quegli ex lettori scomparsi dalle percentuali. Probabilmente lettori deboli che, se prima leggiucchiavano, adesso hanno totalmente smesso, avendo trovato un modo migliore di impiegare il tempo: social network? Format televisivi? Serie tv?

Il modo in cui gli italiani impiegano il tempo libero, mi dicono, è marginale. Ognuno preferisce fare una cosa diversa dall'altro, con motivazioni ogni volta differenti. E invece io penso che lo studio del tempo libero dei nostri connazionali sia un elemento di vitale importanza per carpirne la forma mentis. Per capire quale sarà la società di domani, una società, sono totalmente convinta, che sarà priva di romanzi, priva di arte grafica, priva di opera, ma ricca di serie tv. La domanda è: cosa cambia in una società che ha trovato la sua espressione preferenziale nella serie tv – espressione che raggiunge livelli molto alti, ma che sostituisce l'immagine al logos, su cui abbiamo costruito più di duemila anni di storia?

Probabilmente non cambierà niente, o forse cambierà tutto.
Cambierà l'utilizzo della lingua, sempre più improntata sulla dialogicità e sui termini di uso comune. A questo proposito, non va sottovalutata la letterarietà di alcune serie tv – faccio un esempio: Criminal Minds tende a proporre aforismi colti di grandi scrittori o pensatori – e i livelli complessi di lettura che solo un background culturale approfondito riesce a cogliere in pieno.
Accessibilità, quindi, solo nella forma, ma non sempre nei contenuti: eppure la forma – l'immagine e il video, anziché la partecipazione impegnata nella decodificazione del linguaggio richiesta dai libri – è sufficiente per soppiantare – parlo sempre in termini apocalittici – una millenaria cultura basata sulla parola scritta, che comunque è più giovane di quella orale, a cui sembra vogliamo tornare.

A chi attribuire il merito (o il demerito) di questo cambiamento?
La risposta sembra scontata: le nuove tecnologie, improntate sulla velocità, richiedono tempi veloci, contenuti multimediali, slogan brevi e d'effetto, molte immagini, poche parole, poca libertà di opinione – i famosi 160 caratteri di Twitter – e gli stessi blog, prima frequentatissimi, hanno ora lasciato spazio a Facebook, dove l'interazione è più immediata.

La seconda motivazione potrebbe dipendere da un fattore ancestrale: l'intrattenimento. Abbiamo innata la ricerca dello storytelling, attraverso cui si dovrebbero veicolare messaggi importanti e spunto di riflessioni. È questo che fanno alcune serie tv, ed è questo che è successo, nel campo dei libri, fino a pochi decenni fa, prima che la sopraffazione dell'intrattenimento - che questa volta fa riferimento a quello becero, goliardico e poco intelligente - avesse la meglio. Prima che l'editoria rinunciasse a educare il lettore e a saziarlo di contenuti vacui e prima che si formasse quello che Giancarlo Ferretti definisce “l'apparato”: la marcata divisione e la progressiva prevalenza dei dirigenti-manager e del marketing sui letterati-editori. I libri hanno smesso di sembrare tali e hanno cominciato a somigliare a telefilm di quart'ordine. Nonostante i prodotti mediocri siano sempre esistiti, la differenza sta nel fatto che sono diventati prerogativa dell'editoria al fine di allargare una fetta di pubblico che adesso, per la sua indifferenza, sta facendo affondare tutto il settore. Un lettore diseducato, o educato solo alla mediocrità, difficilmente pretende di meglio e rinuncia, altrettanto facilmente, a un passatempo che può sostituire con qualcosa di più semplice.

Giangiacomo Feltrinelli diceva che “il grado di civiltà del nostro paese dipenderà anche, e in larga misura, da cosa, anche nel campo della letteratura di consumo, gli italiani avranno letto”. La letteratura di consumo offerta dall'editoria ha creato una società indifferente al libro.
In questo senso, le serie tv potrebbero addirittura salvare la letteratura. Trasposta in un canale più immediato, mantenendo quasi le stesse prerogative del romanzo – riflessione su tematiche etiche e sociali, intrattenimento intelligente – la letteratura sopravviverebbe in un'altra forma, una forma che il mercato librario non può più garantire.

