Leggere non è mai
un'azione passiva, o, almeno, non dovrebbe esserlo. La
decodificazione di segni scritti stimola specifiche aree del cervello
e, se non sono del tutto convinta che l'esercizio migliori davvero
l'empatia, uno degli effetti immediati di cui non stento a
riconoscere la validità è l'ampliamento del lessico di chi legge.
Senza voler scomodare gli studi di linguistica generale, a un
linguaggio ricco e variegato corrisponde una maggiore molteplicità
di pensiero: chi è fornito di un vasto vocabolario ha più strumenti
per percepire il mondo che lo circonda, per notare le sfumature, per
elaborare la complessità. E di complessità siamo circondati: quando
veniamo a conoscenza di una notizia, esaminarne i fattori politici,
storici, economici, umani, e cercare addirittura di prevederne le
conseguenze, non è per nulla semplice. Possedere un lessico adeguato
significa quindi dare un nome a elementi di cui, se non ne avessimo
appreso il termine, non avremmo nemmeno sospettato l'esistenza.
Alla domanda: “a cosa
serve la lettura?”, io rispondo spesso così: a interpretare la
realtà. La lettura è lo strumento attraverso il quale amplio i miei
orizzonti, faccio nuove esperienze e le problematizzo, per poi
trasferirle nel reale. 1984 di George Orwell, ad esempio, è
stato fondamentale per capire alcune dinamiche che mi sono tornate
utili. La stessa funzione hanno svolto, per i loro contemporanei,
Victor Hugo sulla prostituzione, o Flaubert sull'adulterio.
“Lettura” è, però,
un termine molto generico. Non è lettura quella delle etichette
della confezione di shampoo, né quella delle istruzioni del nuovo
mobile Ikea. Non è lettura, a mio avviso, nemmeno quella dei romanzi
caratterizzati da elementarità di pensiero, lessico ripetitivo,
situazioni stereotipate, banalità e, soprattutto, assenza di
profondità. O, meglio, si tratta di una lettura che toglie il senso
stesso del leggere, e che va bene quando fatta per passatempo, ma in
modo assolutamente consapevole. Il distinguo tra Lettura e lettura
sta proprio in questo: nella consapevolezza di chi legge. La
consapevolezza, così come la complessità, è un traguardo difficile
da raggiungere, e non è affatto scontato. Chi legge a ripetizione
libri di contenuto pressoché uguale e di linguaggio elementare, ne è
dotato? A mio avviso, no. Il giudizio parrà severo, ma è quello che
mi è capitato di osservare frequentando un gruppo su Facebook che fa
della lettura consapevole il proprio baluardo. Si chiama Billy, ilvizio di leggere, ed è gestito dal palermitano Angelo Di
Liberto. Le regole sono semplici: quando si consiglia un libro, non
basta dire su questo che è “bellissimo” e che “tiene incollati
fino all'ultima pagina”; si deve cercare di motivare per quale
motivo un altro utente dovrebbe ascoltare il consiglio letterario. Va
da sé che “ricco di colpi di scena” ed “emozionante” non
sono indicazioni sufficienti. Quando, però, l'utente disattento
viene rimbrottato o incoraggiato a spiegare meglio le proprie
motivazioni, ad andare oltre e a non limitarsi al giudizio
superficiale, la reazione è spesso aggressiva, indolente,
refrattaria. Frequenti le accuse di snobismo, perché è più giusto
accontentarsi di una riga che non dice nulla piuttosto che chiedere –
viene percepito quasi come un'offesa – di esercitare il proprio
giudizio.
