mercoledì 6 maggio 2015

Di editoria, di libri e di librai a Palermo: intervista a Salvatore Cangelosi



Spesso elusa, screditata, relegata nell'oblio dell'inanità, la memoria è invece una delle cose più importanti che possediamo. Se n'erano accorti già i Greci, che facevano derivare le dee delle arti, le Muse, da Mnemosine: senza memoria non c'è arte, senza arte non c'è vita e, senza memoria, non solo non abbiamo un passato, ma neanche un futuro. Quando accade che le storie non vengano tramandate, una parte di quello che siamo stati, come esseri umani, si disintegra nell'incoscienza, ovvero, letteralmente, nella perdita della cognizione di se stessi e della realtà: nella non conoscenza, traslitterando il significato. Perdendo la memoria, perdiamo noi stessi.
Per questi motivi, trovo la giovinezza abbastanza detestabile: un individuo nuovo non ha memoria, tranne quella che gli viene trasmessa. È una memoria surrogata, soggettiva, di seconda mano, eppure necessaria, perché, in assenza di racconto, evapora anche la possibilità di conoscere ciò che siamo stati.

L'intervista a Salvatore Cangelosi, libraio a Palermo da quasi quarant'anni – prima nella libreria Ciuni, poi nella libreria Cavour, infine alla Feltrinelli, dove ancora lavora – è nata dalla curiosità di sapere quale fosse il clima culturale della mia città negli anni Settanta e Ottanta. Ma anche per capire, da un addetto ai lavori, come l'editoria e il mondo del libro siano effettivamente cambiati in questi anni.
Una risposta abbastanza esauriente, comunque, la dà già il libro che Cangelosi stesso ha pubblicato lo scorso anno: La città e i libri, avventure di un libraio, si inscrive nel genere del memoriale, raccontando, attraverso l'esperienza personale, la storia di una città in perenne traffico – caratteristica, questa, tanto congenita da non essere ancora mutata – e dei microcosmi librari attorno a cui ruota la formazione di un giovane commesso. La conoscenza diretta con Volponi, quella mancata con Sciascia, il colloquio con una impegnatissima Elvira Sellerio, ma anche l'omicidio di Paolo Borsellino o lo scandalo di Vitello su Tomasi di Lampedusa restituiscono il disegno di una città inedita – almeno per chi non l'ha vissuta – e rimettono al posto un tassello mancante della vita storica palermitana. È emozionante vivere, attraverso la prosa elegante di Cangelosi, gli scorci di quello che, a Palermo, è sempre stato un sottobosco, per quanto vitale e importante, ma di certo lontano dalla quotidianità del Sud. La lontananza fa parte, in effetti, della fisionomia di questo libro: lontananza nel tempo, perché si percepisce una realtà totalmente altra, sia per i mezzi con cui si lavorava, sia per il clima intellettuale; lontananza della periferia – Palermo e la Sicilia – dal centro librario – in questo caso, Bologna. Ma, come accennato, la lontananza sta anche tra la zona culturale della città e quella più emarginata, simbolizzata dalle donne che Cangelosi incontra sui mezzi pubblici e che hanno le nocche delle mani sbucciate per il duro lavoro.

La Città e i Libri racconta anche di libri che salvano. Perché Cangelosi, pochi studi alle spalle, un futuro incerto davanti, trova nei libri, nell'istruzione, nello sforzo intellettualmente disperato, un'identità che non avrebbe mai immaginato. E, tuttavia, non il lavoro più bello del mondo, come romanticamente vogliamo pensare quando ci riferiamo ai librai.
La mia curiosità si è spinta oltre Palermo, volendo vedere al di là della realtà locale e spingendomi fino ai temi della perdita dell'importanza degli studi umanistici, ma immergendomi anche, per quanto possibile, nella realtà del mestiere di libraio.



Salvatore Cangelosi, Lei rappresenta una delle memorie storiche di Palermo. La città offre un sottobosco fitto di librerie indipendenti, che però, negli ultimi anni, si stanno trasformando o scomparendo. Se le chiedessimo di tracciare un quadro della situazione libraria palermitana degli anni Settanta, cosa ci racconterebbe? E quali sono le persone che, durante la sua carriera, ricorda essere state partecipative del clima culturale palermitano? Quelle che, per intenderci, hanno dato vita al sottobosco di cui ho parlato.