Con buona pace dei nostri volumi polverosi, degli ebook, e dello spazio lasciato all'immaginazione.




sabato 11 ottobre 2014

Il tempio degli Otaku #100: Neon Genesis Evangelion









Salve a tutti, e benvenuti ad una nuova puntata de "Il Tempio degli Otaku"! Non è un appuntamento come tutti gli altri, però: questa, infatti, è la centesima puntata della nostra rubrica. A tal proposito è giusto parlare di un'opera speciale, che ha lasciato un segno tangibile nell'animazione nipponica, e che ancora oggi continua a fare proseliti. A tanti aficionados si contrappongono altrettanti detrattori, poiché si tratta di una serie decisamente controversa, dai numerosi punti oscuri, fonte continua di discussioni – a volte anche di veri e propri studi specialistici – tra gli appassionati. Cionondimeno, il suo valore rimane a tutt'oggi evidente. Signore e signori, per la centesima puntata del Tempio parleremo di Neon Genesis Evangelion, partorito da Hideaki Anno e dallo studio di animazione Gainax. Buona lettura (e visione!).

Le vicende che danno il la alla storia sono piuttosto note, ma per i quattro gatti che ancora non le conoscessero – e per coloro, assai più numerosi, che si sono persi tra le pieghe della trama – ecco a voi un breve ripasso.
Nell'anno 2000 la Terra è stata colpita da un gravissimo disastro naturale, chiamato Second Impact, che ha modificato radicalmente il pianeta. Quattordici anni dopo, inoltre, un'altra grave minaccia: esseri dall'origine sconosciuta, definiti Angeli, pronti a portare ulteriore morte e distruzione. Neutralizzarli e studiarli è compito di un organismo paramilitare, la Nerv, guidata da Gendo Ikari. Le loro azioni non sarebbero possibili senza gli Evangelion, potentissime macchine dall'aspetto umanoide che, però, possono essere guidate soltanto da ragazzini di quattordici anni.

La stessa età del figlio di Ikari, Shinji. La loro separazione, durata anni, si conclude con la richiesta perentoria di pilotare un Evangelion. A nulla varranno le proteste e l'insicurezza cronica del ragazzo, che si ritroverà immerso in una guerra di cui non conosce le ragioni e circondato da segreti che, se rivelati, potrebbero cambiare le sorti del mondo.

Con "Neon Genesis Evangelion" si fa in genere riferimento alla serie originale del 1995, e dei due film contemporanei – il secondo chiamato, per ovvi motivi, "The End of Evangelion" – volti a dare una conclusione alle traversie di Shinji non soltanto dal punto di vista psicologico/psicanalitico (come invece accade negli ultimi due, criticatissimi, episodi) ma anche concretamente.
Recentemente però Hideaki Anno, che ha sempre avuto un rapporto ambivalente con la serie, ha ripreso a lavorarci. Nascono così i "Rebuild", quattro film (di cui uno ancora in lavorazione) che si propongono di aggiornare l'originale. Con il passare del tempo, però, la fedele rilettura si è quasi trasformata in un'opera a sé stante, a causa dei numerosi cambiamenti effettuati sia alla trama che ai personaggi.

Se però per i primi due episodi le critiche dei "fedeli telespettatori" si concentravano più che altro sui cambiamenti ai personaggi - ed effettivamente i Rebuild hanno ridotto considerevolmente alcuni ruoli, come quello di Ritsuko Akagi, per non parlare di una Rei più umana che ha creato molto scalpore - con il terzo film, "You can (not) redo", le critiche sembrano quasi sovrastare i pareri positivi. Le ragioni risiedono probabilmente nella trama, che con la "scusa" di dover approfondire il personaggio di Kaworu Nagisa, sacrificato nell'originale per esigenze di spazio e di budget, narra eventi impensabili nella serie del 1995. In seguito al finale del secondo film, infatti, lo spettatore si trova con un timeskip, una nuova missione per i protagonisti, ed un ulteriore fardello psicologico sulle spalle di Shinji. Novità che non fanno altro che complicare ancora di più questa storia, quando l'intento di Anno era, semmai, di semplificarla. È comprensibile, perciò, che non tutti abbiano gradito questa iniziativa.