Mi sono fatta l'idea che
la lettura critica (da cui si vuole trarre, cioè, un giudizio
critico – non in senso filologico – sull'opera) è inesistente
in chi si limita alla fagocitazione di prodotti di serie – il fatto
che questi prodotti, che non mi va di chiamare libri, snaturalizzino
la lettura in quanto gymnasium, palestra
intellettuale, per ritornare al discorso sull'interpretazione del
reale, non è argomento da affrontare in questa sede. Non è solo
inesistente, ma non ha nemmeno la possibilità di crescere e
germogliare: il rifiuto categorico di fare il salto di qualità
impedisce quasi sempre nettamente che una lettrice accanita di
letteratura di consumo, e solo di questa, senta il bisogno di
allargare i propri orizzonti. Esiste, è vero, la possibilità che
questo accada. Ma la massima “qualsiasi cosa, purché si legga” è
essenzialmente sbagliata: senza che venga introdotta la
consapevolezza – che dovrebbe nascere da sé, ma non sempre accade
– il lettore occasionale non trarrà alcun vantaggio dalla lettura,
se non quello di aver trascorso un paio d'ore di tempo con la stessa
fruttuosità di chi lo passa su un social network. Una riflessione
estemporanea può essere inoltre fatta – ma la lasciamo alla sua
aleatorietà – sull'incapacità della scuola di formare un
individuo dotato di pensiero proprio, nonostante abbia completato il
percorso di studi, e di saperlo esprimere. Le difficoltà
linguistiche, come accennato, giocano un ruolo molto importante della
formulazione del giudizio.
Sappiamo,
d'altronde, che la narrativa di consumo odierna è spesso indirizzata
a creare prodotti riempitivi.
Utilizzo questo termine per indicare un tipo di lettura che vuole
riempire alcuni vuoti emotivi, una vita noiosa o problematica, un
disagio interiore. Lo fa regalando emozioni:
sull'emozione ruota l'intera sfera dell'industria libraria. Si tratta
sempre di un'emozione positiva, anche quando vuole essere dolorosa.
Non è infrequente la richiesta, da parte soprattutto di un pubblico
femminile, di un libro che faccia piangere. E, per lo stesso motivo,
non si riesce a descrivere un libro se non come “emozionante”:
perché, al di là dell'emozione – tra l'altro, di plastica – non
possiede altro. Sull'onda dell'emozione sono stati magnificati libri
come “Fai bei sogni” di Massimo Gramellini o “Va' dove ti porta
il cuore”, di Susanna Tamaro. Non da adolescenti, spesso tacciati
di essere privi di strumenti interpretativi, ma da adulti incapaci
di scorgere la banalità, la furberia, la grossolanità.
Sull'onda
dell'emozione, inoltre, la soggettività, il “de gustibus” e la
democrazia del web – che pur si deve ringraziare – vengono
elevati a criteri assoluti. All'appiattimento di pensiero dovuto a
libri dai contenuti vuoti, segue l'appiattimento di giudizio. La
critica deperisce dietro al “like” che nega, costantemente, il
dissenso: siamo tutti d'accordo – mentre chi non lo è può
manifestarlo solo grazie al proprio silenzio, difficile da notare –
e un pensiero superficiale vale quanto quello che fa lo sforzo di
rompere la barriera dell' accondiscendenza: “io la penso così”,
leggo spesso giustificarsi, barricarsi dietro un'intenzione pacifica,
“ma è solo un pensiero personale, non la verità assoluta, il
mondo è bello perché è vario, sai che noia se la pensassimo tutti
allo stesso modo”.
La
faticosa oggettività – il metro attraverso cui si dovrebbe
valutare un libro, che include criteri come: scrittura corretta e non
ripetitiva, originalità di trama, psicologia dei personaggi
approfondita e non stereotipata – cade sotto le sprangate del
populismo, si annichilisce, viene derisa nella convinzione che tutti
abbiano ragione. Ma il giudizio motivato, per quanto possa essere
erroneo, presenta un margine di discussione.
Il
problema non sta nell'arbitrarietà del giudizio, quindi, ma nella
sua profondità. E questa sarà negata, fin quando si leggeranno
libri come si scorre la bacheca di Facebook, si rivendicherà il
diritto di farlo e si annullerà il rilievo della critica.
Si
arriva al paradosso assoluto: nessun libro è brutto. È il triste
trionfo della soggettività che non applica il discrimen,
che confonde Tolstoj con Fabio Volo, che dà risalto all'illetterato,
che toglie dignità alla letteratura mettendola sullo stesso livello
di apprezzamento dell'ultimo best seller erotico. Nessun libro è
brutto perché non deve essere urtata la sensibilità di nessuno.
Nessuno deve sentirsi al di sotto degli altri. Nessuno, quindi, deve
essere spinto a migliorarsi, perché va bene così, orgogliosi di
quello che si è: l'ignoranza è motivo di vanto, nella felice e
arrogante convinzione di essere diversi dai cosiddetti “snob”,
convinzione che assume sfumature esistenziali quando si finisce per
evidenziare, addirittura, la propria superiorità morale.