Via Maqueda, una delle vie del centro di Palermo
e crocevia di alcune libreria
Negli anni Settanta in città si fronteggiavano due gruppi di librerie, quelle che facevano capo a Maurizio Ciuni (ed erano sei), e quelle del gruppo di Fausto Flaccovio che aveva iniziato come libraio nel 1938. Vi era pure la libreria Nuova Presenza molto attiva e frequentata, gravitava nell' orbita del Pci, una libreria che ha lasciato un segno in città. Vi erano anche piccole librerie ubicate in Via Maqueda e Corso Vittorio Emanuele, che trattavano esclusivamente lo scolastico. Librerie che avevano un peso erano la libreria Dante, le Figlie di San Paolo, la libreria Pegaso, e negli anni Ottanta un gruppo di librerie denominate Europa, oggi estinte. Bisogna riconoscere che il gruppo più attivo era quello guidato da Maurizio Ciuni, che lo aveva ereditato dalla madre Luisa Saracinelli e dal padre Filippo, fondatore della prima libreria agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso. Ho iniziato il lavoro di libraio alla libreria Ciuni di Via Sciuti, il 27 agosto del 1979. Vi ho lavorato fino al 1984, per approdare poi alla libreria Cavour fino al 1986, e, infine, alla Feltrinelli nel settenbre di quell'anno. La milanese Feltrinelli aveva rilevato la storica libreria Ciuni di via Maqueda. Ho un vivo e indelebile ricordo di quei primi anni di apprendistato. V'era un fermento che oggi è difficile spiegare. Le librerie erano veri punti di aggregazione e di crescita intellettuale. Però bisogna ricondurre il tutto a un mondo che si esprimeva esclusivamente per carta stampata.
A quel tempo il libro aveva una "centralità" assoluta nel mondo culturale. In quegli anni i frequentatori più assidui erano gli intellettuali e gli universitari, ma anche gli esponenti delle professioni borghesi erano rappresentati, oserei dire, in massa.
La via Sciuti era una via borghese per eccellenza e l'elenco dei visitatori quotidiani sarebbe troppo lungo da ricordare, mi limiterò a qualche nome: Ubaldo Mirabelli, musicologo e storico dell'arte, Mimo Blunda, scrittore, Mario Farinella, giornalista, Vincenzo D'Alessandro, illustre storico del Medioevo.
Con questi e altri personaggi ho interagito imparando tanto, anche considerando che ero un ragazzo privo di cultura e di mezzi. Per loro ho provato sentimenti di gratitudine e riconoscenza, sono stati i miei silenziosi e disinteressati maestri. Anche oggi a distanza di anni dico loro, grazie.


Palermo è una città che molti giovani guardano con una vena di malinconia. È amata quando detestata, è per lo più invisa alla giovane imprenditoria ed è spesso ferma nel suo immobilismo, le manca l'ampio respiro, lo sguardo europeo, a volte persino la vivibilità. Eppure, a mio avviso, ci sono resistenze culturali, di cui ho anche parlato su questo blog, che non vogliono demordere. Cosa significa fare il libraio in una città che, secondo i dati Istat, conta una percentuale molto bassa di lettori e in cui la lettura è spesso non solo screditata dai cittadini, ma viene anche ignorata dalle istituzioni?

Palermo non brilla, come del resto la Sicilia, o addirittura il meridione, per attaccamento alla lettura, però generalizzare non sempre giova. Si può ben dire che noi "siamo i libri che abbiamo letto". Mi riconosco molto in questa massima. Comunque la si veda, l'atto della lettura nasce quasi sempre da un bisogno intimo. Non si può inculcare la lettura, rendendola un obbligo, in quel caso si otterrebbe l'effetto opposto. Credo che uno dei più potenti dissuasori alla pratica della lettura lo si incontri alle scuole medie, nella fase cruciale della formazione educativa. La scuola media non forma alla pratica della lettura. Certo, ci sono delle eccezioni, ma il grosso degli studenti medi ha gravissime lacune. Dal mio osservatorio non posso che confermare questa grave inadeguatezza che addirittura si trascina anche alle classi superiori e, cosa grave, all'università. I dati sulla lettura sono severi e impietosi. La mostra regione assorbe una percentuale minima del fatturato generale, siamo intorno al 5%. Molto ci sarebbe da fare, ma la mancanza di risorse non aiuta a implementare azioni che muovano interesse verso la pratica della lettura.
La figura del libraio per come la intendo io è quella di un mediatore di un filtro tra il libro e il futuro lettore. Egli deve consigliare senza condizionare, deve dialogare con il lettore senza schiacciarlo. È il lettore che forma il libraio. Per esistere il libraio deve prima esserci il lettore. Personalmente ho imparato tanto da questo incontro. Se sono diventato un discreto libraio lo devo principalmente a certi illustri lettori che ho avuto la fortuna di conoscere. Alcuni di loro mi presero in simpatia ammaestrandomi e formandomi nel gusto. Ma, come lei può intuire, parlo di un'epoca lontana e irripetibile. Anche un certo tipo di lettore è scomparso e la sua estinzione è dovuta alla fine di una certa idea di letteratura.