Non è, del resto, l'unico aspetto poco chiaro dell'opera, che se all'inizio appare niente di più che un classico anime mecha – seppure piuttosto violento rispetto alla media del genere – in seguito rivela una trama dall'impalcatura molto più complessa. Vengono infatti proposti tematiche piuttosto attuali, inusuali all'epoca (sopratutto negli anime fantascientifici) come la solitudine, il dover trovare il proprio posto nel mondo, quando la scienza diventa controproducente, la religione, ecc. Per non parlare, poi, dell'effettivo significato dell'opera

A sorpresa, una delle più popolari, che i creatori Anno e Sadamoto sembrano appoggiare - o forse  sarebbe meglio dire tollerare - è che lo show sarebbe una critica agli Otaku. Shinji ricalcherebbe  una persona incapace di vivere nel mondo reale, che ha per oggetto del desiderio una ragazza talmente docile da essere anormale (Rei, ovviamente) a scapito delle opportununità che la vita gli offrirebbe, come l'amore di Asuka. E "the End of Evangelion", secondo i sostenitori di questa teoria, ne sarebbe la prova regina. Tuttavia i fan non si limitano a queste interpretazioni, anzi. Cercando su internet potrete trovarne in quantità, persino come tesi di laurea. Gli sforzi di coloro che analizzano la serie si concentrano sopratutto sui simboli religiosi disseminati nelle varie puntate. La terminologia usata è piuttosto fuorviante: Eva, gli Angeli, Lilith, ecc. E se gli Angeli lo fossero nel senso letterale del termine? In fondo anche Shinji si pone la domanda. Sono solo coincidenze che i membri della Seele abbiano nomi tedeschi e assomiglino fisicamente agli ebrei nella loro accezione più stereotipata? L'uso dei numeri è casuale, o il loro reale significato è da ricercarsi nella Cabala? Infine, Shinji può ricoprire nella vicenda un ruolo simile a quello di Gesù per i cristiani? Queste ed altre domande si affollano nelle menti dei fan, completandosi a vicenda o, al contrario, entrando in conflitto. E non bisogna scordare la fazione che in NGE vede soltanto il significato letterale, forse per reazione alle dichiarazioni noncuranti degli addetti ai lavori, che hanno più volte affermato che molti simboli non hanno, in realtà, alcuna funzione nell'economia della storia. 
A conti fatti, spetta al singolo spettatore decidere, proprio come Shinji nelle sopraccitate puntate conclusive. È anche questa, in fondo, una delle ragioni per cui Evangelion è così popolare: ognuno, con i suoi mezzi e le sue inclinazioni, può rapportarcisi nella maniera che ritiene più opportuna.

Un fatto certo è che Anno, durante la creazione della serie, stava combattendo contro la depressione, leggendo anche dei libri specialistici in materia. Queste conoscenze, acquisite nel momento del bisogno, sono confluite nei personaggi. Non è un'esagerazione affermare che ogni singolo personaggio abbia un serio problema psicologico (o psichiatrico) da affrontare. Dei tentativi in tal senso, a dire il vero, erano già stati fatti in passato, ad esempio nelle prime serie di "Mobile Suit Gundam", in cui la sanità mentale dei protagonisti veniva messa a dura prova dagli eventi. Ma se lì la priorità veniva comunque data alla parte più d'azione, qui è l'esatto contrario. 

Shinji, tra un combattimento – traumatico – e l'altro, oltre a dover lottare con la sua dipendenza patologica dagli altri e con la sua scarsa autostima, dovrà fare i conti con i problemi delle persone che gli stanno (o dovrebbero stargli) più vicine. Le altre pilote degli Eva? Una, Rei Ayanami, non sembra provare alcuna emozione; l'altra, Asuka Soryo Langley, al contrario è così esuberante ed orgogliosa che viene da chiedersi se non sia tutta una finzione. Gli adulti, gli unici che potrebbero sostenerlo in questo difficile momento, non sono per niente affidabili: dalla sua tutrice improvvisata, Misato Katsuragi, dalle relazioni incostanti, al padre Gendo, a cui il benessere psico-fisico non sembra importare, passando per la scienziata Ritsuko Akagi, sempre all'ombra di sua madre.