La
critica urta perché crea una disarmonia, una crepa, costringe a
rivedere la propria posizione, ad ammettere errori di valutazione, a
considerare sopravvalutate quelle emozioni che ci aveva regalato la
lettura, nel momento in cui questa non ci ha dato altro. Per questo,
la critica deve essere screditata, soprattutto quando veemente,
dissacrante, ma principalmente onesta. Per questo, tutti i giudizi
hanno pari dignità, tutte le opinioni sono legittime: eguagliare una
critica motivata e una che non sa andare oltre lo sterile
“bellissimo”, o rivendicare l'importanza del mero gusto personale
sull'obiettività, significa, per chi avverte il difetto della
propria incompetenza, dimostrare di essere “alla pari”. E, nella
società della frustrazione e dell'invidia strisciante – verso il
ricco, il colto, o la persona di successo –, non c'è nulla di più
importante.
Lucida e interessante riflessione. Sono d'accordo!
RispondiEliminaHo sempre ritenuto la lettura un piacere, quindi difendo il libro ripetitivo e dico "il mondo è bello perché è vario".
RispondiEliminaPenso anche io che la critica debba essere onesta, ma se è una buona critica si renderà conto di ciò di cui va a parlare e lo esaminerà di conseguenza.
Per quanto riguarda il fatto che esistano libri belli e brutti, impegnati e leggeri, la cosa non mi dispiace. Tutti siamo diversi, ci piacciono cose diverse, e questo non si può negare.
Penso che i romanzetti servano proprio a chi non riesce ad apprezzare la letteratura impegnata (che può benissimo non piacere, seppur molti 'snob' pensino il contrario), perché tutti alla fine hanno il diritto di leggere, e se ci fossero solo classici, saggi e romanzi a sfondo politico di sicuro ci staremmo prendendo talmente sul serio da far ridere i polli.
Infatti qui non si mette in dubbio la libertà di leggere quello che si vuole (ci mancherebbe altro), ma dovrebbe essere fatto in modo consapevole. Anche tutto il resto mi sembra pleonastico e non centra il nodo dell'articolo. Non si è negato da nessuna parte che debba esistere la letteratura di consumo e che ognuno abbia il diritto di leggerla. Infine: il piacere è il primo motivo per cui tutti leggono, a prescindere dal fatto che la lettura sia impegnativa o meno. O si pensa davvero che leggere Dostoevskij non sia un piacere, ma un dovere o un mezzo di erudizione?
EliminaArticolo davvero interessante, un punto di riflessione davvero interessante. Sarò sincera, seguendo -spesso con passività- diversi blog letterari, questo fenomeno del "purché sia scritto, io leggo" è una specie di epidemia. Valanghe di recensioni tutte uguali su libri tutti uguali. Mi sentivo quasi "snob" a pensare che forse, spendere del tempo per parlare di un libro implica che il libro in questione meriti di essere letto. Sottolineo: io sono la prima che legge libri per puro scopo d'intrattenimento, cosciente che certe letture non portano niente alla crescita mentale del mio status di essere umano. Ma personalmente quando nella mia testa echeggiano aggettivi che esprimono la soddisfazione nella mia lettura, riguarda sempre testi che in qualche modo mi stanno cambiando, che pongono domande e che mettono la mia esistenza in discussione.
RispondiEliminaLeggendo qualche commento: mi chiedo se letture di classici, saggi e romanzi impegnativi sia per forza considerato qualcosa da "chi si prende sul serio tanto da essere ridicolo" quindi in teoria sono letture "non appaganti" o peggio "roba per chi si da un tono". Seguendo questa filosofia, quindi dovrei quasi sentirmi ridicola a pensare che Anna Karenina sia effettivamente una bella lettura. Ma forse sembrerei meno presuntuosa, se leggessi la sua versione abbreviata, infondo quello che conta è la storia, sbaglio? Direi che questo è il chiaro esempio fra Lettore e lettore o Lettura e lettura.
Io credo che i testi che rimangono dentro di noi siano quelli che determinano una certa crescita, che non può passare per l'evasività, anzi, richiede spesso una terapia d'urto. C'è bisogno di più critica per evidenziare certe contraddizioni, e il problema è proprio questo: la critica è screditata perché non si devono mettere in discussione i gusti di nessuno.
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