Leonardo Sciascia, figura fondamentale
della vita intellettuale di Palermo negli anni
Ottanta (foto di Ferdinando Scianna)
Da libraio, ha anche osservato le differenze che sono intercorse tra i sistemi editoriali di prima e quelli di ora – compreso il cambiamento delle politiche di marketing, dei rapporti con le librerie e dei cataloghi che vi arrivano. Quali sono secondo lei i più significativi? E cosa si curava, prima, nell'editoria, che invece adesso si tralascia?

Quando ho iniziato a lavorare in libreria, la parola marketing applicata ai libri non esisteva affatto, almeno io non l'ho mai sentita nominare. I libri vivevamo di vita propria, camminavano da soli perché avevano buone gambe. Negli anno Novanta del secolo scorso l'editoria, che viveva ancora in forme artigianali, si è trasformata in "industria editoriale" con tutte le conseguenze del caso. Hanno applicato all'editoria le leggi di mercato che regolano l'industria, rendendola di fatto schiava dei fatturati. A ciò bisogna aggiungere che le più importanti case editrici, sempre in quegli anni Novanta, passarono sotto il controllo di gruppi finanziari. Il marketing applicato ai libri è stato sempre un fallimento, una contraddizione.
Un tempo le redazioni di certe case editrici erano rette da personaggi di prima grandezza, basterebbe qualche nome: Elio Vittorini, Cesare Pavese, Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Giorgio Bassani. I libri erano lungamente pensati. Oggi in alcune case editrici è stata abolita pure la figura del correttore di bozze. Il cosiddetto editing viene affidato a persone esterne che confezionano il prodotto per come lo desidera l'editore. La crisi delle vendite ci ha portato a questa condizione. Sono pochi gli editori che ancora riescono a mantenere alta la qualità dei loro libri, specialmente per la parte saggistica.


Le librerie stanno attraversando un periodo di crisi. Qualcuno dice che sia a causa dell'invasività di Amazon, ma anche la lettura registra cali demoralizzanti. Possiamo accennare a tante cause: la crisi economica, la crisi politica, la crisi culturale. Secondo lei, quale di queste è la più pregnante? È vero, a Suo parere, che le attrattive virtuali – Internet, social network – stanno togliendo spazio ai libri, o l'atteggiamento indifferente alla cultura ha permeato anche gli anni precedenti alla rivoluzione tecnologica?

Le librerie e il mondo del libro vivono di crisi cicliche. Purtroppo quella che stiamo vivendo adesso è qualcosa di diverso, dura dal 2008, un tempo troppo lungo. Dunque non si tratta di crisi ciclica, ma di qualcosa che investe in radice i consumi detti superflui. E forse il libro è stato sempre percepito come qualcosa di inutilmente ottuso, qualcosa di non utilitaristico, un investimento a perdere. La crisi del libro, semmai, è una crisi di civiltà. È il vecchio continente a soffrirne maggiormente. Come vede il discorso è molto complesso. Certo, Amazon, e tutte le altre piattaforme che vendono libri anche in formato elettronico, con la loro politica aggressiva fatta di super sconti, crea un grave danno agli editori che con le loro sole forze devono stare sul mercato. Il fenomeno degli ebook da noi non ha avuto presa, il mercato italiano è stimato al 6% circa.
Piuttosto sono convinto che l'avvento dei social, quello sì, ha sottratto lettori tradizionali. Allo stesso modo mi sento di condividere l'ultima parte della sua domanda: penso anch'io che le crisi vengano sempre da lontano, ma non sempre si riesce a prevederle.
Se dipendiamo troppo dalla tecnologia dobbiamo mettere in conto le prevaricazioni delle macchine sull'uomo. Bisogna pagare il pedaggio.
Non sempre l'eccesso di informazione ci rende più colti, forse, semmai, più soli.