Va detto che, nonostante la buona volontà degli sceneggiatori, non sempre l'introspezione psicologica va a buon fine. Si ha l'impressione, in alcuni casi, che si sia calcata troppo la mano sui problemi mentali: vedi Misato, che oltre ad essere demonizzata per le sue condotte libertine – mentre il suo partner, Kaji, non viene minimamente criticato pur comportandosi molto peggio – si vede cadere dal cielo un'attrazione per Shinji assolutamente ingiustificata. Un altro esempio può essere Asuka, che ha una reazione simil isterica per quasi tutti gli eventi, a prescindere dalla loro reale entità. Per fortuna nei Rebuild queste criticità sono state considerevolmente limate.

Un altro aspetto in cui i Rebuild "hanno la meglio" sull'originale è, naturalmente, il comparto tecnico. Pur difendendosi bene dal punto di vista del character design, infatti, a causa dell'esiguo budget di produzione non mancano nella serie carenze di animazione e scene utilizzate più e più volte. A compensare abbiamo però un ottimo doppiaggio e, sopratutto, una cura certosina nella colonna sonora, davvero efficace.
Neon Genesis Evangelion non è una serie priva di difetti, e potremmo discutere a lungo sull'effettiva utilità dei Rebuild e le ragioni che hanno portato alla loro creazione, tuttavia rimane un prodotto innovativo per i suoi tempi, che ancora oggi ha molto da dire e da dare. Per questo, anche solo per ragioni storiche – se non vedesse nessun altro motivo valido – qualunque appassionato di anime dovrebbe vederlo.

E con questa nota concludiamo questa puntata de "Il Tempio degli Otaku"! Grazie per il sostegno dimostrato sin ora. Ci vediamo la prossima volta, con il centounesimo appuntamento.

venerdì 10 ottobre 2014

Recensione: Il baco da seta, di Robert Galbraith/J.K. Rowling


Il baco da seta, Robert Galbraith
Salani
555 pagine, 18.60 euro

J. K. Rowling ripropone la formula vincente già utilizzata per e ci regala una nuova avventura del detective Cormoran Strike e della sua assistente Robin Ellacott. The Silkworm, questo il titolo originale del romanzo, si svolge secondo la struttura del thriller contemporaneo ma rivela un'atmosfera più composita e tematiche molto più profonde ed eccentriche. Grazie a questo valore aggiunto la Rowling si ritaglia un angolo per fare quello che poi le riesce meglio, ovvero creare personaggi ad hoc, analizzare i loro mondi privati e spingere il lettore a riflessioni su aspetti spinosi della società attuale. Da questa particolare formula nascono quelli che sembrano essere quasi "thriller sociali", proprio perché scavano nelle speranze e nella disperazione di uomini e donne dei nostri tempi.

Il baco da seta, secondo libro di quella che potrebbe essere almeno una serie di sette, è una sottile parodia del mondo letterario londinese che l'autrice dimostra di conoscere bene e soprattutto di saper interpretare con una forte dose di humour: incontriamo infatti scrittori narcisisti, editori megalomani, agenti senza scrupoli e wannabe senza speranza.


Rispetto a Il richiamo del cuculo la Rowling perfeziona la formula e presenta un delitto e un caso profondamente simbolici, inquietanti e molto più crudi ed efferati del precedente, sia per quanto riguarda le implicazioni emotive che il modus operandi. La narrazione ruota intorno alla misteriosa sparizione di Owen Quine, scrittore dal carattere terribile e con molti nemici. Il caso appare fin da subito collegato a Bombyx Mori, il romanzo che Quine aveva appena terminato e che accusava in modo preciso e rabbioso scrittori, editori e colleghi del suo mondo di ogni nefandezza possibile. La Rowling propone in questo modo il tema del libro misterioso che va cercato e in questo caso riletto per comprenderne i segreti e capire le sue rivelazioni criptiche. Le tematiche che la Rowling presenta riguardano in gran parte il mondo letterario. Tra le più interessanti citiamo soprattutto l'ossessione di essere pubblicati, un sentimento molto comune ma spesso illegittimo, che pervade l'atmosfera in modo inquieto e grottesco. L'editore Daniel Chard sostiene, in una delle affermazioni più felici del romanzo, che ci sia più bisogno di lettori che di scrittori.

Altro tema sempre attuale è la ricerca dell'ispirazione: capita infatti che un autore usi le storie delle persone che incontra nella vita quotidiana come materiale per le sue opere. Viene spontaneo quindi chiedersi fino a che punto sia corretto "mettere in piazza" i segreti altrui e che rapporto abbia questo con la moralità.

La trama è elaborata e ambiziosa, a tratti può sembrare quasi difficile da seguire, caratterizzata da rallentamenti ed interruzioni narrative che ricreano fedelmente quelli che sono gli stop propri delle indagini per omicidio. Dopo un inizio piuttosto blando e lento la narrazione prende poi velocità ma non mancano le pause: queste rappresentano il momento giusto per recuperare i fili delle storie personali tra i protagonisti, ma sono anche utili per dare il tempo al lettore di ambientarsi e riflettere sui possibili sviluppi del caso. Può capitare di annoiarsi qua e là ma la sensazione generale è in definitiva positiva: nonostante le circa 500 pagine di cui è composto il volume, il lettore si affeziona ai personaggi e ne vorrebbe leggere ancora. Sul finale, inoltre, la Rowling sceglie di non renderci partecipe dell'improvvisa illuminazione avuta da Strike negli ultimi capitoli e continua invece a bombardarci con false piste, aumentando ancor di più la suspense. Il lettore si trova quindi a seguire l'investigatore senza capire fino in fondo dove si sta dirigendo e resta incollato al romanzo fino alla fine. 

Il killer viene rivelato infatti solo nelle ultime pagine in un modo davvero "teatrale", che porta conseguenze alquanto rocambolesche. La Rowling si rivela ancora una volta una vera e propria maga nel realizzare personaggi profondi, credibili e ben definiti; dimostra inoltre di conoscere molto bene il mondo editoriale londinese, presentando una serie di addetti ai lavori davvero azzeccati. Il lettore finisce per affezionarsi ai due protagonisti, ma anche ai minori, tanto da sentirne quasi la mancanza sul finale. Per quanto riguarda Strike e Robin, l'autrice svela di romanzo in romanzo nuovi aspetti della loro personalità ma mantiene anche segreti sul loro passato, a cui accenna solo brevemente: questo rinforza soprattutto la suspense e il legame tra un libro e il successivo. Il rapporto tra Strike e la sua assistente si fa più vicino e forte: il detective diventa in un certo senso più "umano" e Robin sempre più competente e intraprendente nel lavoro. Tra i personaggi di questo episodio spiccano soprattutto Leonora e Orlando Quine, rispettivamente moglie e figlia dello scrittore scomparso, che colpiscono per la semplicità con cui vengono descritte e il toccante rapporto che le unisce. All'appello non manca nemmeno Kathryn Kent, amante di Quine e azzeccato esempio, e in un certo senso caricatura, di scrittrice "dilettante".

I dialoghi sono un altro dei punti meglio riusciti del romanzo: realistici e verosimili, incalzanti e spesso profondi. Sono inoltre diversissimi per registri: vanno dal botta e risposta introspettivo e illuminante sul panorama letterario, al rapporto sempre più ravvicinato e complice tra Strike e Robin, fino ad arrivare al narcisismo di chi cerca con cura le parole e ama sentirsi parlare.

Lo stile è sempre quello a cui la Rowling ci ha abituato e che faceva già capolino dalle pagine di Harry Potter: immediato, fortemente introspettivo, piacevole da leggere e musicale. Ne Il baco da seta troviamo poi un' ulteriore precisione nei dettagli che nel precedente libro non era forse ancora presente.

In conclusione, anche questa volta J. K. Rowling ha sfornato un ottimo thriller, sicuramente più elaborato del precedente ma con la stessa completezza e intensità espressiva. L'unica pecca potrebbe essere forse quello che poi è anche un pregio: la struttura e i riferimenti letterari ambiziosi, che rischiano di scivolare in parte nella noia. Nell'insieme si tratta comunque di una piccola debolezza su cui possiamo tranquillamente soprassedere: la storia personale del detective Strike, interessante e varia e capace di portare avanti da sola la trama, e il rapporto speciale e in via di costruzione con l'assistente Robin sono in grado di spingere senza dubbio anche il lettore meno appassionato di thriller ad attendere con impazienza la prossima indagine.

Voto: 


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