Per esempio, a essere fortemente scoraggiati oggi sono gli studi umanistici. Si parla, addirittura, di un abolizione del liceo classico. I ragazzi vengono tartassati con un'idea utilitaristica del sapere, studiare – recente è una proposta di Poletti su stage estivi non retribuiti per gli studenti – sembra debba finalizzarsi allo scopo di “essere inseriti in azienda”, come se la conoscenza in quanto tale stesse perdendo valore. Pochi sono ormai gli iscritti alla facoltà di lettere e filosofia, e vengono guardati per lo più con compassione...

Il giornale L'ora, per un secolo il più importante e attivo
 della città, a cui hanno collaborato, tra gli altri, Renato Guttuso,
Leonardo Sciascia, Salvatore Quasimodo, Mauro De Mauro.
Sì, è vero, gli studi umanistici non godono di grande considerazione e questo è un paradosso tutto italiano. Abbiamo una delle più importanti letterature dell'occidente, ma la sviliamo. Il liceo classico è sempre stato considerato come il corso di studi più formativo, ed è vero. Penso che anche adesso mantenga ancora un certo peso educativo e formativo. Lei mi dice che addirittura si pensa di abolirlo. Non lo sapevo, ma non credo che accadrà. In Italia, tutto sommato, quando ci troviamo sul ciglio del baratro c'è sempre qualcuno che ci tira per i capelli. Speriamo bene. Forse sarebbe il caso di rileggere il classico di Charles Percy Snow, Le due culture, per comprendere che se la cultura letteraria non dialoga con quella scientifica si perde molto in termini di conoscenza e di sapere. Devo dire però, che oggi molti manager che dirigono importanti aziende provengono da studi umanistici, e questo significa qualcosa. La proposta del ministro Poletti non mi sembra scandalosa, forse andrebbe precisata meglio. Se le facoltà umanistiche perdono iscritti bisognerebbe capirne i veri motivi, che io non conosco non avendo mai frequentato quel mondo se non di riflesso, avendo a che fare anche con studenti universitari.


Tornando ai libri: alcuni danno per assodata la scomparsa del libro cartaceo, e sta aumentando la fruizione degli eBook. Pensa anche lei che nel futuro non esisteranno più libri di carta? Come si pone verso il digitale?

Il libro cartaceo non morirà mai, ne sono fermamente convinto, è una parte notevole della nostra vita quotidiana, tutti i giorni ci imbattiamo in un libro. Molte volte gli è stato cantato il de profundis, anche in modo grottesco. Io stesso sono stato testimone, ascoltando tanti profeti di sventura che si cimentavano in ardite previsioni. Tutte sballate. Eppure il libro è ancora sui tavoli delle librerie. Certo, soffre, come tutti i beni non primari, ma dire che scomparirà mi sembra un azzardo.
La stessa cosa si disse sul cinema quando negli anni Cinquanta irruppe in scena la televisione. Il cinema c'è ancora, mi pare. Ho già detto che il fenomeno degli eBook da noi ha avuto un impatto limitato, è ancora un mercato quasi inesistente. Per parte mia non riesco a concepire il futuro senza il libro cartaceo. Non bisogna dimenticare che l'invenzione del libro a stampa è stata la vera rivoluzione del vecchio continente. Il libro cartaceo fa parte della nostra vita più di quanto non si creda, e, paradossalmente, anche chi non legge e non ama i libri ne è quotidianamente toccato. Certo, il digitale c'è, ma bisogna vederne gli effetti sul lungo termine, cioè decenni. Invece gli strumenti del web possono accompagnare il libro cartaceo, io stesso me ne servo, con giudizio, come ammoniva il sommo Alessandro Manzoni.


Cosa deve avere invece, oggi come in passato, una libreria per sopravvivere? E, soprattutto, qual è ormai il ruolo del libraio? Sembra sia un mestiere che si sta perdendo...

La libreria per sopravvivere deve puntare su due leve: la professionalità dei suoi librai e l'assortimento. Però bisogna riconoscere che non si possono paragonare le librerie di 30 o 40 anni fa con quelle di oggi, che si rivolgono a un pubblico completamente diverso. Sono due mondi opposti. Quelle che ci siamo lasciati alle spalle erano troppo elitarie e si rivolgevano esclusivamente a lettori borghesi e professionali. Erano pochi, ricordo, i giovani che le frequentavano. Io parlo della mia esperienza iniziata alla fine degli anni Settanta.
La rivoluzione informatica ha stravolto l'immagine della libreria: si è passati da un estremismo all'altro, da un fondamentalismo all'altro, e questo non è stato un bene. Oggi la libreria risente del clima di incertezza che vige a livello mondiale, la crisi dei consumi le ha travolte.
Come diretta conseguenza di questo stato di cose, anche la figura del libraio, vaso di coccio tra vasi di ferro, è quella che si sobbarca le trasformazioni più immediate: deve adattarsi ogni giorno a parare le novità, le quotidiane docce scozzesi. Un tempo il libraio svolgeva un mestiere, oggi solo un lavoro. Lavoro sempre degnissimo e importante, ma troppo svilito. Ci sono ancora librai che tengono alto il prestigio di una professione difficile.


La libreria Feltrinelli di Palermo, dove lavora
Salvatore Cangelosi
Da libraio di una grande libreria di catena, si trova ad osservare un campione abbastanza significativo di lettori. Con quali fasce d'età o gusti letterari deve confrontarsi più spesso? In che modo orienta il consiglio letterario?

Occupandomi oggi prevalentemente di saggistica ho a che fare con un tipo di lettore istruito che sa cosa chiedere. Posso vantare un buon rapporto con i lettori; lettori di vario tipo, si intende. In questi 35 anni di professione ho imparato molto dal quotidiano incontro. Parlo in modo speciale dei lettori professionali: come insegnanti, come intellettuali. Come pure con il lettore occasionale, che può essere portatore di un punto di vista originale. A me è successo spesso di sorprendermi per certe intuizioni e osservazioni fatte dai lettori non assidui.
La vita di oggi ci impone dei ritmi che stroncano sul nascere qualsiasi tipo di dialogo. Si corre sempre, perché durante il giorno il libraio deve espletare parecchie funzioni, anche prosaiche. Ma non tutto è perduto, a volte da semplici battute si aprono scenari i cui esiti possono, modificare ciò che credevamo consolidato. Comunque, i miei consigli letterari nascono sempre dalla discussione, mai dal monologo. Anche a me è capitato di cambiare opinione sulla scorta di un giudizio datomi da un lettore. In fondo il mestiere di libraio si modifica giorno dopo giorno.


Spesso si vuole attribuire alla lettura poteri escatologici o capacità di ampliare l'empatia e, quasi, anche la massa cerebrale, oltre alla immancabile funzione ludica. Le farò una domanda molto personale: cosa è, per Lei, la lettura?

Neanche io mi sento di attribuire alla lettura poteri escatologici o empatici. Come ho già detto, sono fermamente convinto che la lettura nasce da un intimo bisogno personale. Allo stesso modo bisogna dire che esistono tanti tipi di lettera, tante modalità.
Ho sempre associato la lettura all'adolescenza. Nella mia adolescenza la pratica della lettura fu una potente rivelazione. Era una forma di resistenza a un mondo chiuso e gretto, che vedeva nel libro una deviazione, qualcosa per perdigiorno. Le letture piu formative le feci durante il servizio militare. Scoprii i classici. Leggevo, come poteva leggere un ragazzo autodidatta, senza una guida, mi fidavo solo del mio istinto; se un libro mi prendeva lo portavo a termine. Potevo leggere Simenon, Flaubert, Sciascia, Volponi... Più tardi ho cercato di dare un senso e un ordine alle mie letture avvalendomi di qualche guida critica.
Non mi sento di dare una risposta definitiva alla coda della sua domanda. Sarebbe da presuntuosi dire cosa è la lettura! Lo scrittore Salman Rushdie a proposito di lettura parla di "intimità tra estranei", è un'immagine molto suggestiva che mi piace segnalare.


E, ultima domanda, ma non meno importante: a cosa serve la lettura, al giorno d'oggi? Perché preferirla a un film o a un videogioco?

A questa domanda non riesco a dare una risposta convincente, perché metterebbe in moto tutta una serie di considerazioni molto personali che voglio tenere per me. Sono geloso del mio rapporto con la lettura. In fondo l'atto della lettura racchiude in sé qualcosa di profondamente misterioso e unico. Ogni lettore è diverso da chiunque altro a qualsiasi latitudine. Infine: non ho mai giocato ai videogiochi. Però anche un film può essere un libro aperto.


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